È ora di darsi una svegliata

[di Silvia Vecchini]

Questa mattina al bar della stazione


ho visto impartire una lezione.


La mamma spiegava alla bambina


come si compra, come si tiene


la monetina, come si gratta via


la polverina. A due passi da noi,


dritta in piedi a caratteri cubitali,


la locandina: "Gioca dieci euro,


vince due milioni". Nessuna traccia


sui giornali delle ragioni,


di quando e come siamo diventati

così coglioni.

Durante lo scorso anno scolastico mi è stato chiesto in più occasioni di incontrare gli insegnanti proponendo percorsi sulla gentilezza, sull’empatia, sull’ascolto indirizzati ai bambini della scuola dell’Infanzia e della scuola Primaria. Un invito che non mi ha particolarmente sorpreso visto che molti docenti lamentano di trovarsi davanti bambini poco socievoli, per nulla abituati all’ascolto, poco disponibili a incontrare l’altro, con atteggiamenti duri ed escludenti. Non avendo intenzione di lavorare su libri a tema, preparare gli incontri è stato molto stimolante per me. La richiesta non andava banalizzata, non volevo lavorare superficialmente, non volevo concentrarmi sulle buone maniere ma su qualcosa di più profondo e sentivo che poteva essere un’occasione importante per cambiare sguardo, ampliarlo e tirare dentro anche gli adulti.

Così, non abbiamo utilizzato testi che proponessero il tema della gentilezza ma abbiamo ragionato insieme sul fatto che proporre ai bambini, offrire gratuitamente poesia, silent book, albi illustrati è già una via di gentilezza che può essere praticata in tutta semplicità a scuola come a casa. Ci siamo detti che la gentilezza dovrebbe essere nei pensieri, parole e gesti degli adulti che i bambini incontrano. Ci siamo chiesti che cosa sia davvero la gentilezza di cui hanno bisogno e cioè tutto tranne che una cosa accessoria o smielata. Quanto questa somigli all’attenzione. Ci siamo anche fatti domande scomode sulla gentilezza. Se sia sempre cosa buona, ad esempio. 
Al termine della formazione, dopo i consigli di lettura di albi illustrati e dopo aver condiviso piccoli suggerimenti sulla pratica, gli insegnanti hanno lavorato autonomamente scegliendo ciascuno la pista che preferiva.

Dopo qualche mese ci siamo incontrati di nuovo e ho potuto vedere come ognuno aveva interpretato le riflessioni fatte insieme, ho ammirato i lavori dei bambini, i pensieri, i giochi, le invenzioni, le parole nate dalle storie. C’era un ultimo passo che potevamo fare ed era quello di aprire l’incontro anche i genitori e parlare ancora insieme questa volta fuori dai percorsi e dei ruoli. Da tempo sento che ogni occasione di parlare di bambini con gli adulti è preziosa e che è urgente non dire cose consolanti. È anzi la possibilità di dirsi tra adulti che è ora di darsi una svegliata.

Che cosa chiediamo infatti quando desideriamo che i bambini conoscano più da vicino la gentilezza? Che siano più empatici? Che ascoltino di più e meglio?

Così, nell’ultimo incontro, ho scelto di non parlare troppo, leggere due mie poesie inedite e leggere anche agli adulti alcuni albi illustrati dove ci fossero questi elementi: grandi e piccini insieme, l’atto di leggere o la stanza dei bambini come spazio intimo e personale, l’intelligenza e la delicatezza e la differenza dei bambini a volte compresa e a volte no. Ho scelto questi libri provando ad aver fiducia che avrebbero fatto il loro lavoro da soli.

In una famiglia di topi è un albo bellissimo, un capolavoro di gentilezza nei confronti dei bisogni profondi dei bambini, della loro intelligenza e sensibilità, dei loro diritti. In questo libro c'è proprio tutto quello che dovrebbe esserci in una famiglia. L’unità, la separazione, il posto per sé, i gesti di gentilezza, la scoperta degli altri, la sicurezza e la distanza. Le cose che vi accadono, i personaggi che si muovono, il loro da fare e le loro esigenze, ogni cosa procede in modo armonico e naturale ma leggendo più profondamente un adulto intuisce che questo scorrere lieve che tiene insieme ogni cosa con gentilezza è tutto fuorché semplice o scontato. È qualcosa che è reso possibile perché, in quella famiglia di topi, c’è un’attenzione altissima a tutti e ogni cosa.

Olivia ci ha fatto molto ridere e riflettere. L’imprevedibile protagonista ci mette di fronte a un’infanzia autentica e piena di pensiero, immaginazione e libertà. Stavo pensando ci ha emozionati. Amo molto questo libro e ne ho già parlato in un’altra occasione. Entrambi questi albi illustrati aprono una finestra nei pensieri dei bambini e suggeriscono che tra il mondo dei piccoli e quello dei grandi c’è uno scarto del quale occorre tener conto.

