Le storie che curano/ 1. Bambini in ospedale

[di Rossella Caso]



Guarire con le storie è possibile? È proprio a partire da questo assunto che prende le mosse la trattazione di Bambini in ospedale. Per una pedagogia della cura (Anicia, 2015), volume nel quale ho provato a raccontare le esperienze della malattia e dell’ospedalizzazione “con gli occhi” dei bambinie dei ragazzi. Non ditelo ai grandi, titolava un suo prezioso saggio Alison Laurie, alludendo a quella capacità, tipicamente infantile, di osservare la realtà al di là di ciò che appare agli occhi del mondo adulto e di coglierne i significati più profondi e più nascosti. I suoi.

Dei bambini malati, in fondo, si è sempre saputo ben poco. Egle Becchi ce li racconta come esseri storicamente visti – ovviamente dal mondo adulto – più vicini al mondo animale che a quello umano, imperfetti piccoli adulti sospesi tra il qui e l’altrove, che non avevano diritto di pensiero perché incapaci di pensare, né di parola perché non in grado di parlare, e che erano contrapposti, come sostiene opportunamente Egle Becchi, alle figure forti della collettività, non solo i genitori, ma in generale gli adulti, esseri invece parlanti, intelligenti e capaci di generare.




«Anche altri segni – sostienela Becchi in I bambini nella storia (Laterza 1994)– mostrano la non autonomia dell’idea di bambino: la sua frequente assimilazione al regno animale e a figure umili della società, il suo legame con le stagioni, parti della giornata, numeri alla cui insegna è possibile scandire la sua crescita, porre dei termini univoci alle sue età, e con elementi o stati di elementi, riferendosi ai quali è possibile curarlo. Essere incerto, quindi, perché impreciso, inquietante nei suoi silenzi di sé, stimolante a dirne e a trattarne in modi assai eterogenei».  Ritenuti incapaci di raccontar-si, bambini e bambine venivano così ritratti dai grandi in narrazioni che li costringevano in un essere, ma soprattutto in un dover-essere pedagogico, religioso o politico che non lasciava spazio alcuno per il potenziale sovversivo di regole e modelli dell’esistente e quindi creativo che l’infanzia, nella sua alterità, porta con sé. Riconosciuti socialmente dapprima solo come piccoli adulti, in seguito come figli o scolari, erano invece invisibili nei loro reali pensieri, emozioni, modi di vivere e di vedere la realtà, ma soprattutto in quanto appartenenti a un’età particolare dell’esistenza umana, dotata di bisogni specifici, connessi ai percorsi di crescita e di sviluppo che dovrà affrontare.  

Il cammino per “ritrovare” l’infanzia avrà inizio relativamente tardi, in quel XX secolo che Ellen Key ha significativamente definito “il secolo dei fanciulli” e che ha visto, tra gli altri eventi, l’approvazione di quella Convenzione Onu sui Diritti dell’Infanzia e dell’Adolescenza della quale proprio in questo mese ricorre l’anniversario.

 

Nel testo vengono ripercorse molte delle tappe che idealmente, stando a quanto definito da quelli che nei documenti ufficiali vengono definiti “Stati Parti”, avrebbero dovuto portare al riconoscimento dei diritti del bambino e della bambina, per la prima volta identificati come soggetti “competenti”, in grado di dire la propria sulle questioni che li riguardano direttamente e le cui voci, soprattutto, debbano essere tenute in “seria considerazione”.

Quanto è vero, tutto questo, per il bambino e la bambina ricoverati in ospedale? Che cosa si intende quando nell’articolo 24 della Convenzione si sostiene che ogni bambino ha diritto a «godere del miglior stato di salute possibile e di beneficiare di servizi medici e di riabilitazione»? Mi soffermerei, in particolare, sul concetto di «miglior stato di salute possibile». Di quale “sostanza” è fatta la salute dell’infanzia? Di nutrimento, sicuramente. E di medicine che aiutino a ristabilirla quando si sta male. Ma anche di coccole, di abbracci. Di calore. E – questa è l’ipotesi portante del volume – della voce di un adulto “curante” che racconti delle buone storie e che aiuti il bambino o la bambina ricoverati a narrare le proprie.

