Il tempo di Jurij Norštejn

[di Federica Iacobelli]

La pittrice Francesca Jarbusova. Collage di Jurij Norštejn Commiato da chi va al fronte per il film d’animazione La fiaba delle fiabe, 2003.

Quale immenso stupore suscita l’opera che sa far dimenticare la sua forma. Può essere cinema, letteratura, teatro, musica, pittura, scultura, disegno, tanto non importa. Importa solo il nuovo senso del fluire delle cose, lo spazio diverso in cui ci conduce. E ancora maggiore è la meraviglia quando poco o molto dopo ci si accorge di come quell’opera riveli un uso delle tecniche dell’arte che l’ha fatto sapiente e sentito, sensato e profondo, anche se poi c’è molto altro compresso e impresso alla sua origine.

Così mi sembra accadere davanti ai film di Jurij Norštein, regista e animatore russo oggi ottantenne: per usare un’immagine che lui stesso suggerisce, essi hanno «molteplici rami che li uniscono alla vita» e per questo tengono insieme le arti, i sentimenti e le epoche dell’umano riuscendo d’altra parte a inventare ciascuno un ritmo tutto suo, un proprio respiro pulsante ma esistente solo lì, dentro l’opera. Considerato il più grande di tutti dal coetaneo giapponese Hayao Miyazaki e da generazioni di animatori dello Studio Ghibli ma non solo, autore di quello che è stato definito da diverse giurie internazionali come il più bel cortometraggio d’animazione di sempre (La fiaba delle fiabe), Jurij Norštein ha creato tutto il suo ‘compiuto’ in un decennio, dalla fine degli anni sessanta del secolo scorso fino alla fine dei settanta, lavorando con fatica eppure con stimoli importanti sotto il governo sovietico; e questo tutto è composto essenzialmente da sei più o meno brevi film animati che arrivano a una forma compatta e persino semplice dialogando in modi complessi e differenti con i materiali della memoria collettiva e individuale da cui nascono: due con la storia dell’arte e più ampiamente con la storia della Russia primonovecentesca ma anche medioevale (25 ottobre, il primo giorno, con Arkadij Tjurin, del 1968 e La battaglia di Kerženec, con Ivan Ivanov-Vano, del 1971), due con la tradizione delle fiabe e quindi più sottilmente con la letteratura e ‘l’anima’ di una terra e di un popolo (La volpe e la lepre del 1973 e L’airone e la gru del 1974), due infine più intimamente con personali riferimenti poetici, filosofici e cinematografici, idee sull’arte e l’infanzia, sul qui e l’altrove, sull’amicizia e l’amore, e ricordi privati e familiari (Il riccio nella nebbia del 1975 e La fiaba delle fiabe del 1979). Un decennio di cinema d’animazione ovvero di tempo plastico, come Norštein definisce la sua arte, ma anche di una poesia i cui personaggi e paesaggi si raccontano in un movimento che non avevamo mai visto e mai vedremo altrove, ottenuto attraverso diverse tecniche tradizionali di animazione e regia come la ‘cutout animation’ con i ritagli o la ‘camera multipiano’ con lastre di vetro sovrapposte. Un tempo finito e denso, insomma, a fronte di un altro, venuto da allora in poi, che ha attraversato l’agonia e la morte dell’Unione Sovietica e si è dilatato oltre in un tortuoso e più che trentennale percorso verso il primo lungometraggio, una trasposizione in immagini animate del racconto Il cappotto di Gogol’ rimasta tuttora incompiuta.

Larisa Pankratova, Norštejn accanto alle scenografie. 1997.

Fotogrammi del film d’animazione La fiaba delle fiabe. Il finale. 1978.

 

