Disegnare alberi 2 / Uno sguardo nuovo

[di Lorenzo Sartori]

Ciliegio morto.

Tutto nasce (ma era un pretesto, come succede vivendo) da uno sguardo nuovo, chiamato dal tronco di un ciliegio morto. Immagine dalla forza intensa, ha catturato la mia attenzione e non l'ha mollata finché non ho accettato di ritrarlo.

Disegnando, le forme che mi avevano colpito insieme all'insieme perché evocative di altre forme, hanno preso sempre più forza, fino a esigere d'essere disegnate a parte come forme autonome, figure dello spirito: un felino selvaggio che si arrampica o che attacca, il tronco e le gambe di un uomo aggredito da un drago, un uomo o l'Uomo in croce che invoca nel dolore…

Ecco una finestrella, una sola delle mille, e minima pure: un pertugio su tutto il mistero visibile qui e ora, che resta invisibile alla mia quotidianità distratta, abitudinaria, meccanica. Ancora, ne voglio ancora.

Parti del ciliegio morto.

Così, il nuovo sguardo mi accompagna la mattina appresso, nella passeggiata verso l'orto paterno per la via dei boschi, con la voglia di vedere meglio e di più. Con in cuore l'esempio del guardare di Antonella che tutto (tutto, sì) coglieva disinvoltamente sempre, per vocazione, io cammino posando lo sguardo con intenzione su porzioni di paesaggio che nel mio consueto camminare per quelle stradine e sentieri trascuro – e mi accorgo che ciò che di solito trascuro è quasi ogni cosa.

Uno sguardo più vivo e attento cambia tutto, nel mio modo di passeggiare. Intanto sono costretto a rallentare, e molto. A fermarmi spesso. Sono costretto a fare i conti su dove e come appoggio i piedi – così tutti i movimenti dello sguardo devono comprendere frequenti occhiate al terreno subito avanti a me. E rallento ancora l'andatura.

Frassini.

Poi, vedendo di più, ho anche più stimoli a divagare non solo con gli occhi, ma anche coi piedi, percorrendo e andando a calpestare parti di territorio attigui al solito sentiero, divergenti, così scoprendo cose nuove in generale e non solo nuove visioni.

Ciò che potremmo chiamare 'essere qui', e non già alla meta col pensiero, oppure nei pensieri: qui.

Ci sono tanti trucchi per essere qui, camminando e no. Ma ora devo dire del disegnare gli alberi, l'esperienza che è iniziata per me dal nuovo sguardo.

Bagolaro.

All'inizio c'è la chiamata. Ogni albero va bene, sono convinto. Ma a me piace ascoltare la chiamata dell'albero di quel momento lì. Camminare, anziché pedalare, dà tutto il tempo per sentire la chiamata, o la sottile resistenza a una decisione preconcetta. Ascoltare la chiamata è già un principio di relazione, come la scintilla di un'intesa fra umani: poi ci si studia un poco, si fa un respiro d'incoraggiamento perché il compito non si presenta facile quasi mai. Ci si accomoda e si comincia, guardando. Cercando con gli occhi il motivo forte d'interesse, cogliendo l'innesco della fascinazione, forse già trovando un intento di come disegnare.

Preliminari nove volte su dieci disattesi ai primi segni tracciati sulla carta, ma va tutto bene, da qualche parte bisogna partire e disattendere non è peccato.

Carpino.

Quasi sempre c'è un conflitto che, per essere così frequente, ha ormai perso ogni drammaticità di toni e prende il suo spazio come un cappello annunciato nel programma di sala, come una recita cerimoniosa fra due macchiette a cui assisto pacifico quasi che non mi riguardasse: il conflitto fra lo sforzo di fedeltà 'oggettiva' alle forme visibili dell'albero e la ricerca delle sue qualità ed energie nascoste (la risonanza fra i miei visceri e i suoi).

Seguendo ora una strada, ora l'altra, o le molte varianti improvvisabili, ciò che credo di aver compreso è che:

  1. di una costruzione preliminare accurata ho bisogno. Forse è un modo di mettere in primo piano la verità, e l'albero: rinvio a dopo l'auspicato lasciarmi prendere dalla forza dei tratti, per lavorare su proporzioni fedeli. In concreto diventa anche un modo per dare una scaldatina allo sguardo prima di cominciare davvero – e avere una panoramica non superficiale dell'albero;
  2. spesso ho anche bisogno di concedermi il torpore della precisione e dei dettagli superflui, prima che arrivi l'esigenza, o l'ispirazione (o semplicemente l'esasperazione del perfezionismo) a smollarmi nel flusso di disegno buono, quello in cui sento che i segni che traccio sul foglio e i movimenti con cui li traccio sono in sintonia col temperamento dell'albero per come posso percepirlo.

… nel ritrarre l'albero facevo fatica a risentire il senso di ragionamenti e intenti che mi ero dato nei giorni scorsi: l'obiettivo del piacere di disegnare momento per momento, ad esempio. Disegnavo, semplicemente. E anche se per certi versi mi pareva un passo indietro, non me ne importava granché né delle scoperte né del modo di disegnare… mi pareva tutto un giochino irrilevante dell'ego e invece io ero lì col mio albero davanti e il disegnare era solo un modo che mi viene più facile di altri di essere davanti a lui, di osservarlo ed essere in contatto.

(2 - continua)

Per leggere la prima puntata, Disegnare alberi 1 / La distanza dei miei occhi, qui.

Bagolari.