Un coniglio in una famiglia di topi

Abbiamo avuto, per la prima volta, un'assistente fieristica: un Topo avventizio temporaneo salariato. Lo abbiamo selezionato con cura e trattato con i guanti. Poi gli abbiamo chiesto di raccontarci le sue impressioni. Eccole qua.
 
Tre giorni da assistente editore
a Più libri più liberi 2016.
[di Giulia Coniglio]
 
A interrompere le mia abitudinaria vita da aspirante autrice/illustratrice è stata una telefonata ricevuta in ottobre da Topipittori. Paolo e Giovanna mi chiedevano di lavorare con loro a Più libri più liberi, la Fiera Nazionale della Piccola e Media Editoria, giunta alla sua quindicesima edizione. Senza esitare, ho accettato. 
 
E così, un giovedì pomeriggio arrivo con il mio zainetto allo stand dei Topi, avvolto dall’inconfondibile odore di libri e di formaggio fuso, in quel caldo cubano tipico di ogni evento espositivo che si rispetti. Paolo e Giovanna sono seduti dietro il tavolo. Indosso il cartellino da espositore fingendo una discreta disinvoltura ed eccomi pronta a vendere libri.
 
Io le fiere di editoria le ho sempre frequentate da studentessa/studiosa, al massimo nei momenti di alta autostima da aspirante illustratrice, ma mai da commerciante/assistente editore. Penso, detto proprio sinceramente, che tutti dovrebbero provare a vendere un libro. Io da figlia di commercianti dico che è una delle cose più difficili al mondo.
 
 
Se non hai amore per i libri, non puoi venderli. I libri non sono normali beni di consumo che basta sapere come sono fatti e da chi, per poi contare sul fatto che il consumatore arriva preparato (dalla pubblicità, dal passaparola) all'acquisto. I libri sono oggetti sconosciuti che si vendono convincendo ogni compratore, uno per uno; e per convincerlo, devi conoscerli e averli letti; e se non sei convinto almeno un po' della qualità di quel che proponi il tuo cliente se ne accorge e alla fine non compra. E con gli albi illustrati è perfino peggio.
 
 
L'ambiente, poi, non aiuta. È come essere dietro a un banco del mercato rionale con la coda che si allunga e un abbigliamento troppo pesante per la stagione. Si suda! Oh, come si suda! E in coda non ci sono massaie con le idee chiare che vogliono due broccoli romani, un chilo di mele stark e un cespo di cardo gobbo, ma un mucchio di clienti a cui serve “un libro” (non “IL libro”, perché già questo semplificherebbe le cose). A richieste e spiegazioni sempre troppo vaghe il cervello reagisce sfogliando in un tempo record il catalogo generale della casa editrice alla ricerca di qualcosa che corrisponda al caso. Trovato il qualcosa, gli occhi scansiscono lo stand, la mano si muove e acchiappa un libro. A questo punto, avete a disposizione quattro battute per raccontare la storia, sfogliando le pagine con un ritmo che dia il tempo al vostro interlocutore di godere delle immagini senza rovinare l'effetto sorpresa. Capite di avere sbagliato qualcosa appena lo sguardo del potenziale acquirente comincia a vagare altrove.
 
 
La clientela è varia. Davanti a voi ci sono: bambini con raffreddore o senza, ma con le mani sporche di pizza; genitori colti, meno colti, stanchi, sudati, spazientiti perché hanno appena finito il giro dell'isolato per far addormentare invano i più piccoli sul passeggino; nonne che sanno tutto; nonni che non sanno dove si trovano; zie in ansia da regalo; cognati che hanno lasciato la speranza all'entrata; editori che vengono a sbirciare le nuove uscite, ma che ci tengono a far vedere le loro (libri scambiati al sapore di buon vicinato); commessi viaggiatori che ci tengono a sfoggiare il loro sapere per non far fare brutta figura a chi li ha mandati. 
 
 
Poi, da lontano, li senti arrivare: gli autori. Quelli che hanno cominciato a pubblicare nelle fanzine anni ’70, che anche quando se ne vanno lasciano una scia di ego che per mandarla via devi usare lo sgrassatore Chanteclaire; quelli che hanno pubblicato qualcosa di veramente buono, e li riconosci perché sono pudichi, quasi timidi; quelli “ancora” inediti, all'apparenza impauriti ma che finiscono per sdraiarsi sul tavolo, rischiando di buttare tutto a terra.
Da presso segue la categoria a me più cara, quella a cui nei momenti di delirio mi sento di appartenere: gli illustratori. Cari colleghi avete presente quando ai corsi oppure nei blog degli artisti affermati ci consigliano di non presentare il portfolio in fiera senza appuntamento?
Ecco c'è un motivo molto semplice, gli editori in questi cinque giorni non sanno neanche come si chiamano quindi: 1) approfittare per studiarvi tutto il catalogo dei vostri beniamini, ordinatamente esposto nello stand (fa ottima impressione); 2) contenete l'ardore; 3) limitatevi a chiedere una mail di riferimento per inviare i progetti; e 4) godetevi la fiera.
 
 
Buoni ultimi, in questo serraglio di tipi umani, gli amatori. Di solito non hanno figli; anzi non amano il concetto di bambino in sé. Ma i libri illustrati sì. Hanno una gran cultura, pretendono tantissimo da te che sei li in mezzo a questo circo e ti fanno domande come se dovessero darti il voto, pretendendo in pochi secondi risposte che, per riuscire appena sensate avrebbero bisogno di una colonica tra le  colline del Chianti, di un piatto di ribollita, di un vino d'annata e di un camino acceso.
 
Tutto questo per 10 ore, con una veloce pausa pranzo. Una follia divertentissima.
 
 
Per me, questi tre giorni sono stati fondamentali per capire una cosa molto importante: un libro non è solo una cosa intellettuale e creativa, un desiderio di realizzazione o un oggetto per pochi.
Un libro ha un costo, si vende, ci si guadagna da vivere, sta alle logiche di mercato ed è un oggetto economico molto concreto e reale. Il suo esistere unisce mondi che altrimenti non si toccherebbero mai. Va pensato, progettato, prodotto, distribuito e, cosa più importante, venduto. Come un qualsiasi tavolo, secchio o bicchiere.
Prima di questa Fiera, questa era una cosa che solo immaginavo. Adesso, invece, la so. Come dice una delle mie insegnanti: per ogni libro esiste un lettore che vuol dire tanti e unici. In una fiera si ha il privilegio di conoscerne molti per nome e di capire che chi compra un libro non necessariamente ci cerca quel che tu hai pensato contenesse. 
 
 
In tre giorni ho visto comprare libri per amore, per piacere, per desiderio di possesso, per farne regalo, per solleticare l’autostima, per senso estetico o di protagonismo, per studio, per solitudine oppure, semplicemente, per spendere soldi. Qualunque sia la motivazione, non so se comprare un libro ci renda migliori; venderlo, sicuramente, sì. È un po’ come quando riusciamo a mettere d’accordo la persona che pensiamo di essere con quella che realmente siamo.
 
La scorsa estate un editore a me molto caro durante un corso mi ha detto che quando si vuole fare un libro bisogna pensarlo in quanto oggetto e che questo viene prima di tutto il resto.
Mi sa tanto che aveva ragione.