La neve sull’erba

Nel frattempo però, interrogando materia e ragioni del suo processo creativo, Jurij Norštein ha compiuto un’altra opera stupefacente. Il suo nome è La neve sull’erba e la sua forma un grande libro in due volumi, pubblicato nel 2008 ma purtroppo ancora inedito in Italia, che indaga il legame tra animazione e arti figurative e quindi tra le diverse arti, o meglio tra l’arte e la nostra esistenza. Limitata dalla mia ignoranza della lingua russa, ho potuto tuttavia conoscere indirettamente la singolarità preziosa e l’immensa ricchezza di questo testo grazie a due slaviste e traduttrici, la docente di letteratura russa Maria Candida Ghidini e la ricercatrice Giulia De Florio che, l’una dialogando con me e l’altra con l’autore, mi hanno accompagnato fin dal principio nel cammino verso queste righe. «Per Norštein il cinema d’animazione non assomiglia tanto al cinema dal vivo - mi ha detto Maria Candida quando ha cominciato a parlarmi del libro - ma è molto più simile alla poesia o alla letteratura. Il cinema d’animazione parte dal foglio bianco, è tutto impulso creativo: in esso l’autore non ha una materia preesistente da manovrare, ma deve crearsela da sé per intero. Ecco perché nel suo libro si sofferma a lungo, come Dostoevskij, sul cosiddetto orrore del foglio bianco. E per approfondire quest’ansia del vuoto cita il filosofo Pavel Florenskij quando dice che l’immagine artistica è una compressione, una condensazione di energia creativa. Ciò che Norštein ci dà in ‘La neve sull’erba’ è appunto la possibilità di entrare in quel ribollio creativo che si deve condensare per creare l’immagine: pagine e pagine in cui stempera questa sorta di latte condensato per renderlo visibile a tutti. Ed è una lettura incredibilmente appassionante anche per me, che non sono esperta del linguaggio del cinema e certe parole o parti di questo testo non potrei tradurle da sola.»

Tre pagine dell'edizione originale russa di La neve sull'erba.

Tra la fine degli anni ottanta e l’inizio dei novanta Jurij Norštein aveva cominciato a pubblicare alcuni articoli su richiesta della rivista ‘L’arte del cinema’ (Iskusstvo kino), la cui redazione gli propose poi di riunirli per farne un volume d’impostazione accademica, quasi scientifica. Lui spinse però in una direzione diversa, verso «una composizione libera, un’improvvisazione con una direzione precisa», e questo modo del racconto s’impose infine come il più adatto e preciso. Il libro tuttavia non è formato solo da quegli articoli, ha raccontato Jurij Norštein a Giulia De Florio che ha poi tradotto per noi le sue parole, «ma anche dalle lezioni che ho tenuto negli anni a Mosca nei corsi superiori di regia dove ho insegnato per circa vent’anni. Altri testi arrivano dalle registrazioni delle mie lezioni in Giappone, a Tokyo, dove sono stato invitato a lungo e quasi ogni anno. Da tutto questo materiale ho selezionato ciò che serviva alla composizione e all’essenza di un libro che definirei in questo modo: l’animazione nel contesto dell’arte e della grande cultura. C’era una questione che m’interessava più di tutte: il tempo nell’arte figurativa e nell’arte cinematografica. Ecco, il libro prova a indagare questa domanda. Non è né un manuale o una dispensa didattica né un trattato teorico sull’animazione. Non vi si parla del lato tecnico di questa professione, ma dei legami culturali che la innervano. Che cos’è il tempo nell’arte figurativa e cinematografica? Questo per me era più importante. Ne aveva scritto molto Sergej Ejzenštejn che reputo il più grande teorico dell’arte cinematografica e della regia. Nessuno ha fatto più di lui. Perciò nel libro ci sono moltissimi esempi tratti dall’arte figurativa. Quando mi trovo all’estero vado sempre a vedere le mostre dei musei più importanti, a Mosca le visito quasi tutte. Per me è fondamentale. Ed è importante che chi legge non abbia l’impressione di trovarsi davanti a un libro difficile: in realtà è piuttosto semplice, è scritto in una lingua piuttosto semplice. Ma semplicità non significa semplificazione. Se provi ad analizzare qualcosa, devi scrivere in modo che sia chiaro quello che dici, ma non puoi essere superficiale. Al contrario, l’analisi deve essere approfondita e ben strutturata.».

Il Gufo guarda la pozzanghera. Fotogrammi del film d’animazione Il riccio nella nebbia, 1975.

Jurij Norštejn. Schema di ripresa Il gufo guarda la pozzanghera, 1975, 2003.

Jurij Norštejn. Inquadratura del film d’animazione Il riccio nella nebbia, 1975, 2001.