L’ospedale, del resto, si legge nel volume, può essere visto come «un crocevia di storie»: di medici, di infermieri, di bambini e di bambine, di mamme e di papà. Storie alle quali talvolta, specialmente i più piccoli, non sanno dare un senso. Le parole di una fiaba, di una favola, di un racconto, possono in questa direzione venire incontro alle loro esigenze di chiarezza, di significazione, che, come scriveva Bruno Bettelheim, rappresentano l’impresa più forte e più difficile. La chiave della risoluzione non sta solo ed unicamente nella struttura e nella trama della storia – quella della fiaba è, in fondo, la struttura universale di ogni narrazione ed è per sua propria natura salvifica – ma nello stesso gesto del raccontare, da parte dell’adulto curante: un gesto che unisce, in una relazione fondata sulla fiducia e tesa alla cura, narratore e ascoltatore nel viaggio comune rappresentato dalla storia.

 

Un buon educatore – quello che nel volume viene identificato come l’Educatore Ospedaliero per l’Infanzia – dovrebbe utilizzare le storie come veicolo privilegiato di relazione e di cura del piccolo paziente.

Il riconoscimento del legame tra storie e salute – intesa come benessere psico-fisico dell’individuo – ha indotto negli anni Novanta un gruppo di studiosi di area anglosassone a elaborare le basi teoriche della cosiddetta bibliotherapyo reading-therapy, in italiano “biblioterapia”o “libroterapia”. Termine che nella definizione classica rimanda alla pratica del «curare attraverso i libri», o meglio attraverso le storie che quei libri raccontano. Il Webster New Collegiate Dictionary la definisce come una metodologia di sostegno per la soluzione di problemi personali fondata sulla pratica di una lettura “guidata”. Analoga la definizione dell’American Library Association, che la annovera tra gli strumenti di supporto alle pratiche terapeutiche in medicina e in psichiatria.

Si è visto come la narrazione possa essere uno strumento “attivatore” di resilienza ed è proprio su questa base che secondo E. Schlenther e M. Anderson, tra gli altri, leggere ai bambini e alle bambine che si trovino a vivere una situazione “di emergenza” storie che si colleghino ai loro bisogni interiori può essere un valido modo per prendersi cura della loro crescita e del loro sviluppo, che in queste situazioni non deve e non può arrestarsi.

 


Le evidenze scientifiche da loro raccolte nell’ambito di ricerche condotte con bambini ospedalizzati mostrano che la lettura favorisce nel piccolo paziente lo sviluppo personale, l’adattamento, l’igiene clinica e mentale, il problem solving. Starker ha dimostrato come l’uso delle storie in ambito pediatrico migliori le capacità di far fronte ai problemi di salute e alle cure mediche, fornisca conforto e riduca i livelli di stress. Se, con Bruner, la narrazione è fabbrica di senso dell’esistenza umana; se, con Calvino, le fiabe sono il catalogo dei destini che si danno all’uomo e alla donna, in ospedale le storie possono fungere da “bussole di carta”, da “sassolini” che consentiranno al piccolo paziente, come Pollicino, di attraversare e ri-attraversare la foresta per tornare a casa più grande, più forte e più ricco dopo aver vinto il proprio orco o lupo “cattivo”: la malattia.

 


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Malattia e ospedalizzazione possono essere delle esperienze altamente “spersonalizzanti”: il bambino costretto a separarsi dalle proprie abitudini quotidiane, dai propri oggetti, dai propri affetti a causa del ricovero in ospedale può, specialmente se molto piccolo, sentirsi abbandonato dall’oggetto del proprio amore, la madre, e in generale dai propri punti di riferimento affettivi: parenti, insegnanti, amici. Persone che spesso, non essendo in grado di gestire i loro stessi sentimenti rispetto alla malattia del bambino, finiscono col negare al piccolo la possibilità di provarne, quasi come se non fosse in grado di avvertire ansia, tristezza, paura, dolore, proprio in quanto bambino.

Se da un lato questa idea consente ai genitori di non sentirsi completamente schiacciati dalla malattia del figlio, dall’altra induce spesso il piccolo paziente a fare finta di non provarne, nel timore che la mamma e il papà non sarebbero in grado di sopportare il peso della sua sofferenza bambina.