Ci siamo infine soffermati su gli ultimi due titoli dove il registro cambia bruscamente: La bambina di neve e Rompi il porcellino. Lo scarto diventa enorme e i due mondi, adulto e bambino, sembrano non poter comunicare.

La bambina di neve è una storia che finisce male, malissimo. In una giornata d’inverno, dopo una nevicata, due fratellini escono a giocare e nel giardino appare una bambina misteriosa che si unisce a loro e sembra essere fatta di neve. Una specie di miracolo ha reso vivo il gioco che i bambini stavano facendo con la neve. Il padre insiste per farla entrare in casa a scaldarsi perché è giusto e ragionevole così, perché è così che si fa, è così che non ci si ammala, è così che ci si comporta con qualcuno che è fuori al gelo e non è ben coperto. I due fratelli non riescono a far sì che l’irreparabile non accada.

La delicatezza dei bambini, l’immaginazione dei bambini che può tutto, la loro intelligenza che vede oltre le cose visibili non è ascoltata. La ragione e la “gentilezza” degli adulti arriva fino in fondo e fa sciogliere la bambina di neve. Quando la storia della bambina di neve finisce c’è ancora una pagina da leggere. È scritta da Giovanna Zoboli e per me è molto importante. È una pagina da leggere. Tra le altre cose, segnala che con questa storia Hawthorne mette in guardia i bambini da alcuni adulti, da quello che possono fare.

In Rompi il porcellino, è di nuovo il padre che impartisce una lezione. Questa volta al centro c’è il denaro. Il risparmio per comprare un gioco desiderato. Riempire un porcellino un soldino alla volta è educativo, così come è educativo rompere il porcellino con un martello una volta che la missione è compiuta. Peccato che il bambino nel frattempo si sia affezionato al porcellino e non gli interessi più il gioco da comprare. Il porcellino è diventato un amico, molto meglio di un giocattolo nuovo. In Rompi il porcellino il bambino riesce a impedire il peggio portando il suo amico fuori di casa durante la notte. Nell’ultima immagine, il bambino, una volta rientrato a casa, copre il genitore addormentato sul divano. Salvando il suo amico, ha salvato anche il suo papà. A volte i bambini riescono a impedire ai grandi di arrivare fino in fondo nei loro intenti educativi.

Che cosa chiediamo quando vogliamo che i bambini si comportino bene, meglio? Che cosa significa aver notato che i bambini sono meno gentili tra loro? I bambini ci guardano e imparano. Se qualcosa nei bambini ci sorprende negativamente, stona, impensierisce, preoccupa la prima cosa da capire è che quel qualcosa riguarda probabilmente noi. Vogliamo che siano gentili mentre noi a volte non lo siamo affatto. Vogliamo che ci ascoltino e non siamo disposti ad ascoltare. Vogliamo che siano sicuri e li confondiamo spesso. Li carichiamo di aspettative, maschi e femmine, li vogliamo ribelli, eroi, rivoluzionari, eccezionali e poi noi ripetiamo sempre gli stessi ruoli e non rischiamo nulla, mai. Chiediamo di sapersi accontentare delle cose che hanno e poi giochiamo al gratta e vinci. Li angosciamo con il futuro nerissimo del pianeta e quando se ne interessano davvero diciamo che sono bambini e non sanno come vanno le cose. Stiamo loro troppo addosso senza lasciare uno spazio di crescita, esplorazione, errore ma poi, al momento di esserci e ascoltarli davvero, li lasciamo soli.

Questa assenza degli adulti risuona forte in due film recenti che mi hanno molto impressionata: Cafarnao e La notte che ho nuotato. Sono molto diversi, li consiglio entrambi. Il primo è un film che racconta cose drammatiche sull'infanzia. A Beirut, la regista Nadine Labaki ha osservato la vita di bambini che vivono in strada, in condizioni durissime, senza documenti e senza nessuna certezza, abbandonati a loro stessi. La regista ha raccontato che guardando la vita di questi bambini si è chiesta: «Se potessero parlare, gridare, cosa ci direbbero questi bambini?».

La storia è quella di Zein, di circa dodici anni, che scappa di casa dopo aver capito che sua sorella, poco più che bambina, sta per essere data in moglie a un uomo. Zein si avventura da solo, si ritrova in situazioni sempre più pericolose. Riceve qualche raro aiuto ma è chiaro che deve pensare da solo a se stesso. I grandi non ci sono. Non possono esserci o non vogliono. O se ci sono è peggio. Violenti, predatori, bugiardi. Sua sorella muore e Zein finirà in carcere dopo aver accoltellato il marito di lei nel tentativo di farle giustizia.