 

La neve sull’erba nello studio di Maria Candida Ghidini

Questo stare in costante ascolto di sé e dei propri sensi e sensibilità eppure riuscire a parlare alla sensibilità e percezione di tanti, questa capacità di sentire la necessaria e continua interconnessione tra le cose del mondo soggettivo e di quello oggettivo e insieme di mirare alla chiarezza del discorso, ci riporta al cortometraggio di Norštein più amato nel mondo, l’opera che alla maggior parte di noi ha permesso di incontrarlo per la prima volta e che in Italia è arrivata anche nella forma di un albo illustrato per i tipi di Adelphi, con il testo dello sceneggiatore Sergej Kozlov e dello stesso Norštein e le illustrazioni di Francesca Jarbusova. Per Maria Candida Ghidini Il riccio nella nebbia è stato egualmente il primo: «In Russia lo conoscono tutti, adulti e bambini, e così in Giappone, ma ormai anche altrove, perché si tratta di un piccolo film che arriva al grande pubblico anche indipendentemente dal suo valore culturale, poetico e tecnico. La mia nipotina di quattro anni lo adora, lei conosce bene il riccetto, anzi lo chiama proprio ‘yozhik’, perché io le faccio vedere la versione sottotitolata e lei, avendo sentito tante volte la voce over narrante originale, lo chiama ‘riccio’ in russo, come se fosse il suo nome proprio.».

F. Jarbusova. Il riccio e l’orsetto. Illustrazione per il libro Il riccio nella nebbia, 1999.

F. Jarbusova. Il riccio e la foglia. Illustrazione per il libro Il riccio nella nebbia, 1999.

L’incontro tra il Riccio e il Gufo. Fotogramma del film d’animazione Il riccio nella nebbia, 1975.

