Stare nella foresta

«… l’intento che mi ha spinto a raccontare sta nel desiderio di affermare con forza che i bambini devono essere ascoltati, perché di fronte al bello, alle difficoltà e anche alle tragedie della vita, sono capaci di nitidezza ed autenticità rare, che credo faccia bene a tutti incontrare.»
Franco Lorenzoni, I bambini pensano grande, Sellerio

[di Cristina Bellemo]

Queste storie dei bambini, la prima volta, mi hanno lasciato senza fiato. Sopraffatta dalla potenza narrativa, dalla forza disarmante delle loro figurazioni, dalla precisione affilata dei dettagli. Dall’intensità. Dall’emozione.
Non smettono mai di sorprendere, i bambini. E non è quella sorpresa che tradisce mancanza di vera fiducia nelle possibilità di raggiungere tanta limpida altezza. È che i bambini sono capaci di far ri-suonare ogni volta nuove le loro parole. Inaudite. Di farci nuovi di fronte ad esse. Sono capaci di dire mondi, e universi, in tre vocaboli, che noi ci metteremmo dieci libri e sette seminari, per dire, e senza la stessa qualità, e senza la stessa autenticità, e purezza. La capacità di dire che è propria dei poeti, e dei bambini. E dei poeti bambini.

Nella foresta veramente scura, copertina Violeta Lopiz.

Mettiamoci in ascolto della parola bambina. Non per dovere, ma per sincero desiderio. La parola che ti attraversa dritta e diretta, e va a toccare il tuo dentro, in fondo in fondo nel profondo. Lì dove quasi nessuno riesce a raggiungerti. Con la naturalezza anche un po’ indiscreta della verità senza filtri, che i filtri si sanno solo dopo, quando si diventa grandi, e si bada bene a non dirsi troppo, e a non dirsi tutti. Quasi che il non dire facesse che certe cose scomode non sono, e non ci sono.
Collaboro con A.B.C., acronimo per Associazione per i Bambini Chirurgici dell’ospedale pediatrico Burlo Garofolo di Trieste, da parecchi anni.
A.B.C. è una cosa grande nata dalla storia piccola di una mamma e di un papà, Giusi Battain e Luca Alberti, e di Riccardo, il loro primo figlio: appena venuto alla luce, Richi ha dovuto affrontare un lungo cammino chirurgico, che si sapeva necessario già dalla pancia. Con lui mamma e papà. È stato doloroso, e anche spaventoso. Per tutti.

Giusi e Luca Alberti.

Le esperienze possono essere fertili in molti modi. E Giusi e Luca hanno pensato che dalla loro esperienza potesse nascere qualcosa per le famiglie che devono inerpicarsi per i sentieri chirurgici. Entrare in certe foreste veramente scure.
Così è nata A.B.C. Ha fatto molte cose, in questi anni: ha messo a disposizione delle famiglie una psicologa e psicoterapeuta, la dottoressa Rosella Giuliani; ha offerto un appartamento in cui le famiglie che provengono da fuori Trieste, e accompagnano i bambini per periodi anche molto lunghi, possono stare gratuitamente (il sentirsi a casa che ha a che fare con l’accettare di abitare una storia da cui talvolta si vorrebbe solo scappare); ha finanziato borse di studio per giovani medici e sostenuto la ricerca scientifica; ha contribuito all’acquisto di strumentazione medica all’avanguardia; ha finanziato lavori di ristrutturazione. E tante altre cose, sempre con quell’attenzione prudente e misurata che viene dal sapere che cosa significa.

Nel 2015, A.B.C. ha compiuto dieci anni: un traguardo importante per un’associazione che si sostiene sull’impegno volontario e sulla raccolta di fondi provenienti per gran parte da donazioni e da gesti di solidarietà, e dalla gratitudine delle famiglie che sono passate attraverso. Per festeggiare, A.B.C. ha pensato di fare un libro, nella convinzione che per serbare memoria di un momento prezioso si debba scegliere un oggetto specialmente prezioso.
Un libro, dunque. E che libro? Il germoglio dell’idea viene proprio da Giusi e Riccardo. Mamma e figlio.
Come si raccontano le cicatrici che la sala operatoria ha lasciato sul corpo, sulla pelle, nella vita? Giocando una storia, proprio al modo dei bambini. Questo è il cuore del progetto, colto nel suo germoglio da Matteo de Mayda, che poi ne è stato il direttore artistico.
I bambini e le loro famiglie a cui è stato proposto il coinvolgimento hanno deciso con libertà e franchezza: sapevano che libro sarebbe stato. Qualcuno ha detto no.

