Mio figlio mi adora. Intervista a Laura Pigozzi.

Il nostro lavoro di editori ci porta spesso a contatto con i bambini e i contesti a loro dedicati. Le scuole, per esempio, o le biblioteche, le ludoteche, i festival, le librerie... Per noi queste situazioni sono un momento di confronto diretto molto interessante, che ci permette di osservare con attenzione i piccoli e chi si prende cura di loro: genitori, insegnanti, parenti, amici. In 12 anni di questo lavoro abbiamo toccato con mano il cambiamento epocale che ha rivoluzionato le relazioni fra bambini, ragazzi e adulti. Un cambiamento che per la rapidità e l'intensità spesso ci ha dato l'impressione di sfuggire alla comprensione, di resistere a spiegazioni, a tratti inquietante, forse proprio per la difficoltà che si incontra ad analizzarlo con gli strumenti a disposizione, che, nel frattempo, sono invecchiati. In poco tempo, per esempio, e per numerose e complesse ragioni, la distanza fra mondo familiare e scolastico si è talmente ampliata da diventare una frattura. Il patto educativo sembra essersi infranto. La fiducia, pilastro su cui ogni progetto collettivo fonda la sua stabilità e la sua forza, è crollata. È scomparsa una lingua comune, quella che sola permette un confronto e una comunicazione possibili, pur nella difficoltà che questo ha sempre comportato. Al suo posto vi sono le lingue affettive dei singoli, delle famiglie, linguaggi di culture familiari e individuali che faticano a trovare modi di relazione. Quando si osservano i bambini, sia a scuola sia in famiglia, si ha l'impressione che il progetto educativo, familiare e scolastico, sia fortemente compromesso, e i bambini e gli adulti in balia di qualcosa che è difficile nominare, analizzare, persino riconoscere. Per questa ragione il libro Mio figlio mi adora. Figli in ostaggio e genitori modello, scritto da Laura Pigozzi (qui le informazioni sul libro e sulla sua autrice) ed edito da poco da Nottetempo, ci è parso un libro nuovo, necessario e importante. Perché indaga situazioni scottanti e trova un linguaggio per descriverle, perché dà conto, con grande onestà e lucidità, e anche coraggio, di problemi che pur sotto gli occhi di tutti non vengono riconosciuti come tali, rischiando di venire sdoganati come normali prassi familiari, nuovi costumi affettivi e relazionali da accogliere nel nome di una difesa dissennata e di una accettazione indiscriminata delle libertà del singolo, tipiche del nostro tempo. 
Per questa ragione, abbiamo sentito la necessità di presentare questo libro, spesso illuminante nella sua chiarezza, ponendo alcune domande alla sua autrice, certi che come queste pagine sono servite a noi per mettere a fuoco il tempo in cui viviamo e il modo in cui lo viviamo in relazione ai bambini, così potranno essere utili ad altri. 
 
Qual è stato l'innesco di questo libro, la necessità insopprimibile da cui nasce?
Ho scritto questo libro a causa di un turbamento e di una preoccupazione: vedevo consumarsi in famiglia una sorta di nuova barbarie poco riconoscibile perché sembrava avere un buon sapore, una modalità nuova dell’“affettività” - che affettività non è -  e che in realtà genera dipendenza. Se si vuole avere un popolo schiavo, plasmabile, governabile basta renderlo dipendente da qualcosa, non importa cosa, le “droghe” si equivalgono tutte quanto a meccanismo psichico. Che lo si renda dipendente dalla religione, dalle sostanze o da una famiglia chiusa, la questione non cambia. Il risultato è che il soggetto non ha più speranza di esistere in quanto tale.  Ho scritto questo libro perché, al contrario, ho ancora la speranza che i nostri figli possano diventare abitanti del mondo e riconoscere che la claustrofilia famigliare è nemica del collettivo. Anche se può servire al discorso pedagogico, vorrei che questo libro venisse recepito innanzitutto come "politico" (e psicoanalitico) perché è stato scritto a favore di un nuovo orizzonte di civiltà. In questa cornice ho introdotto il neologismo di “Plusmaterno”, una nuova dinamica servo-padrone in cui è la figura della madre a ricoprire il ruolo dominante e che non insegna ai figli a prendere il volo, concetto a cui ho dedicato il capitolo centrale del libro.
 