Come molti italiani, Maria Candida ha poi approfondito la conoscenza delle altre opere di Jurij Norštein grazie a un cofanetto contenente i quattro dvd dei maestri dell’animazione russa, uno dei quali interamente dedicato a lui e accompagnato dal commento dello storico Giannalberto Bendazzi. Ma per lei, formatasi all’Università Cattolica con un professore russo dissidente rinchiuso per molti anni in un manicomio criminale e poi co-fondatore del gruppo Helsinki per i diritti umani, abituata quindi a considerare ‘bianco’ tutto ciò che era nato da una contestazione al governo e ‘nero’ invece tutto ciò che nasceva come sovietico, l’interesse suscitato dall’opera del regista animatore è andato ad affiancarsi alla progressiva scoperta di una realtà artistica interna al sistema, «che non era per niente ‘nera’ ma al contrario sapeva lavorare in modo onesto, veritiero, poetico e a volte meraviglioso. Norštein - precisa Maria Candida - mi ha affascinato anche per questo suo corpo a corpo continuo con la censura, perché in effetti è sempre stato molto osteggiato, e l’arte dell’animazione non è fatta solo di un poeta nella sua stanzetta ma ha bisogno di produzione, di mezzi, di cose concrete che chiaramente vengono date dall’establishment. Dopo ‘25 ottobre, il primo giorno’, per tre anni non ha più neanche immaginato di dirigere un film a causa dello shock avuto nel lavoro con la censura. Da quel cortometraggio, composto animando le grandi opere delle avanguardie pittoriche russe, sono state espunte difatti tutta una serie di immagini molto interessanti e particolari, come ad esempio uno schizzo dell’incisore e illustratore Vladimir Favorskij poi sostituito con un ritratto di Lenin che assume un’apparenza quasi mostruosa. Nella storia della letteratura russa ma anche qui, nella cultura in senso lato, la censura del resto diventa spesso un co-autore. Le ‘Memorie del sottosuolo’ di Dostoevskij non sarebbero quelle che leggiamo, se non ci fosse stata la censura. E in ‘Delitto e castigo’ non esisterebbe la scena tremenda e meravigliosa dell’assassino e della prostituta che leggono il Vangelo in una stanzetta buia se non ci fosse stata la censura, perché Dostoevskij l’aveva pensata completamente diversa. Così anche per Norštein: quel suo primo film, che tanto mi aveva colpito, era stato molto cambiato dalla censura. Ed è un miracolo che sia uscito comunque, benché un po’ stropicciato. Nato nel 1968 per il cinquantesimo anniversario della rivoluzione russa, mostrava di questa tutte le contraddizioni: da una parte la rappresentava come un grande momento di rivoluzione dello spirito, per dirla con Majakovskij, di speranza, di rinnovamento e anche di liberazione di tutta una serie di forze oppresse; dall’altra ne rivelava il lato minaccioso, che nel film viene fuori in molte cose. Il cortometraggio mostra nella parte iniziale una veduta della piazza di Pietroburgo, che ha come centro la colonna fatta costruire da Nicola I per celebrare le vittorie napoleoniche. Quella colonna, affermazione del potere imperiale, nel film gira come se fosse una lancetta e trasforma la piazza in una sorta di orologio. Così, in un’opera che ha per titolo una data e che è tutta una riflessione sul tempo, si ha l’impressione che questo sia misurato da una lancetta del potere. Poi, in un turbinio in cui anche la violenza rivoluzionaria diventa inquietante, appare a un certo punto quella che chiamano la ‘Madonna di Pietrogrado’, un quadro di Petrov-Vodkin che è chiaramente un’icona e che mostra, altra evidente contraddizione, come tutto il patrimonio che sta dietro quell’icona abbia continuato ad agire nella cultura russa moderna, persino in quella sovietica.». Il rapporto di Ghidini con Norštein è passato poi attraverso lo studio del pensiero religioso del primo novecento e quindi delle riflessioni di Andrej Tarkovskij in Scolpire il tempo e nel diario Martirologio, in cui «si vede proprio questa cultura russa che continua a pensare, a fluire, a creare, nonostante o forse anche stimolata da censure e ostacoli. Da qualche parte, Norštein dice che il diamante è il risultato di un’enorme pressione, ovvero che le difficoltà possono essere foriere delle cose più grandi.». Tra Tarkovskij e Norštein sembra esserci molto in comune. E mentre parla dell’uno, Maria Candida prende i due volumi dalla copertina telata di La neve sull’erba, li sfoglia, mostra la ricchezza d’immagini dalla storia dell’arte che ne attraversa ogni pagina, infine si sofferma sull’immagine di una foglia: «Nel ‘Riccio nella nebbia’, a un certo punto, c’è una foglia che cade dalla quercia: ecco, da anni io non posso vedere una foglia che cade senza pensare a quella, è diventato una specie di imprinting che genera associazioni. Ma per creare una sequenza del genere, Norštein e i suoi collaboratori hanno lavorato tantissimo. Hanno preso delle foglie vere, le hanno appese con un filo, le hanno fatte cadere più e più volte, ne hanno studiato e reinventato il movimento e hanno poi cercato con cura estrema la testura, l’innervatura della foglia. Certo fare un lavoro del genere al computer, in digitale, sarebbe stato molto più facile o se non altro infinitamente più veloce. Ma Norštein rifiuta comunque questo ‘è facile’. E quando ne parla ricorre alla parola ‘comfort’, al fatto che nel ‘comfort’ non si dà la felicità. E questo è Dostoevskij, che nei suoi taccuini usa spessissimo la parola ‘comfort’, la ripete più volte in una sola frase, come un mantra, quasi a dare fastidio, e sempre in un senso estremamente negativo. Il comfort, questa idea della vita avvolta di grasso, per dirla ancora con Majakovskij, che ti impedisce di andare a fondo, e al contrario il bisogno incessante di penetrare nella materia dell’arte, quasi in lotta con essa.».

Aleksandr Žukovskij. Principio della fotofase della foglia, 1975. (Il fotoperiodismo è il complesso di reazioni che gli organismi presentano al ritmo ambientale giornaliero e stagionale dei periodi di luce [fotofase] e di oscurità [scotofase]).