Illustrazione di Michiko Tachimoto.

Hanno incontrato Rosella, che conoscono e di cui si fidano, perché accanto a loro ha attraversato certe foreste. Lì hanno trovato tanti giochi. Hanno scelto. E hanno giocato la loro storia. Dinosauri, leoni, leopardi, cani, pasta con le cape, automobili con le strisce e carri attrezzi, strane fattorie, ponti, cavalli leggendari, maiali, macchine stracariche, meccanici, bruchi, farfalle, rane rosse, pozioni magiche color ciliegia, peluche, puzzette, proprio tantissime puzzette, e anche puzzone. Mondi variamente popolati come solo i bambini sanno. E ospedali e cicatrici e interminabili viaggi. E teste che si perdono. E corpi. E l’essere corpi.
Cose belle e cose brutte, cose facili, e difficilissime.
Sono storie in cui le cicatrici diventano marchi di possibilità, di identità, di fiducia, di coraggio anche. Il coraggio è una delle vie possibili, ce ne sono altre, e i bambini le sanno nominare, senza giudicare.

Rosella Giuliani.

Rosella, d’accordo con loro, annotava sui fogli con una matita. Niente registratore. Niente telecamere. Solo la matita. E l’attenzione di Rosella, il suo impegno a farsi custode delle storie. Così abbiamo voluto definirla nel colophon del libro: con un ruolo certamente inusuale e inedito per un colophon. Custode delle storie. Perché il senso vero del libro è proprio custodire il dire bambino. Che viene, per me, ancora prima dello scopo solidale, pur preziosissimo, di accantonare attraverso la distribuzione del libro fondi per mettere a disposizione delle famiglie un’altra casa a Trieste.
Custodire il dire bambino prima di tutto per il suo valore, e la sua dignità. Custodirlo perché trovi spazi schietti di ascolto, e di accoglienza, e sia detto e ancora detto, e dica e parli. Potentemente parli. E faccia sapere. E possa contribuire a far capire.
In completa sintonia e collaborazione con Rosella, mi sono presa cura dei testi e delle parole che nel libro abitano: entrambe noi determinate a rispettare la narrazione dei bambini. Avendone cura, appunto.
I bambini, talvolta, hanno voluto proprio dettare.

Illustrazione di Gabriella Giandelli.

Dieci bambini, dieci storie. Affidate poi, una per ognuno, a dieci illustratori (scelti e coinvolti da Matteo de Mayda). I quali hanno detto le storie a modo loro, ciascuno in una tavola, con la potenza sintetica dell’arte. Mostrando di aver colto in pieno il significato, e il sentire dei bambini, segretamente complici del loro immaginario.
Il titolo, Nella foresta veramente scura, è un frammento di puro cristallo, attinto dalle parole stesse dei bambini. Viene dalla storia di Nina: nella foresta veramente scura della sua storia ci sta un lupo cattivo, infatti.
La copertina, bellissima, di Violeta Lopiz dice la foresta intorno, in prima di copertina. La foresta dentro, in quarta. Dopo essere passati attraverso le storie.
Sono proprio entrati nella foresta, questi bambini, e loro come tanti altri. Hanno dovuto starci, anche molto a lungo. Nella foresta della malattia, del dolore, degli interventi, innumerabili, in sala operatoria, delle speranze e delle delusioni, della stanchezza e del sogno, degli interrogativi spesso senza una risposta accettabile.

Illustrazione di Roberto La Forgia.