 
Nel capitolo 5 del tuo libro riporti una frase di Hannah Arendt: “Gli esseri umani sono fatti per incominciare”. Cosa significa esattamente?
Incominciare è il contrario di ripetere. La ripetizione è una forma della dipendenza, l’incominciare è il suo taglio. Perciò ogni preadolescente o adolescente che opera un atto con cui si separa dalla famiglia – che siano le vacanze nella casa dei nonni o dell’amico, gli studi all’estero, o un viaggio con una organizzazione – pone una nuova nascita di sé, incomincia di nuovo la vita perché è capace di curiosità quotidiane e continue. È per questo che, se per esempio viaggiamo - tutti intendo, grandi e piccoli - anche per pochi giorni, ci sembra di essere stati via molto più tempo: ci sentiamo esistere perché incominciamo di nuovo, sperimentiamo di nuovo, inventiamo di nuovo, come fa ogni essere umano che comincia a vivere. Ed è un'attitudine che mal tollera il genitore Pigmalione, quello che vuole i figli-fotocopia.
 
In tempi di rivendicazione della famiglia naturale, tu alla famiglia come fatto biologico, opponi la sua natura eminentemente culturale. Scrivi una cosa molto importante: «La famiglia è il luogo in cui la parola costruisce gli esseri umani, nel bene e nel male. […] Quello che fa padri e madri non è il sangue ma la parola.»
La famiglia è un luogo di scambi, è un collettivo quotidiano, tanto che in molti gruppi umani i padri e le madri sono multipli ed equivalenti, senza che i genitori biologici abbiano una prevalenza su quelli sociali. L’etimologia di famiglia non contempla per nulla l’idea della procreazione, perché “famiglia” – dal latino familia, che deriva da famu ̆lus, ossia “servitore”, “domestico” – indica semplicemente l’insieme dei membri anche non consanguinei che condividono un nome e delle regole. La famiglia è frutto di un patto e, infatti, ogni cultura esprime un suo modello familiare e gli antropologi ne contano diverse decine. Inoltre, il rapporto più biologico di tutti, il legame madre-figlio, non può considerarsi nucleo fondativo universale della famiglia: la maternità, infatti, non è mai, in nessuna epoca e in nessun gruppo umano, la condizione essenziale di una famiglia. A noi pare strano oggi, ma la famiglia è sempre stata innanzitutto un luogo in cui deve funzionare un progetto educativo, e gli aspetti affettivi sono sempre stati al servizio di quel progetto. 

 


 
È molto interessante una definizione che si incontra fin dalle prime pagine del libro, quella di famiglia claustrofilica.
È quella famiglia in cui prevale l’amore per il chiuso della casa a sfavore dell’incontro e dell’apertura verso chi non appartiene alla casa. In un tempo in cui il mondo appare insicuro - anche se a ben vedere non è mai stato tanto garantito - la casa sembra l’ultimo rifugio, come se vivessimo sotto minaccia costante. Questo genera un atteggiamento diffuso di paura per l’estraneo e per lo straniero e che riverbera sul piano sociale e politico. Stiamo formando una umanità chiusa e paurosa, il contrario di ogni idea di futuro. Chiusura e paura sono sinonimi.
 
Un'altra definizione che si incontra è quella di famiglia monogenitoriale che definisci “un autentico ossimoro”.
Una famiglia si istituisce con un patto tra due adulti che si uniscono in matrimonio o in convivenza. Dunque, un solo adulto sarà un monogenitore, un genitore single, ma non una famiglia. La famiglia monogenitoriale è una contraddizione palese, un po’ come quegli ossimori di comodo come “elettroshock terapia”, “etica degli affari” o “fuoco amico”. Per far famiglia bisogna essere almeno due: due genitori per la famiglia classica, tre o quattro per quella ricostituita. La regola dell’almeno due è importante perché la famiglia non suoni in mono, perché non ci sia un'unica parola che detta legge e regole. È  importante che nel caso di una decisione famigliare un figlio ascolti una discussione tra i genitori sul tema, piuttosto che una continua mancanza di confronto. Altrimenti crescerà con l’idea che solo uno debba decidere sempre e non avrà la possibilità di comprendere un elemento fondamentalmente del pensiero, quello dialettico.
 
Quali sono i tratti caratteristici del genitore pigmalione?
Come il personaggio del mito, il genitore pigmalione desidera, sopra ogni cosa, plasmare un figlio. Si tratta di un genitore che non accetta il fatto che un figlio sia qualcosa di diverso, anche molto diverso da sé, a volte esattamente l’opposto. Questi genitori hanno la vocazione all’insegnamento dogmatico, a volte sono essi stessi insegnanti. La dissidenza del figlio non è ammessa e il plagio che impongono alla prole non di rado è occultato da premure.
 


 
Identifichi due tipi di materno, quello maiuscolo, incarnato dalla Madre, e quello minuscolo, di madre. Cosa le differenzia?
Questo discorso è molto articolato, ma per renderlo lineare possiamo dire che la Madre in maiuscolo è una madre che si pensa tutta madre, non mancante, quindi la madre esemplare. Mentre la madre in minuscolo è quella che riconosce la propria finitezza, la propria mancanza e anche i propri fallimenti. Una madre che però ha dalla sua il non aver dimenticato di essere donna per un partner. Questa è la madre che può testimoniare l’amore. In minuscolo.
 