Se c’è uno scopo, nella lotta di Norštein, sembra quello di rendere visibile ciò che altrimenti resterebbe invisibile, ma di farlo in un altro modo rispetto all’abitudine dei nostri sensi. E in questo senso diventa centrale la nebbia, che è molto presente sia come tema che come materia nella sua opera, non solo nel Riccio ma anche ad esempio nell’Airone e la gru o nel cortometraggio haiku creato per il film collettivo Giorni d’inverno di Kihachirō Kawamoto. Nell’indefinito, tanto caro proprio alla cultura dell’Oriente nipponico, si rivelano quei dettagli che altrimenti mai percepiremmo, e quando dall’invisibile emerge il visibile esso genera uno sbigottimento dalle sfumature emozionali più diverse, paura e curiosità, ansia e meraviglia, proprio come accade nella nebbia al piccolo riccio: una creatura che resta fragile, flessibile, in grado di lasciarsi andare alla corrente, e che per questo sente di più la vita laddove la forza e la rigidità sarebbero state invece mortifere. «A proposito della nebbia, Norštein cita una frase da un altro racconto di Gogol’,‘Le memorie di un pazzo’: in delirio, in mezzo a una bufera di neve, il pazzo dice che ‘nella nebbia risuona una corda, una corda di chitarra’. Questa frase Norštein la ripete. E la stessa frase viene ripetuta in ‘Delitto e castigo’ quando il poliziotto, leggendo l’articolo di Raskolnikov, per fargli un complimento lo definisce ‘così vago, indefinito, una corda che risuona nella nebbia’. Altrove, per descrivere il suo Oriente, Norštein afferma che ‘quando l’Occidente si fa un bel bouquet, il giapponese prende un unico fiore’. E in queste citazioni credo sia svelata la cifra del suo sguardo: da una parte c’è quell’unico fiore immerso in una vaghezza che porta a guardare la realtà confidando che vi si possa scorgere qualcosa d’altro, dall’altra però quell’unico fiore lo guardi in tutte le sue innervature, con un’attenzione da artigiano al particolare e al valore dei dettagli; da una parte c’è il desiderio di arrivare al fondo dell’umano, di attraversare la nebbia per andare oltre, dall’altra l’essenzialità delle storie. Non a caso il suo ‘Riccio nella nebbia’ Norštein lo racconta così: ‘tutte le sere il riccio andava dal suo amico orsetto, una volta cade nella nebbia, vede una vita diversa e ne esce che è un altro.’. Una verità semplice delle piccole cose che pervade il film considerato il suo capolavoro, ‘La fiaba delle fiabe’, in cui ogni cosa è storia personale e insieme memoria collettiva, ma pure appare nuovissima al suo e al nostro sguardo, osservata sempre come se fosse la cosa più importante.».

Il Lupetto all’ingresso della vecchia casa. Fotogramma del film d’animazione La fiaba delle fiabe, 1979.

Il bambino e i corvi sull’albero. Fotogramma del film d’animazione La fiaba delle fiabe, 1978.

Il bambino con la mela. Fotogramma del film d’animazione La fiaba delle fiabe, 1978.

Domenica. Fotogramma del film d’animazione La fiaba delle fiabe, 1978.

Personaggi dell’episodio Domenica del film d’animazione La fiaba delle fiabe, 1978.

La famiglia se ne va. Fotogramma del film d’animazione La fiaba delle fiabe, 1978.

Jurij Norštejn. Il bambino con la mela. Episodio Domenica del film d’animazione La fiaba delle fiabe, 1978.

Proprio alla Fiaba delle fiabe si ferma il primo volume di La neve sull’erba, mentre il secondo, un po’ meno voluminoso, è tutto dedicato al lungometraggio incompiuto dal Cappotto di Gogol’. Nell’ammaliante racconto che Maria Candida fa dei due tomi, qualcosa però mi colpisce di più. La prima è l’attenzione amorosa di Norštein per i volti, molto legata, mi spiega Ghidini, alla tradizione delle icone. Nel libro Norštein descrive spesso il volto di sua moglie Francesca Jarbusova, la sua prima collaboratrice, la disegnatrice, illustratrice e art director di gran parte dei suoi film. E poi c’è la faccia del protagonista del Cappotto, Akakij, che ricorda l’ultimo ritratto di Puškin, nota Maria Candida: «di un Puškin un po’ imbolsito, prossimo alla fine, il che si porta dietro enormi implicazioni.». In generale, per le facce dei suoi personaggi Norštein usa spesso le fotografie, una scelta che comprende in sé una costante riflessione sul rapporto tra verità e immaginazione, ovvero tra immaginazione e arte: le sue opere sono voli di fantasia e associazioni a volte quasi vertiginosi, ma d’altra parte sono radicate nella realtà, hanno alla base foto di famiglia o ritratti di persone realmente vissute. Il mio secondo sconcerto persistente riguarda invece una sensazione di Maria Candida come lettrice: che pur parlando continuamente di sé, della propria opera, in queste pagine l’autore non parli mai davvero di sé. «Ne parla sempre, certo, ovunque, perché ovunque affronta in profondità le questioni con cui si misura quotidianamente nel suo lavoro, però lo fa per raccontare non la sua personalità, ma la sua opera, quindi in un modo che porta sempre altrove. ‘L’arte stacca l’uomo dalle cose’, dice Norštein: è un processo di ascesi per condurti a un altro stadio. Si definisce agnostico, ma legge e cita continuamente le Sacre Scritture. E un versetto del Vangelo che può considerarsi cifra del suo lavoro è quello del chicco che se non muore non dà frutto; un versetto che non a caso sta anche in epigrafe ai Fratelli Karamazov, e che Dostoevskij da qualche parte traduce così: ‘il chicco se non muore… rimarrà solo’.».