E spesso hanno dovuto entrare nella foresta sin da quand’erano nelle pance delle mamme.
La foresta è un simbolo perfetto. E quell’avverbio, veramente, ha il colore e la genuinità del raccontare bambino.
Queste storie sono pepite d’oro. Sono un punto di vista dei bambini sulla malattia, svelano. Ci accompagnano a comprendere. Non ci risparmiano, hanno una forza ruvida, un tono stridente, un dipanarsi scomodo, parole scostanti.
Il lieto fine, le possibilità di un futuro che non sia resa o ripiegamento, il vissero infine felici e contenti arrivano talvolta aspri, spigolosi. E prima, e dentro, ci sono tutta la fatica, lo smarrimento, la paura, lo sconforto, il rifiuto, la rabbia. E il bisogno di tutti quelli che, in diverso modo, devono prendersi cura. L’urgenza di una comunità accudente da cui nessuno può sentirsi esonerato.
Queste storie sono necessarie. Sono storie che devono essere dette. Pepite d’oro davvero. Se solo si solleva anche poco poco il coperchio di questo scrigno, splendono fuori prepotenti:
«una di quelle puzze che, quando la senti, ti resta incollata dentro il naso»
«Questa cicatrice sotto il pelo della tua pancia è la conferma che tu sei proprio mio figlio Leo»
«sa che può fidarsi di quel meccanico»
«farsi dipingere il pezzetto che ancora non c’è»
«la fatica e l’impegno che ogni animale ci metteva a essere proprio lui»
«non ci capivo niente»
«le stanze dell’ospedale: è solamente una sottile parete che le separa dalle stanze della casa della festa»
«i cuccioli crescevano imparando a fare i dinosauri»
«per tutto quel brillare, i suoi genitori lo chiamarono Tesoro»
«agli animali però le puzzette non facevano male, solo un po’ male al naso»
«c’era una volta una bambina che perdeva la testa».

Illustrazione di Philip Giordano.

Ogni singola parola.
Alla prima presentazione a Trieste ho osservato alcuni dei piccoli autori delle storie.
Giulia, in prima fila, stringeva con fierezza il libro come a dire: è cosa mia. Nel libro a dire di Giulia c’è anche la parola quarantadue. A nove anni e mezzo, quarantadue sono gli interventi chirurgici che Giulia ha subito.
E Orazio si era messo elegante, giacca e cravatta, per dire quanto era importante.
E una mamma, che mi ha fermato, per dire grazie di come sono le storie nel libro. «Io c’ero quando mio figlio ha raccontato la sua, ed era così come voi l’avete custodita».
Dire, ecco.
Nell’ultimo numero de L’AbBeCedario, la rivista che da anni prepariamo per raccontare A.B.C. e la vita dell’ospedale, Rosella ci spiega, presentando Nella foresta veramente scura, che quando le cose possono essere dette, significa che le sentiamo parte della nostra storia, le abbiamo accolte in noi. Le cose, quando possono essere dette, sono meno pericolose, meno minacciose, fanno meno paura.
In queste pagine i bambini ci chiamano, chiamano ognuno di noi lettori a entrare nella foresta, a starci dentro. Ci mostrano, proprio loro che noi spesso sappiamo pensare solo come destinatari di protezione, che a volte si devono raccontare anche storie difficili, dove tutto va diversamente da come abbiamo immaginato e desiderato.
Le loro narrazioni, pur strenuamente illuminandosi di amore alla vita, sono capaci al contempo di riservare rispetto e di dare voce anche ai bambini che dalla foresta non sono ancora usciti. E a quelli che non ne usciranno mai più.
A noi lettori, buone avventure in questa foresta veramente scura, dentro la quale brilla, intera e intatta, la bellezza bambina.

Illustrazione di Guido Scarabottolo.

Per prenotare una copia di Nella foresta veramente scura. Storie di avventure, cicatrici e coraggio potete visitare il sito di A.B.C. o scrivere a Chiara Devita.
Violeta Lopiz ha illustrato la copertina, Felicia Hoshino, Guido Scarabottolo, Giorgio Cavazzano, Francesco Altan, Michiko Tachimoto, Philip Giordano, Nicoletta Costa, Gabriella Giandelli, Roberto La Forgia ed Elisa Fabris hanno illustrato le storie di Benedetta, Francesco, Gabriele, Giulia, Laura, Matilda, Mattia, Nina, Orazio e Valentina.
Direzione artistica: Matteo de Mayda.
Psicoterapeuta infantile e custode delle storie: Rosella Giuliani.
Cura dei testi: Cristina Bellemo.
Design: bruno.
Formato: 24 x 16,5 cm, copertina rigida, 96 pagine.

Illustrazione di Violeta Lopiz.