Il pericolo di una storia unica

E sempre siano benedetti i social. Perché non sempre si riesce a stare al passo con le cose migliori che escono, con il pensiero più interessante che produce il nostro tempo. Per fortuna esiste la rete, e la cui funzione più autentica è informarci quotidianamente. E darci modo di capire che ci sono esperienze e teste che forse ci salveranno. Come quella di Chimamanda Ngozi Adichie che abbiamo scoperto grazie ad Alice Bigli, libraia riminese della libreria Viale dei Ciliegi, nonché presidente Associazione Culturale Mare di Libri. Mentre stavamo impaginando questo post ci è arrivata la bella newsletter di Spazio BK e fra i libri consigliati, il primo era proprio Il pericolo di una storia unica, accompagnato da queste parole: "Il discorso di Chimamanda Adichie per Ted è da sempre la nostra bibbia nel lavoro di educazione alla lettura Il libro nella giungla. Ora con Einaudi diventa un libro per le mani di tutti. Racconta il pericolo di raccontare sempre e solo la stessa storia e le stesse storie, incoraggiando alla diversità e alla molteplicità delle storie. Ogni volta che leggiamo sempre gli stessi libri e proponiamo sempre le stesse bibliografie ricordiamoci di questo libro!"

[di Alice Bigli]

Non ricordo esattamente quando ho visto per la prima volta il video della conferenza TED della scrittrice Chimamanda Ngozi Adichie che porta questo titolo.

Sono passati sei o sette anni, credo. So che sono stata immediatamente colpita dalla sua chiarezza, dalla potenza del suo messaggio.

Mi occupo di letteratura per ragazzi e di educazione alla lettura soprattutto con preadolescenti e adolescenti. Il tema degli stereotipi nelle narrazioni era qualcosa che percepivo come un tema importante, pieno di complessità e domande sulle quali riflettere, che cercavo di affrontare quando discutevo di libri sia con altri adulti sia con i ragazzi eppure restava confuso, ingarbugliato, un po’ sfuggente, prima di tutto nella mia testa, credo. Come un’urgenza da affrontare, ma che non trovava ancora una forma strutturata di pensiero. Quel giorno, quando mi sono trovata a fissare la Adichie sullo schermo, rapita dalla linearità della sua esposizione e dall’evidenza delle implicazioni che il suo discorso significava per il mio lavoro quotidiano, ho pensato che quel video avrei cercato di farlo vedere a più insegnanti e ragazzi possibile e che sarebbe stato per sempre un’ispirazione fondamentale professionale.

Chimamanda Adichie è una delle autrici più interessanti della letteratura contemporanea. Nata in Nigeria, dopo aver trascorso l’infanzia in una famiglia medio borghese di Lagos, a 19 anni si è trasferita negli Stati Uniti e dopo gli studi universitari ha iniziato a pubblicare i suoi libri. Nel 2009,  è stata invitata a tenere un discorso per le conferenze TED che ha appunto intitolato I pericoli di una storia unica successivamente tradotto in italiano e recentemente trascritto in un piccolo libro edito da Einaudi.

Partendo dalla sua infanzia la Adichie racconta il suo amore per la lettura sin da quando era una bambina e di quanti romanzi di autori inglesi ha letto negli anni della sua crescita in Nigeria. Le storie che hanno popolato il suo immaginario erano piene di  “personaggi biondi con gli occhi azzurri, che sorseggiavano birra allo zenzero e che parlavano spesso del tempo”. Insieme all’amore per la lettura è nata presto in lei la passione per la scrittura, come nelle biografie di tante autrici la troviamo dunque intenta ancora bambina a cercare di scrivere le sue prime storie nelle quali, inevitabilmente, riversava l’immaginario narrativo accumulato, scrivendo dunque di personaggi e ambientazioni lontani dalla sua esperienza, astratti.

Non scriveva storie che “le assomigliassero” perché non sapeva nemmeno che esistesse una letteratura africana.

Trasferendosi negli USA, poi, si è resa conto che il suo essere nigeriana portava automaticamente con sé “una storia unica”, una rappresentazione unica della Nigeria, o addirittura di tutta l’Africa. All’Univerisità c’erano compagne che si stupivano del suo inglese (lingua ufficiale, in Nigeria), del suo essere immersa nella cultura occidentale, dei suoi racconti di un’Africa non solo povera, disperata e fatta di natura selvaggia bellissima.

Insomma, tutti avevano già in mente una storia, una sola a single story con le sue parole, e quella storia, quella rappresentazione mentale così profondamente radicata, è frutto delle narrazioni che raccontano un paese mostrandone sempre e solo degli aspetti fino a quando quel paese o popolazione non diventa davvero quella cosa o caratteristica. Questo è il meccanismo che collega le narrazioni alla nascita di stereotipi e pregiudizi. La narrazione di una storia non falsa, ma già raccontata più e più volte in quella unica versione, in un panorama che non contempla altre narrazioni, è un problema perché crea un immaginario stereotipato che favorisce il pregiudizio.

