C'è bisogno di mistero

Ed eccoci a una delle nostre ultimissime novità: si tratta di L'estate e tutto il resto di Arianna Squilloni che, niente meno, è nostra collega, avendo fondato l'ottima casa editrice A buen paso, in Spagna, Paese in cui Arianna vive. Come spesso accade agli editori, Arianna scrive, e questo è il suo primo libro di narrativa. Come mai e perché l'ha scritto lo racconta in questo post. Se verrete a Bologna, ricordate che in Fiera allo stand 29D36, trovate noi e lei a condividere il medesimo spazio. E quindi potete farvi dedicare il libro.

[di Arianna Squilloni]

Tutto cominciò qualche anno fa quando un collega spagnolo mi portò un libro dedicato all’Italia, estratto da una serie di opere che descrivevano abitudini e manie di diverse popolazioni europee. Me lo portò ridendo, ricordava come gliel’avessero regalato da bambino. Lo aprimmo. Nel testo introduttivo si diceva che l’italiano tipico canta l’aria della sua opera favorita in macchina, mentre si reca al lavoro. Vero, verissimo, gli dissi, pensando a mio papà che canta non solo in macchina, ma in generale per strada, in bagno, sul balcone. E non solo canta, ma cambia pure le parole che pronuncia tanto che sono cresciuta credendo che l’arpa d’or dei magnifici vati, fosse un’arcana espressione romanesca: “ar pador dei magnifici vati”, in presenza di questi magnifici vati. Il libro del mio amico continuava dicendo che, se cammini per le strade di un paese italiano, all’improvviso potresti trovarti davanti a un gruppo di persone infrascate in una violenta discussione. Che non si diffonda il panico: probabilmente è solo un gruppo di sconosciuti o cugini, zii, parenti che stanno decidendo quali dei loro orologi dice la verità. Insomma stanno decidendo esattamente che ore sono. Lo guardai stupita? E beh, non si fa così sempre?

Grafica di copertina, Luigi Raffaelli.

Albert, così si chiamava l’amico, e io arrivammo alla conclusione che o gli stereotipi in genere sono piuttosto reali o che l’autrice del libro, per documentarsi, doveva essere venuta a parare nel paesello della mia famiglia. Mi piace raccontare storie. Vecchie storie di famiglia, aneddoti, sviste e fatti strani che uso quali exempla per illustrare le idee che riesco ad esprimere solo attraverso immagini concrete. Immagini in cui potresti inciampare. Come per esempio il fatto che, quando mi dedicai alla storia delle religioni, gli insegnamenti buddisti non mi giunsero del tutto nuovi. In un certo senso, grazie al cinema all’aperto delle estati passate con la zia Elena, avevo sempre saputo che può essere sano imparare a distanziarsi dai propri desideri, dal vento selvaggio della volontà. Me lo aveva chiarito il nazista brutto, sadico e cattivo che, nel film Indiana Jones e i predatori dell’arca perduta, metteva la mano sul monile incandescente nella taverna sull’Himalaya e se la bruciacchiava tutta intera.

Frontespizio.

Ne parlavo con un altro amico spagnolo che avevo incontrato per caso a Parigi nel corso di un viaggio di lavoro suo e pure mio. Avevamo passato il pomeriggio chiacchierando e passeggiando finché ci siamo infilati da Chez Adel per un paio di birre e qualcosa da mangiare. Conoscete Chez Adel e la sua decorazione kitsch? Conoscete Chez Adel e la possibilità che all’improvviso arrivi qualcuno da chissà quale luogo lontano e si metta a suonare le sue musiche? Ebbene, finimmo per farci trasportare dalle note di una viscerale musica gitana, mentre io gli raccontavo delle estati, del paesello, del nonno toscano e della guerra, del fatto che io credo che il caso non sia altro he una manifestazione del caos, mentre buona parte della mia famiglia sembra capace di leggere i numeri su cui si appoggia la struttura della realtà… E il mio amico sbarrava gli occhi. Ecco, pensai, ho esagerato e sto affogando il mio interlocutore in un inconsulto mare di parole. Ma lui mi disse: no, continua, le tue storie mi fanno pensare a Macondo, al realismo magico. Sorrisi. Ammetto che il paragone mi ringalluzzì. Pensai: caspita!

Arianna durante un incontro in liberia, 2016. Foto di apertura, Fiera di Madrid 2015.

Come dicevo, racconto tante storie, a volte le ripeto qui e là e magari finisce che divento pesante (non troppo, ma un poco sì). Allora ho pensato che forse fosse meglio scriverle, così avrei smesso di raccontarle ai miei poveri sofferenti amici, lasciandole riposare in un luogo in cui qualche spirito curioso potesse ritrovarle e magari divertirsi leggendone una qui, una là. O anche fare lo sforzo di leggerle tutte di fila, perché –così facendo– potrebbe trovare una sorpresa curiosa, il filo conduttore che soggiace a un insieme apparentemente inconcluso. Perché, nel momento in cui poi uno si mette a ripensare alla sua infanzia e alle scene che punteggiano il filo dei ricordi, si rende conto di star scrivendo la verità per quanto si impegni a trasformare in caricatura personaggi e situazioni… Cosa ci posso fare se mi divertono il kitsch, il caos e se ho bisogno di avvicinare le mani a cose e idee, di vederle materializzate in un volto, una borsa, un bastone, quale San Tommaso che le stigmate deve toccarle? Ho troppo rispetto per la realtà, per gli strati che si nascondono dietro alla superficie, per le stanze segrete, i mondi interiori degli altri per pretendere di capirne in anticipo ragioni e giustificazioni. Di conoscerle. So che c’è sempre qualcosa che mi sfugge e quest’idea mi piace, perché ti mantiene avido di conoscere e viaggiare, curioso. Mantiene le tue giornate sommerse nel mistero della vita. C’è bisogno di mistero, di consapevolezza del mistero. E mistero nelle persone che ti passano accanto. Almeno così mi pare.

Arianna durante un corso sul lavoro editoriale, 2016.

Allora mi sono messa a scrivere le storie dell’infanzia, della mia infanzia, ma anche le storie di famiglia, così come le avevo memorizzate, con la forma e l’aspetto che avevano assunto nel deposito della mia mente. Scrivendo, le storie uscivano una dopo l’altra sorprendentemente ordinate. Sarà vero che è nella narrazione che diamo un senso al mondo in cui ci muoviamo e a quello che vi succede. Le mie storie sapevano qual era il loro posto nel mosaico della mia infanzia e dell’approdo a questa vita e a questo mondo. Sapevano in che direzione muoversi. Dato che ormai il testo era composto e Topipittori pubblicava una (piuttosto unica che rara) collezione di storie d’infanzia, Gli anni in tasca, lo mandai a Giovanna. Mi disse che aveva riso (e a volte pianto un po’) al leggerlo e con la velocità del fulmine decise di pubblicarlo (non ci potevo credere). Più lento fu il processo di edizione… Sono editor pure io, dovrei saperlo, eppure ogni volta mi sorprendo all’osservare, incredula, il modo in cui il tempo, la lettura, ripassare le parole una dopo l’altra, ti portino a vedere ripetizioni, eco che immancabilmente filtrano tra le parole. E ci vuole, ci vuole proprio uno sguardo esterno, allenato e raffinato, che te lo faccia notare, che t’interroghi per chiarire, pulisca per snellire una redazione che ha smesso di essere racconto orale, mezzo gridato nel frastuono festoso di violini e chitarre gitane.