In braccio

Terzo martedì di festeggiamento dei 10 anni della collana Gli anni in tasca, uscita nel 2009. Oggi pubblichiamo un capitolo da Io sono il cielo che nevica azzurro di Giusi Quarenghi. Buona lettura.

In braccio stavano solo i neonati e i morti. Tutti gli altri andavano con le loro gambe.
I neonati non mancavano, e avevo visto anche qualche morto.
Ma della morte sapevo poco, della morte umana voglio dire.
Sapevo di quella dei polli, per arrotolamento e stiramento di collo o per cavata di sangue; dei maiali scannati prima dell’alba in inverno; delle lumache bollite chiuse nel guscio; delle rane decapitate e denudate; delle trote e dei conigli finiti da un pezzo di legno sulla testa; degli uccelli presi con gli archetti o con i pallini di piombo che delle volte li sentivi anche sotto i denti. Sapevo dei lumacotti arancioni sciolti dal sale sotto il sole; delle mosche che ronzavano fino alla fine appiccicate al nastro adesivo giallo che pendeva dalla lampada o dall’angolo della credenza in cucina; dei pidocchi schiacciati tra le unghie dei pollici fino a sentire tic; di come il gatto molestava il topo fino a ucciderlo, e non per mangiarlo.
Poi, quel giorno, mio fratello.
Era fine settembre, un pomeriggio morbido e vuoto. Mio fratello era fuori a giocare sul sagrato, lui poteva; io in casa a sbucciare i fagioli. Finito di fare quello che dovevo, sono uscita a buttare le bucce e poi, invece di rientrare, sono scappata anch’io sul sagrato.
Eccomi, salgo sul muretto, voglio mettermi in piedi sulla palla di pietra, far vedere a mio fratello che sono capace di farlo anch’io, e da sola.
Ci sono, dritta, in perfetto equilibrio. Lo chiamo, so che è lì, anche se non lo vedo.
Non mi risponde. Lo richiamo, di nuovo niente.
A malincuore lascio la mia posizione da equilibrista e scendo, faccio i gradini della scalinata, arrivo su, giro l’occhio e lo vedo sul prato sotto il campanile, a terra, fermo. Mi avvicino e intanto lo chiamo, ma non mi risponde.
Gli sono sopra, lo chiamo più forte; non si muove. Lo tocco, lo pizzico, lo scrollo, lo scuoto, lo accarezzo, lo picchio. Niente.
Piangendo, torno a casa di corsa, mi fascio la faccia con l’asciugamano appeso vicino alla porta e grido alla mamma che è in piedi all’acquaio: « È morto. Morto. Sul sagrato.»

Lei mi passa davanti come un turbine muto. Io la seguo, con il vuoto sotto i piedi.
E lui inveceè già lì, sul muretto, in piedi, con le braccia ad ali d’aeroplano.
«Ci avete creduto, ci avete creduto!» canta e ride. Ride.
Come sono contenta, come sono contenta di vederlo vivo. Perché posso odiarlo, finalmente odiarlo come dico io e dirgli che è scemo, stupido, cattivo, e che lo odio, lo odio, lo odio, e ho ragione, ho tutte le ragioni per farlo. Che gioia odiarlo in pace e con diritto. Lui, il preferito di tutti, anche il mio.
Perché era il primo figlio, il primo nipote, il primo e unico fratello. Era già lì prima di me, e ogni cosa o era sua o lo era stata, prima di essere un po’ anche mia.
Mi ero adattata fino a volergli benissimo, a considerarlo una fortuna. I suoi quasi quattro anni in più bastavano a metterlo e mantenerlo perennemente su un piedestallo inarrivabile. In più era maschio, biondo, azzurro e linfatico, che era come dire di salute fragile, e quindi da trattare con riguardo sempre.
Lui faceva tutte le cose che io desideravo tanto e non avrei mai potuto, femmina e più piccola. Saltava dai muri e anche dai fienili e se si rompeva un braccio riusciva a resistere in silenzio; faceva i rutti e le scoregge per finta con la mano sotto l’ascella; fischiava mettendosi in bocca indice e medio tesi e appaiati e anche con pollice e indice chiusi ad anello; non piangeva quando le prendeva perché tanto piangevo già io; qualunque cosa si mettesse in testa di fare la faceva, anche se era strana, vietata, impossibile; non aveva paura di litigare con quelli più grandi e più grossi di lui; aveva libero accesso alla piazza e al sagrato, suonava le campane, faceva il chierichetto e la pipì in piedi.
Quando avevo detto alla mamma che tanto lo sapevo che era lui il suo preferito, mi era arrivata una sberla. Avevo capito di avere ragione, e che dovevo accontentarmi di avere ragione.
«Te la do mi ciavetecreduto» dice però la mamma appena lo vede. E lo prende per un braccio e lo tira giù dal muretto e lo riempie di sculacciate.
Poi tocca anche a me: ero scappata e certo noi due eravamo d’accordo.
Pazienza, e poi andava bene così, voleva dire che tutto era tornato al suo posto, il mondo era ancora rotondo e girava, girava, girava. Io avevo quasi cinque anni, credo, mio fratello quasi nove.

Quando morì il nonno Francesco, di anni ne avevo quasi dieci.
È l’unico nonno che ho conosciuto: il nonno Cesare, papà del papà, era già morto da qualche anno quando sono nata io.
Il nonno Francesco mi chiamava Markadèta e Sakela, mi faceva attraversare i torrenti sui sassi, mi dava i mentoni piatti e bianchi, mi tagliava i bastoni su misura per camminare con lui, mi faceva ascoltare l’erba che cresceva e mi soffiava il naso quando ero triste e arrabbiata perché le avevo prese.
Era alto e ossuto, la testa sempre in luce per via dei capelli e dei baffi, candidi.
D’estate, la casa dei nonni si riempiva di bambini: le sorelle della mia mamma che abitavano in pianura portavano su tutti i loro figli nell’aria buona, noi eravamo già lì e così ci si ritrovava tra cugini e cuginetti.
Alla mattina, il nonno ci metteva in fila, sette, otto, nove, dai dieci anni in giù, e via che si andava, per prati, boschi, sentieri e mulattiere. Lui col bastone e noi con lui.
Si tornava alla campana del mezzogiorno e, seduti per terra contro le pareti della cucina, con in mano il piatto di alluminio, la nonna passava a mettere a tutti da mangiare. I suoi risotti rimangono i più buoni del mondo.

In settembre i cuginetti tornavano in pianura, in ottobre mio fratello andava in collegio e restavo io sola. I nonni si fermavano in montagna fino a San Martino, e a me piaceva andare da loro dopo la scuola, e magari stare anche a cena e a dormire. Dalla nonna c’era l’uva e, quasi ogni sera, le castagne. E intanto che quelle cotte sulla brace stavano nel sacco bagnato di acqua e grappa, o vino, per diventare ancora più saporite e essere sbucciate più agevolmente, si giocava a carte, scopa d’asse o liscia, briscola, mariana, rubamazzo. E i grandi parlavano e si contavano storie, e io ascoltavo, ascoltavo. Le parole e le voci erano scialli e altalene, scivoli e slitte, tane e tetti con sopra la luna.