Una mattina di febbraio

Quest'autunno le novità Topipittori non finiscono più. Eccoci alla nona: Questa notte ha nevicato, testo, fotografie e disegni di Nina Masina che qui vi racconta la storia di questo progetto.

[di Nina Masina]

Era una mattina di febbraio. L’avevo capito quando ancora ero a letto, con gli occhi semichiusi, mentre mi svegliavo piano. Saranno state circa le 7 e non c’era rumore. Qualcosa c’era, in verità: una sorta di tappeto sonoro morbido e ovattato, come se tutto quello che avveniva là fuori fosse stato avvolto con delicatezza in una grande coperta. «Ha nevicato, sono sicura che ha nevicato!», e in un balzo ero in piedi, a scostare la tenda e a rimanere a bocca aperta per la bellezza insolita di quel che stavo vedendo.

Vivo a Milano, città abbastanza grande e confusa, in un piccolo appartamento che si affaccia su un viale trafficato. Ormai ci sono abituata: so riconoscere i giorni e le ore anche solo ascoltando i rumori. Le due del pomeriggio di lunedì sono diverse da quelle del sabato e del venerdì, che a loro volta sono diverse da una mattina di pioggia e da un giorno d’agosto. Quando piove, è inevitabile: la gente suona sempre il clacson. Verso sera, tutti i giorni il traffico si fa più nervoso.

Quella mattina invece era diverso, c’era solo il suono dolce di un abbraccio.

Comincia così la storia di questo libro: una bambina si sveglia un mattino e scopre che la sua città dorme ancora, tutta avvolta in un manto bianco. Non ci sono rumori, quasi non ci sono movimenti, né persone. «Ma dove sono tutti?», si chiede. Nel frattempo si è fatto tardi, è ora di uscire.



Quello che succede una volta in strada è un’avventura: la strada da fare, a piedi, è la stessa di ogni giorno, ma tutto sembra nuovo. Ci sono forme che scompaiono e altre che si rivelano, inaspettate. Ci sono tracce ovunque, ogni passaggio ha lasciato un segno e si potrebbero seguire decine di percorsi, come in un gioco. E poi ci sono i cani, a spasso, che corrono e giocano mentre tutti camminano a testa bassa, misurando i passi.

Com’è successo che, da una mattina così particolare, ne è poi nato un libro?

Un po’ per caso, direi, come spesso capita.

Quel giorno di neve avevo fatto moltissime foto, in preda a un’euforia quasi divina. La neve è una di quelle cose che mi fanno impazzire di gioia, forse perché mi ricorda certe giornate solitarie e avventurose della mia infanzia, quando si andava in montagna per qualche giorno. In generale mi piace il clima freddo, e vedere la neve fioccare giù ricoprendo ogni cosa mi ha sempre dato un senso tiepido di calore e di casa.

Chi poi, come me, vive e ha vissuto prevalentemente in una grande città, sa che la neve, quando arriva, dura poco ma capovolge tutto. E quando succede, è semplicemente bellissimo.

Una sera, dopo cena, avevo mostrato le fotografie ad un’amica*, che mi disse: sono molto belle, dovresti scriverci una storia. Perché non fai un libro?

Ci provai la sera stessa, scelsi alcune immagini e, senza inventare niente, scrissi cosa era successo quella mattina, dalle prime emozioni appena sveglia all’incredibile, lunghissima strada percorsa tra le vie di Milano, con il naso freddo, gli occhi spalancati e la neve fin sopra le caviglie.

La mia storia e quella della bambina si erano intrecciate, e grazie a lei potevo raccontare con leggerezza qualcosa che mi aveva resa felice: camminare nella neve con la mia adorata macchina fotografica in mano, esplorare le strade della mia città con uno sguardo nuovo e poi, sì, arrivare al lavoro gravemente in ritardo.

La prima versione del libro era molto semplice, un racconto breve con quattordici immagini in tutto.

Era l’inizio di marzo e come ogni anno stavo preparando portfolio e disegni da portare in fiera a Bologna. Mandai una bozza del progetto ai Topipittori, con cui all’epoca collaboravo sia per il blog che allo stand durante i giorni della fiera, perché volevo avere un parere schietto e professionale. Un progetto di albo illustrato fotografico mi sembrava audace e forse un po’ datato, anche se lo sentivo molto adatto al mio immaginario e al mio modo di lavorare.

La risposta fu sorprendente, e mi lasciò senza fiato: «FICO!»

Con una sola parola, quella bozza “mia” era diventata “nostra”.

Ci confrontammo poi di persona: la bozza funzionava ma andava sviluppata, e nessuno di noi aveva ancora le idee chiare sulla direzione da prendere. Riguardammo tutte le fotografie, quasi duecento, e sfogliammo molti libri in cerca di una nuova intuizione.

Era la metà di marzo 2012 e decidemmo che si poteva aspettare il nuovo inverno, e una nuova nevicata, per fare il pieno di foto e di idee.