All'inizio del capitolo 3 scrivi: «“Il mondo esiste solo grazie ai bambini nelle scuole” dice una massima ebraica, in cui l'immagine chiave è nelle scuole, cioè nel sociale del bambino.» Ci spieghi?
La scuola è il mondo del bambino, il luogo in cui esercita i primi confronti e, soprattutto, le prime alleanze. Un luogo in cui impara le regole del mondo anche se non necessariamente coincidono con quelle della famiglia. Anzi, una maggiore differenza lo aiuterà a pensare. Perché pensare significa trovare una soluzione creativa per collegare ciò che sembra contraddittorio. Quindi, la famiglia farebbe bene a riconoscere la scuola come un’altra agenzia educativa, indipendentemente dal fatto che la scuola sia più o meno buona, più o meno prestigiosa. La sua funzione di incontro con il mondo la esercita anche quando al genitore sembra che quella scuola non sia il meglio per il proprio figlio. Contestare la scuola tout court è chiudere la porta al mondo del figlio, è insegnargli che la famiglia ha sempre ragione ed è l’unica istanza cui prestar fede. Cosa che palesemente non è.
 
Mio figlio mi adora sposa alla chiarezza una prosa elegante, che coniuga il sapere teorico all'esperienza, la psicoanalisi e la letteratura alla possibilità per il lettore di trarre insegnamenti preziosi per l'esistenza e i comportamenti. Per esempio quando tocchi temi come il co-sleeping, le vacanze, la scuola, e persino l'antropomorfizzazione degli animali da compagnia, fenomeno sempre più inquietante e dilagante.
Ci sono dei fenomeni nella famiglia contemporanea che sembrano essere il risultato di un grande amore, di una grande attenzione verso il figlio, ma non lo sono. Una di queste è il co-sleeping: finito il tempo cui la simbiosi madre-bambino è necessaria a fornire al piccolo la sussistenza fisica e psichica, tenere il bambino nel proprio letto per lungo tempo, a volte anche per anni, testimonia, più che della cura verso il minore, della insicurezza di una madre nel sentirsi amata dal proprio figlio. Se come madre non ho bisogno di essere rassicurata da tali prove filiali, potrò più congruamente dividere il letto con il partner, testimoniando così al figlio dell’esistenza di una coppia che istituisce il limite al desiderio incestuoso per il corpo della madre (non dimentichiamo che il bambino ha una sessualità) e che, contestualmente offre un esempio di relazione adulta.
 
Foto © Jacqueline Roberts 

 
Quali sono le cause, a tuo avviso, di questo bisogno di dipendenza che cova nelle persone e che altera i rapporti amorosi, amicali, professionali e familiari, fino a renderli, nelle sue forme più pesanti, tossici. È un problema del nostro Paese, o si riscontra anche altrove?
Il bisogno di dipendenza, protratta oltre il necessario - cioè oltre i primi tempi di ogni essere umano - perverte ogni rapporto: l’altro diventa una sostanza che io debbo avere sempre a disposizione perché altrimenti non sto bene. Una società come la nostra, che promuove la performatività ma non l’indipendenza, non trasmette il valore dell’autonomia e della separazione, elementi costitutivi di ogni soggettività. La dipendenza ci rende consumatori feroci, gli oggetti-scarto supposti di un potere taumaturgico (è questo uno dei sensi, declinato al presente, del plusvalore di Marx). La dipendenza è connessa alla frenesia per gli oggetti ed è funzionale al consumo sfrenato della merce. E’ in relazione a tutto questo che ho introdotto la nozione di “Plusmaterno”.
 
Quali sono, in concreto, le conseguenze più pesanti del bisogno di controllo dei genitori, della loro necessità di specchiarsi nella riuscita dei figli, sulle vite dei bambini e dei ragazzi?
Il bisogno di controllo dei genitori non è solo un fenomeno italiano, seppur noi ne restiamo i campioni. A mia diretta conoscenza esiste anche in Francia e in Brasile. Ma suppongo che questa modalità così funzionale a quello che Lacan chiamava il discorso del padrone, sia già dilagata in molti altri paesi.
Conseguenza del controllo e del rispecchiamento, tipico di una società narcisista, è l’appiattimento della vita di molti ragazzi che non vengono troppo  incitati a cercare fuori dalla porta di casa ciò che non conoscono ancora e che magari potrebbe renderli più vivi e desideranti.
 
Il bisogno di controllo si traduce paradossalmente in vuoto educativo, abbandono. In che modo?
Perché controllare è il contrario di educare, per imparare occorre una disposizione a cercare, trovare, sbagliare, fallire, riprovare. Una attitudine fluida, una fiducia di base nella vita che il genitore controllore difficilmente trasmette. Perché non ce l’ha.