F. Jarbusova, Akakij Akakievič con una lettera dell’alfabeto. Schizzo. 1996.

Jurij Norštejn. Akakij Akakievič, la lettera A e il cappotto, 1995.

Jurij Norštejn. Akakij Akakievič, alla cerimonia funebre. 1985. Frammento.

F. Jarbusova. Una mattina al Ministero. Schizzo. 1996.

Jurij Norštejn. Impiegati del ministero. Studi. 1995-96.

F. Jarbusova. Impiegati fuori e dentro il ministero. Inquadratura. 1996.

 

La neve sull’erba nelle parole di Jurij Norštein

«Quello che ho tentato di mostrare in questo libro - ha detto Jurij Norštein a Giulia De Florio - è la mia convinzione profonda che un regista, l’autore di un film, debba essere una persona colta, istruita, appassionata. Non parlo soltanto di conoscenze tecniche e storiche, parlo della conoscenza della vita stessa, perché le une senza l’altra non possono stare, altrimenti ci si inaridisce; occorre trovare il giusto equilibrio, porre attenzione anche alla vita vera, vedere com’è fatto un albero, da dove spuntano i suoi fiori. Questi intrecci devono vivere in te. In questo senso la dedica del libro a mia moglie Francesca, che condivide gioie e dolori della mia arte, è motivata anche dal fatto che lei è intimamente connessa al mondo naturale, perché suo padre era un importante biofisico. E questa doppia dimensione, del sapere e del senso della vita, è fondamentale. Se prevale una sull’altra, la persona prima o poi si trova nell’ignoranza. Occorre un equilibrio. Queste erano per me le questioni fondamentali. E il libro ruota intorno ad esse.». Un’opera che propone quindi uno sguardo complessivo sull’arte in un tempo in cui invece tutti sembriamo andare nella direzione contraria, muovendoci ognuno nel proprio microscopico ambito specialistico e spesso ignorando quello che accade intorno. Giulia ha condiviso un pensiero simile con Norštein, chiedendogli se questa circostanza gli risulti spinosa, ma lui ha risposto che non è un problema, «né per me né per il movimento del mondo nel tempo. Questi dodici anni tra l’uscita del libro e oggi li paragono ai millenni di storia artistica da cui traggo gli esempi che sono nel volume. Quando parlo di un cimitero egiziano, di una pittura di 2500 anni fa queste differenze scompaiono, si possono neutralizzare e questo è possibile grazie allo sviluppo di un rapporto emotivo e sensoriale con il mondo, con la natura, con le persone intorno, grazie alla crescita di un sentimento di aiuto reciproco. Queste cose sono l’essenza di una qualunque società. Anche nell’antichità le comunità sono sopravvissute perché sono state in grado di impostare la propria esistenza in un modo tale da garantirsi la sopravvivenza, ma anche la ricerca della bellezza: le parole ‘arte’ e ‘cultura’ allora non esistevano, ma si trattava comunque di espressioni dell’anima. L’arte non progredisce come la scienza, che si appropria delle scoperte, le rende parte della propria storia e a partire da quelle si spinge oltre. Noi invece possiamo leggere oggi una poesia dell’antico Egitto e ci troviamo di fronte alla stessa anima, allo stesso cuore pulsante di un poeta a noi contemporaneo. La storia della cultura ci dice questo. Siamo noi che a volte, semplicemente, non prestiamo il giusto ascolto.».

L’operatore Aleksandr Žukovskij, la pittrice Francesca Jarbusova. Preparazione dello sfondo per la retroproiezione. Episodio della Strada (Il Cappotto), 1983.

