Tempi moderni

Quando sono cambiate le cose? E perché? Quando siamo diventati moderni? Quando le merci e la tecnologia hanno smesso di esistere in funzione dell’homo sapiens e l’homo oeconomicus ha cominciato a esistere in funzione della merce e della tecnologia?
 
Pur sapendo che tutto è cominciato molto, molto prima, mi piace pensare che una soglia – di là il passato, di qua la contemporaneità –, almeno nel campo ristretto dell’editoria per ragazzi sia stata valicata nel 1926. La scelta non è arbitraria: in quell’anno è uscito un albo illustrato che vedremo essere stato – nonostante il suo scarso successo commerciale (ma straordinario e duraturo successo di critica) – una sorta di spartiacque: Little Machinery, di Mary Liddel. (Anzi, ne sono usciti due, ma del secondo parleremo poi).
 
Il protagonista di questo albo illustrato è una strana creatura mutante, una specie di allegro Frankenstein meccanico, nato – si direbbe per generazione spontanea - presso uno sfasciacarrozze accanto a una ferrovia e dotato di arti meccanici, motori di vario tipo, utensili in gran copia e, soprattutto, della ferrea volontà di cambiare il mondo. Renderlo migliore. Il mondo degli animali, beninteso, al quale si dà gran pena per offrire i moderni conforti della civiltà industriale.
 
Così, alla fine del libro, avremo orsi che svernano in un tunnel, conigli che abbandonano le tano per abitare conigliere,  scoiattoli che sorbiscono il the da tazzine in porcellana, capre che pascolano ben calzate da appositi ferri, rospi con lo scialletto per non patire il freddo e aquile con artigli resi affilati da una mola.
 
Appena uscito l’albo, Bertha Mahony sulle pagine di The Horn Book, la rivista che aveva fondato e che a tutt’oggi rimane un cardine della critica della letteratura per l’infanzia, lo definiva «il libro a figure più originale pubblicato finora», facendo eco al risvolto della sovraccoperta del libro che dichiarava baldanzosamente: «Questo è il primo libro a figure pensato per i bambini moderni e per il loro mondo.»
Un mondo che ancora non c’era ma che – per le meraviglie che prometteva – si voleva che cominciasse a esistere. E per farlo esistere bisognava educare i bambini alla novità. Bisognava dir loro che la macchina, cioè il sistema industriale, avrebbe provveduto a loro e li avrebbe forniti di oggetti, le merci, che avrebbero colmato e soddisfatto ogni loro desiderio. Certo: avrebbero dovuto abitare in una conigliera, ma sarebbero stati protetti e al caldo; avrebbero avuto scarpe nuove (anche se di ferro) e servizi da the e bottiglie e ogni altro genere di suppellettile. E che non avrebbero più potuto farne a meno per essere felici.
Eccolo qui, l’incunabolo del turbocapitalismo consumista. Dove si produce per il gusto di produrre e si consuma per il dovere di consumare, facendo finta di essere felici ma non sapendo più come venirne fuori. E, infatti, oggi l’utopia tecnologica del tempo si è trasformata in una distopia, a tratti davvero minacciosa.
Per puro incidente ho scoperto che nello stesso anno in Unione Sovietica è uscito un libro molto simile, Topotun i Knizhka (Topotun e il libro) di Ilia Ionov, con illustrazioni di Michail Tsekhanovsky. In questo libro, l’illustratore si spinge ancor più in là e osa l’inosabile. Per descrivere il nuovo “ragazzo sovietico” di cui parla la copertina, ha disegnato un piccolo pioniere, vestito di tutto punto: pantaloncini corti, elmetto azzurro, scarpe nere, fazzoletto rosso, dimenticando però di riempire gli spazi bianchi, così da lasciarci la sensazione che questi ragazzi non fossero altro che la loro uniforme. La persona, obliterata e negata, che diventa semplice forza lavoro al servizio dell’ideale sovietico. 
 
Poi, si apre il libro e arriva Topotun, il robot, risultato dell’assemblaggio di glifi tipografici, puro, perfetto, esente da ogni imperfezione umana, che spiega al recalcitrante piccolo pioniere come e perché aver cura del proprio libro, merce ideologicamente perfetta perché prodotta da macchine e uomini-macchina al servizio della nuova dottrina.
 
 
Capitalismo arrembante e socialismo sovietico, visti da qui, sono così simili da essere quasi indistinguibili. La differenza vera, palpabile, è che Little Machinery vuole piacere, quindi lusinga e blandisce, tanto nelle parole quanto nelle immagini, mentre a Topoptun piacere non interessa affatto. Il piccolo pioniere deve ubbidire. Parola del compagno Stalin.
 
 
Se questa vicenda vi ha incuriosito, di Little Machinery esiste una edizione in fac-simile, curata da Nathalie op de Beeck per Wayne University Press. Ma non è impossibile imbattersi nel mercato antiquario in esemplari dell’edizione originale a prezzi non esorbitanti. Quindi, buona caccia.