In Cafarnao il momento più emozionante per me è stato la telefonata dal carcere che Zein fa chiamando in diretta una trasmissione televisiva. La voce del bambino risuona in tv e gli spettatori si trovano ad ascoltare un bambino che parla dal carcere dove è rinchiuso. Anche i carcerati seguono la trasmissione, riconoscono la voce di Zein e festeggiano perché parla anche per loro, dice quello che avrebbero voluto dire loro da piccoli. Un bambino diventa la voce di tutti i bambini, anche quelli passati. E la voce dice qualcosa come: «I grandi devono ascoltarci». È chiaro che questo film è un atto d’accusa preciso. E che parla dell’infanzia abbandonata, sfruttata, abusata, tradita. Ma dice qualcosa di necessario anche riguardo all’infanzia in sé. Ho pensato tanto a questo film quando ho letto Vista dalla luna, la toccante raccolta di poesie di Chandra Livia Candiani dedicata all’infanzia, come dice lei, sterminata. Aggettivo a doppio taglio, sia smisurata che annientata.

«Questo è il tempo in cui le bambine e i bambini devono scappare dal loro paese distrutto dalla guerra, scappano perché dove vivono sono costantemente nel rischio, non si mangia, non si beve, gli adulti non hanno lavoro, si va via dopo lunghi viaggi spaventosi, si parte su barche rotte, si attraversa il mare della morte perdendo paesaggi, animali, parenti, amici, alberi, abitudini, riti, una lingua, sapori e odori, sogni. Si muore annegati oppure si sbarca e si viene trattati come criminali, si sbarca dopo giorni bruciati dal sole, dal freddo, dalla sete, dopo aver visto la morte e i morti, il buio senza punti di riferimento, dopo aver vissuto la deriva. Oppure non si sbarca perché i porti sono chiusi, perché non ci vogliono.»

È oggi questo tempo. E queste cose succedono nel nostro Paese. La voce del bambino dal carcere in Cafarnao, quella voce che viene dal centro della solitudine, dell’incomprensione e dell’abbandono, che si impone e si fa ascoltare, può parlare per tutti i bambini e richiamare all’attenzione gli adulti. Ricordarci che siamo noi i grandi da cui i bambini attendono aiuto, protezione, attenzione. Che ci spetta un compito al quale spesso sfuggiamo. Anche quando i nostri bambini hanno tutto. Perché le infanzie non hanno confini, si toccano dappertutto, comunicano, sentono. C’è una relazione tra l’infanzia sterminata e le altre. In mezzo ci siamo noi. I bambini hanno orecchie per sentire e occhi per vedere cosa diciamo e facciamo a riguardo a chi non ha niente. Cosa stanno vedendo i bambini, che cosa stanno imparando da noi, quale gentilezza, ascolto, attenzione stiamo insegnando in questo tempo?

Anche nel film La notte che ho nuotato, diretto da Damien Manivel e Kohei Igarashi e ambientato in Giappone, c’è la solitudine di un bambino. Il padre lavora al mercato del pesce, parte da casa che è ancora buio e capiamo che i due non si incontrano quasi mai. Una notte, il bambino si sveglia e non riesce a riaddormentarsi. Al mattino si avventurerà a cercarlo compiendo da solo un vero e proprio viaggio che avviene tutto nel silenzio e nella luce di un paesaggio innevato.

Papà e bambino abitano mondi diversi, lontanissimi. Sono l’uno un mistero agli occhi dell’altro. Eppure tra di loro un legame c’è, un legame che non fa precipitare il bambino nella solitudine e nell’abbandono ma anzi sembra proteggerlo da lontano mentre si espone a rischi e pericoli nella sua esplorazione.

Questo legame sottile ma presente mi ha fatto pensare alla parola speranza in ebraico, tikvà. Letteralmente significa “corda”. Una fune non afflosciata, ma tesa perché tenuta saldamente da un capo e dall’altro. Il sorriso del papà, in uno scatto custodito nella memoria di una macchinetta digitale, è l’appiglio per continuare a camminare, perdersi, avventurarsi, cercare di raggiungere chi si ama anche soltanto per consegnargli un disegno. La corda tesa segna sì una distanza, ma anche un legame e la presenza di due poli. Anche nel silenzio e nella lontananza, un’energia passa e li tiene uniti. Il bambino è bambino e l’adulto c’è, anche se lontano.

In Cafarnao, dall’altro capo della corda non c’è nessuno.