F. Jarbusova. Akakij Akakievič e alcuni allegri signori. Schizzo. 1981-1983.

F. Jarbusova. Schizzo dell’episodio La passeggiata di Akakij Akakievič sul lungocanale. 1996.

F. Jarbusova. I complimenti per il nuovo cappotto. Inquadratura. 1981.

F. Jarbusova. Akakij Akakievič vola alla festa. Inquadratura. 1981.

 

La neve sull’erba e l’Italia

Se appare tanto importante che La neve sull’erba arrivi in Italia, se è arrivato il tempo di Norštein, non è solo per tutto ciò che ho ascoltato e provato qui a farvi ascoltare, ma anche perché con l’Italia l’artista russo serba un forte legame. Ci è venuto per la prima volta a dodici anni, a Roma, per vedere la Cappella Sistina, e da allora ritiene di non essersene mai andato: l’ho scoperto dalla registrazione di un suo dialogo con Eugenia Gaglianone, studiosa di letteratura e cinema russi che da tempo si occupa di traghettare qui la sua opera e che Norštein stesso ci ha fatto incontrare non appena ha saputo del nostro desiderio intorno al suo libro. In quell’intervista, avvenuta in occasione di una conferenza stampa a Torino, il regista ricordava di aver pensato che Andrea Mantegna certi paesaggi li avesse inventati e di aver scoperto solo poi, viaggiando in automobile per la nostra penisola, che erano invece tutti veri. Molti altri artisti italiani, da Paolo Uccello a Umberto Boccioni, sono presenti nei suoi due volumi, che indagano in particolare quei momenti in cui all’interno di un’opera d’arte figurativa si sviluppa l’azione. Per spiegarlo a chi non può ancora leggerli, Norštein parla con entusiasmo a Eugenia Gaglianone di un busto marmoreo di Michelangelo Buonarroti, e in particolare della sua testa, che nel libro osserva insieme ai lettori cercandovi quel trasporto emotivo che all’epoca l’artista fiorentino dovette porre nella sua creazione. Quel che gli si para davanti, osservandola dal lato destro e attraversandola tutta fino al lato sinistro, è uno spettacolo incredibile, inimmaginabile, perché sembra che Michelangelo abbia unito letteralmente due persone diverse, un volto che esprime un sentimento di orgoglio e un altro che palesa un senso di sconfitta, amarezza e dolore. Di Buonarroti Norštein ama e conosce quasi a memoria anche i sonetti, in uno dei quali ha trovato la precisa descrizione di questa testa di Bruto che chissà come mai, si chiede, viene sempre esposta con il lato sinistro contro il muro, cosicché nessuno può andare a vedere cosa ci sia dall’altra parte, dopo il punto in cui l’azione è partita e un sentimento si è mosso per fluire in un altro.

Tutto scorre, del resto, anche nell’opera di Norštein. Tutto si muove, morbido com’è bene che siano sempre le nostre emozioni, accettando di restare anche vaghe o di non compiersi, a volte, e lasciando sgorgare in sé spazi, tempi e linguaggi dell’umano e dell’arte. A un certo punto della conversazione con Gaglianone, il regista fa un paragone con i drammi di Anton Čechov, nei quali pare che non succeda nulla mentre invece «sono drammi incredibili», chiosa, nati da un percorso doloroso di vita del loro autore. Un accenno letterario e teatrale che mi riporta a un suo film amatissimo, L’airone e la gru, tratto da una fiaba della tradizione e capace con il suo mondo arioso, sottile e decadente, la voce narrante di un grande attore del cinema russo, la sceneggiatura scritta a quattro mani con l’artista Roman Kačanov, le musiche di Michael Meerovič e le esili figure dei due protagonisti ritagliate su un paesaggio luminescente che assume a tratti un’inusuale profondità e cambia luce sui loro caratteri sempre forti ma sempre incostanti e indecisi, di raccontare l’anima letteraria, filosofica, intellettuale di una terra e insieme di manifestare l’universo del suo autore, anzi dei suoi autori Norštein e Jarbusova: un universo ugualmente sottile e caldo, ironico e struggente, sintetico e piano eppure viscerale e abissale, in un’unità organica dell’idea e della forma che è insieme cinema, disegno, pittura, musica, scultura, teatro, poesia.

Jurij Norštejn. Francesca Jarbusova al lavoro, 1977.

Jurij Norštejn. Ritratto di Francesca, 1968.

Una pagina dell'edizione originale russa di La neve sull'erba.


[Le didascalie delle immagini, tutte provenienti dallo studio di Jurij Norštein, sono state tradotte da Giulia De Florio, che ringrazio ancora.]