Nel mio lavoro sui libri per ragazzi ho sempre percepito l’importanza di lavorare su più libri, in ogni progetto. Ho sempre cercato di costruire percorsi che affrontavano un tema comune mettendo a confronto vicende, personaggi, “voci virtuali” diverse. Ho sempre pensato che l’elemento più importante perché le letture diventassero ricchezza fosse permettere a diverse storie di interagire nel nostro cervello. Nel valutare la presenza di narrazioni stereotipate nella letteratura per bambini e ragazzi ho sempre percepito che il problema fosse quello di una valutazione complessiva dell’offerta del mercato editoriale più che quella del singolo libro, del quale, piuttosto, si potrà valutare la qualità specifica.

Il discorso della Adichie, dunque, mi è stato di grande ispirazione professionale. Soprattutto mi è stato di grande aiuto perché appunto, grazie alla sua chiarezza, l’ho proposto direttamente ogni volta che mi sentivo incapace di essere così immediata ed efficace nello spiegare.

Nella mia vita personale quelle parole e quei concetti sono diventati ancora più importanti quando sono diventata mamma, attraverso l’adozione internazionale, di due bambini nati ad Haiti.

Ho raccolto con profondo senso di responsabilità specifica la sfida di crescere due meravigliosi figli con radici lontane e così somaticamente diversi da me. Ho capito che dovevo formarmi su moltissimi aspetti. Il tema del razzismo e dei pregiudizi che mi sembrava qualcosa di semplice, immediato (c’era una parte “giusta” da cui stare, bastava starci, autocollocandosi, mettendosi da soli la medaglietta dell’antirazzista) all’improvviso è diventato un terreno di faticosissime lezioni da imparare dall’inizio. La narrazione dell’adozione è un altro elemento delicatissimo, da non dare affatto per scontato, sui cui continuare a leggere, riflettere, da non semplificare mai.

Nel libro di Espérance Hakuzwimana Ripanti E poi basta. Manifesto di una donna nera italiana (People) mi hanno inevitabilmente profondamente colpito i passaggi sulla sua infanzia in cui, anche lei accanita lettrice, non osava chiedere al bibliotecario se esistesse una protagonista che le somigliava o il racconto del su attaccamento disperato a quell’unico bambolotto nero incontrato. Pagine chiarissime sul bisogno di essere rappresentati.

Inevitabilmente, poiché nessuno di noi è fatto di pezzi separati e separabili, soprattutto se si fa un lavoro con passione, le riflessioni da mamma e da esperta di libri per ragazzi si sono mescolate, confondendomi ma anche arricchendomi.

La vasta libreria di casa, piena di libri per bambini, mi è sembrata improvvisamente inadeguata per i miei figli. Dov’erano i protagonisti neri, negli albi? Perché non i miei figli non avevano diritto a vedersi rappresentati da personaggi che gli assomigliassero? E le famiglie adottive? E nei libri in cui c’era un protagonista nero, per esempio, perché doveva sempre essere al centro di una storia a tema sulla diversità? Perché doveva essere sempre qualcuno che combatteva il razzismo oppure qualcuno che aveva bisogno di aiuto, che veniva salvato? Perché i miei figli non potevano semplicemente trovare un protagonista che somigliasse loro in una storia buffa, divertente o poetica che parlasse di un argomento qualsiasi? Perché nei libri di prima divulgazione sui paesi del mondo i bambini e le bambine non Europei o Nord Americani venivano sempre rappresentati in abitazioni tradizionali? Perché in Africa si rappresentavano ancora, sempre, villaggi tribali e non grandi città? Perché le famiglie, nelle storie, erano ancora tutte così terribilmente uguali, adeguate a un canone ampiamente superato nella realtà in mille modi diversi? Perché, per trovare le “famiglie diverse” occorreva cercare in quei libri a tema che finiscono per sembrare un catalogo dei freak? Lo stesso discorso può essere ovviamente esteso a tante altre rappresentazioni. Penso a quella della disabilità. Penso agli stereotipi di genere riferiti soprattutto ai personaggi maschili (per qualche ragione il tentativo di correggere gli stereotipi di genere è passato prevalentemente solo dalla possibilità di delineare una gamma più ampia di caratteri e destini per le bambine, lasciando intatte le rappresentazioni maschili). Questa maggior ampiezza di rappresentazione serve, ovviamente, non solo a chi la legge da protagonista, ma a formare l’immaginario di tutti. I compagni dei miei figli dovrebbero trovare nei libri contributi alla possibilità di immaginare tutti i destini possibili per ogni persona, nella sua unicità e indipendentemente da certe caratteristiche date.

Ovviamente libri che rappresentano eccezioni esistono ma sono ancora, purtroppo, eccezioni. Premi di lunghe cacce al tesoro. Avremmo bisogno di pensare più spesso ai “libri che mancano” pensando all’offerta nel suo insieme. Avremmo bisogno di avere voci, autori, protagonisti delle “diversità” che vorremmo raccontare per averne una rappresentazione non stereotipata, avremmo bisogno di un immaginario davvero nuovo, più ricco. Intanto, per la mia vita professionale e familiare, continuo le mie cacce al tesoro.