Questi due film mi hanno fatto pensare che forse il modo migliore per metterci all’ascolto dei bambini, di essere gentili con loro, è riconoscere che sono un’altra cosa da noi, riconoscere la loro massima delicatezza. Che loro sono bambini e a noi spetta di essere adulti. Che c’è una responsabilità da assumersi e una differenza che va rispettata. Scrive Laura Pigozzi nel suo saggio Adolescenza zero edito da Nottetempo:

«Nonostante la nostra società dica di adorare i bambini, in fondo non li ama. Il bambino spiazza: col suo essere sempre al di là di ciò che i progetti prevedono per lui; egli non è mai il bambino sognato nelle notti gravide della mamma, né è il bambino integrabile nei programmi scolastici scritti dagli adulti. […] Si può rendere familiare il bambino fino ad un certo punto: lui è anche sempre non-familiare, unheimlich, non confortevole, spiazzante. Il bambino non esiste per farci sentire buoni genitori. Come scrive l’editore per l’infanzia Giovanna Zoboli, l’infanzia è “perfettamente aliena”».

Un alieno, un mistero. Riconoscere questa differenza ci permette di non addormentarci e stare svegli, aperti, curiosi del loro mondo e della loro intelligenza, di essere custodi della loro sensibilità così diversa dalla nostra. La distanza ci permette inoltre di non appropriarci dell’infanzia, di non divorare tutto lo spazio che esiste tra noi e loro, di non addomesticarla troppo. E anche: di confondendoci le idee con teorie gratificanti, di non assolverci subito quando i bambini e i ragazzi ci restituiscono squarci di quello che siamo visto che spesso le cose di cui ci lamentiamo non sono altro che il nostro riflesso. (Interessante, a proposito di questo cambio di prospettiva, questo articolo sul Sole 24 Ore.)

In definitiva il lavoro da fare, anche quello che riguarda la gentilezza e l’empatia, non è sui bambini ma sugli adulti. Per questo è ora di darsi una svegliata. Quelli che non sono gentili, siamo noi. Quelli che non sono attenti, siamo noi. Quelli che non sono curiosi dell’altro, siamo noi. Quelli sempre connessi, siamo noi. Quelli che non sanno rinunciare, perdere, imparare, avere pazienza, essere contenti di ciò che hanno, rispettare le regole, rispettare l’altro, siamo noi. Quelli che hanno distrutto il pianeta, che non se ne interessano davvero. Quelli che non sanno accogliere l’altro, siamo noi. Quelli che sono violenti, che usano il linguaggio in modo violento, siamo noi. Quelli che non leggono, siamo noi. Quelli che non approfondiscono, siamo noi. E non solo gli adulti in generale, ma spesso proprio noi. È questo il lavoro da fare. Rivolgere lo sguardo a se stessi e non sempre agli altri cercando un responsabile esterno a cui scaricare la responsabilità. Scrive Etty Hillesum: «Non credo più alla possibilità di cambiare nel mondo esterno qualcosa che non abbiamo già cambiato dentro di noi».

È ora di darsi una svegliata e riconoscere che sì, i bambini sono fortissimi e resilienti, che sono aperti, hanno straordinarie capacità di adattamento, sì, è vero. Che ci amano, che a volte basta loro poco, pochissimo. Anche una foto in cui sorridiamo. Se si accorgono che siamo in pericolo, utilizzano tante delle loro risorse per gridarci che stiamo andando dalla parte sbagliata ma non possono farlo per sempre. Sono poche le voci che escono dalle mura che i grandi alzano attorno ai bambini soffocandoli con la loro presenza o lasciandoli soli. Alla fine qualcosa si spezza, si adattano anche a quello e poi ci restituiscono ciò che siamo e non ci piace vedere. I bambini sono bambini e si rompono facilmente. E non capita solo nei fatti di cronaca. I bambini si rompono e i grandi devono ricordarselo. Che esiste l’infanzia sterminata. Fuori e dentro. Che le infanzie si parlano e noi spesso non siamo un buon esempio in nessuna cosa.

Siamo gentili, è ai grandi e non a loro che spetta il lavoro più grande.



I bambini si rompono facilmente

si rialzano ma solo per non darti pensiero

sembra che vada tutto bene

ma non è vero i bambini

si rompono se non alzi la testa se non ridi

mai si rompono molto prima di volare

dalle finestre giù per le scale si rompono

per molto meno se il loro letto cambia

di continuo se bari se li vuoi comprare

se mangiano troppo spesso da soli se non c’è

una porta tra dentro e fuori

se non ti ricordi nemmeno questa volta

e a lungo aspettano sopra i marciapiedi

esce da loro un sangue

che non vedi rotti spezzati cercano

riparo dentro un albero

affondano le mani nel pelo folto di un cane

seguono con un bastone

un fiumicello spezzati e rotti

gridano senza parlare tirano giù a sassate

un nido d’uccello rompono le uova a terra

mentre dal guscio del loro petto esce liquido

un pallido sole gemello