Poi non nevicò più, né l’anno dopo, né quello dopo ancora.

Passarono due inverni, i Topi non mi scrivevano, io non scrivevo loro. Il libro sulla neve era congelato in un cassetto del mio studio, come il ricordo caro di qualcosa che non c’è più.

In questi casi è facile lasciarsi prendere dallo sconforto e i miei dubbi erano, come sempre, tanti.

Non sono solita però lasciare le cose in sospeso e inconcluse. Volevo lavorarci ancora, ormai era chiaro che l’attesa della neve stava diventando rischiosa e bisognava piuttosto ragionare meglio sul materiale che avevo già in mano.

I due anni di pausa erano serviti anche ai Topi. Quando ci siamo rivisti sembravano avere un’idea più nitida, e mi dissero di osare: questo libro andava riempito con un’abbondanza straripante di immagini, le fotografie dovevano sommergere il lettore, pagina dopo pagina, anche se il racconto era breve.

Nel frattempo, a febbraio 2015 nevicò di nuovo, anche se in maniera meno spettacolare.

Le foto a disposizioni erano raddoppiate, e il libro era lievitato. Qualche mese dopo Giovanna mi propose di provare a fare anche degli accostamenti visivi, e di giocare con l’impaginazione. Stampai in miniatura tutte le fotografie, ormai più di quattrocento, e le posai, come tessere di un mosaico da completare, sul grande pavimento di casa loro. Rimasi lì un pomeriggio intero, indisturbata, a scoprire tutte le combinazioni possibili.

Il gioco degli accostamenti era molto divertente, inoltre mi permetteva di proporre al lettore un esercizio allo sguardo, lo stesso esercizio che inconsapevolmente avevo fatto anche io fotografando tanti dettagli urbani che, senza la neve, sarebbero rimasti nascosti o addirittura insignificanti.

Il libro lievitò ulteriormente e lo portai a una versione di 96 pagine, lavorando contemporaneamente su due formati in miniatura: 23x15 cm e 20x23 cm. Ero molto indecisa: avevo pensato a questo libro in un formato allungato (come avevo fatto, qualche anno prima, con Arturo), ma l’impaginazione nel frattempo era cambiata e ora le immagini riempivano più spazio, seppur con disposizioni diverse.

Per l’editore era possibile lavorare su entrambe le misure, e fecero scegliere a me. Alla fine optai per il formato quasi quadrato: sarebbe stato più comodo da tenere in mano, le immagini sarebbero rimaste più centrate, dunque più facili da leggere senza dover spostare troppo gli occhi, e il racconto sarebbe stato, di conseguenza, più avvolgente.

Per tutto il resto del 2015 la maquette del libro rimase sul mio tavolo. La sfogliavo quasi ogni giorno, avevo ancora un’idea ma non sapevo capire se funzionasse.

Tornai dai Topi con una cartellina piena di schizzi e disegni veloci, e spiegai loro la mia idea: in molti scorci della città innevata erano spariti i contorni delle cose, ed era proprio questo che rendeva così interessanti un tombino, una motoretta o l’impronta di un passo. Non sembrano proprio dei disegni a matita dal tratto sfumato? Accostare fotografie in bianco e nero e fotografie a colori, e intervenire con dei disegni leggeri, in fondo non descriveva la realtà?

 

Bingo! L’idea fu approvata, e il libro aveva finalmente una sua identità.

Sapevo cosa mancava, e mi rimisi al lavoro: grafite, tempere, matita blu, schizzi veloci e disegni accurati. Disegnai a lungo cani e bambini, piante, arbusti, strade, tram, macchine parcheggiate e persone che camminano. 

In fase di impaginazione ne scartai più di metà, cercando di inserire nel libro solo quello che si amalgamava e che si confondeva meglio tra le foto. Eliminai anche alcune fotografie, che mi pareva rendessero ridondante la passeggiata. Lasciai due sole pagine completamente illustrate (il frontespizio e i risguardi finali), alternando poi pagine solo fotografiche a pagine miste. Talvolta il disegno è solo un minuscolo inserto, altre volte interrompe o continua l’immagine fotografica.

Poche tracce di colore, come quelle che aveva lasciato intravedere la neve quel giorno: il fucsia di un ombrello, il giallo di un impermeabile, il blu di alcuni dettagli forse immaginati.

A proposito, avete visto passare di qua una lepre blu?

*l’amica in questione è una persona che di libri e disegni, nella vita, ne ha visti e fatti tanti. Si chiama Giulia Orecchia ed è a lei che questo libro è dedicato.

Desidero inoltre ringraziare Giovanna e Paolo, che hanno saputo aspettare insieme a me, rispettando il giusto tempo che questo progetto richiedeva, e Anna Martinucci, il cui intervento grafico minimale e delicato ha risolto qui e là, negli ultimissimi giorni di lavoro, problemi da cui non trovavo via d’uscita. Copertina compresa.