Niente è come esserci

[di Lorenzo Sartori]

Non sono interista, il calcio non mi riguarda e il titolo di questo post non vuole spingere i lettori ad acquistare un abbonamento allo stadio. Non è nemmeno uno slogan attuale, avendo trainato la campagna abbonamenti dei neroblù per la stagione calcistica scorsa. Per un certo periodo l'abbiamo letto nelle vie di Milano, stampato su manifesti con foto diverse, in una campagna pubblicitaria che era riuscita a conquistare la mia attenzione, per la forza estetica delle fotografie scelte, per la loro efficacia nel rappresentare la passione del tifo sugli spalti… e, appunto, per lo slogan.

"Niente è come esserci" sembra a prima vista il grado zero dell'ovvietà. Se tu ci sei c'è quantomeno qualcosa, se non ci sei no. È un invito semplice e chiaro alla presenza. La contrapposizione, evidentemente, non è fra essere allo stadio e non esserci, ma fra essere allo stadio oppure davanti al televisore. Vedere coi propri occhi il fatto, oppure illudersi di vederlo in video (e di vederlo addirittura meglio, grazie alle inquadrature ravvicinate e multiple, i replay la moviola l'odorama venturo). Forse una delle fotografie insinuava anche una contrapposizione secondaria: fra la dimensione collettiva dell'esperienza di esserci e l'implicita solitudine (o piccola cerchia d'intimi) davanti allo schermo. Ma soffermiamoci sulla contrapposizione principale.

Anzi, divaghiamo ancora un po', giacché si parla di andare allo stadio. L'ultima volta che personalmente ho messo piede in uno stadio fu nel 2010, all'Olimpico di Roma, per il concerto di chiusura del 360° Tour degli U2. La scena che sto per descrivere, naturalmente chiunque può vederla in scala ridotta nelle platee di qualsiasi concerto, da che l'era di youtube ci ha inghiottiti tutti. Ma lì faceva impressione. Decine di migliaia di lucine accese nella penombra dell'immane anfiteatro… Un intero stadio ricolmo di persone d'ogni età, impegnate per la maggior parte a riprendere, come operatori video amatoriali, il concerto per mezzo di fotocamere e smartphone. La maggior parte di noi si trovava sulle gradinate e così possiamo anche dire che la maggior parte di noi era impegnata a riprendere, del concerto, le immagini mostrate sull'avveniristico megaschermo circolare.

Roma, Stadio Olimpico, concerto degli U2, 2010.

Assieme a qualche altro dinosauro, ritengo che un concerto si vive tanto col corpo quanto con le orecchie. Anche con la vista, sì, ma l'esperienza è globale… invoca, prepotentemente, tutta la mia presenza. Non potrei mai stare in posa col braccio sollevato e fisso a riprendere immagini di dubbia qualità, sonoro di cattiva qualità, per produrre documenti digitali che servono… a che cosa?

A volte mi pare di essere in un fumetto di fantascienza dozzinale dove l'autore si è inventato delle torture di massa senza preoccuparsi di giustificare come mai le masse si lasciano così docilmente torturare, anzi, collaborano volontariamente alla tortura, investendoci tempo e denari. Però… la vita non è un fumetto, baby, quindi un perché ci sarà. Suppongo che sia la voglia di documentare di esserci. Al tale evento, grande o piccolo, a cui ho scelto d'intervenire, voglio che tutti sappiano, via youtube o facebook o instagram o, che io c'ero.

Peccato che ogni filmato dimostri esattamente l'opposto, ossia che concentrando la mia attenzione sul minischermo personale, è lì che sono stato tutto il tempo, assai più che nella vita che mi pulsava attorno. Ecco come muore malinconicamente il sogno utopico di antiquate gioventù che vedevano nell'evento rock potenzialità rivoluzionarie di liberazione personale e collettiva… E amen.

L'importante è esserci, dicevamo. Già prima della pandemia dello smartphone, che sta solo portando alla sua fase terminale una tendenza culturale consolidata nei secoli, la civiltà occidentale non ha mai brillato per valorizzare l'attitudine al raccoglimento, allo sguardo interiore, alla presenza consapevole. Siamo così, noi: si va fuori di noi, ci si proietta all'esterno, si guarda sempre all'oggetto altro da noi, ci si lascia coinvolgere dagli accadimenti dimentichi di noi stessi. Si maneggia la materia. È sempre sul mondo che interveniamo, per conformarlo alle nostre volontà (a ciò che abbiamo in mente). È là fuori che cerchiamo il problema. È là fuori che cerchiamo anche la soddisfazione… e quando la troviamo non la portiamo a casa.

Ma: che male ci sarebbe? Per un artista (figurativo a maggior ragione) guardare fuori si direbbe la cosa più naturale e utile del mondo, no?

Il punto credo che sia la consapevolezza. L'attenzione partecipe (o meno) che io indirizzo verso le cose. L'accorgermi di come le cose che osservo attorno a me toccano le cose che sono dentro me. E se già ieri il grado di attenzione poteva essere superficiale, oggi a Sociallandia il fuoco della percezione è arretrato dalle cose reali alle loro immagini bidimensionali su monitor. Anzi ai loro simulacri, giacché in assenza prolungata di confronto con la cosa reale, nell'abitare il monitor per porzioni importanti di ogni giornata di vita, nell'avere sempre più esperienze che transitano attraverso il solo senso della vista via pixel, non è remoto il rischio di farci l'abitudine e di confondere le cose con le loro rappresentazioni digitali.

Guido Scarabottolo, Prontuario iconografico per il designer contemporaneo, La Grande Illusion 2016.

Ma lo sguardo distratto, quello che buttiamo sulle cose pensando ad altro, è ultraridotto. È semplificato all'osso e coglie, delle cose, solo il minimo indispensabile a riconoscerle e usarle per quel che ci occorre. Tanto che le cose che non ci aspettiamo o che non conosciamo già, non le registriamo neppure fra quelle che pure sono, di fatto, nel nostro campo visivo: non le vediamo affatto.

La difficoltà dell'imparare a disegnare è tutta nell'imparare a vedere, non certo a fare movimenti con la mano destra. È nel superare i preconcetti visivi (che utilizziamo validamente nella vita quotidiana) e dedicarci all'attività di osservare. Nell'essere presenti a noi stessi, anche emozionalmente, anche riflessivamente, e soffermarci a cogliere che cosa le immagini suscitano in noi. Così come insegna a fare Betty Edwards nei suoi efficaci e fortunati libri sull'uso dell'emisfero destro del cervello. E come possiamo apprendere da altri esercizi, che i miei allievi del corso di fumetto al Castello chiamano "gli esercizi strani", il cui scopo è appunto approfondire e allenare la percezione… e vedere l'effetto che fa.

Sono esercizi che agli artisti hanno sempre fatto un gran bene. Che gli artisti stessi hanno spesso inventato senza volere. E che oggi, nell'ambiente digitale che non possiamo non frequentare, sono sempre più necessari, per tutti oso dire, non solo per gli artisti: essenziali come l'aria, vivificanti come il lavoro manuale, che sia artistico o no. Rigeneranti anche, come ricordarci chi siamo.

Uno di questi esercizi l'ho ripreso da un gioco che faceva Osamu Tezuka in rarissimi momenti sottratti al dio lavoro a cui ha immolato l'intera vita con ostinazione implacabile, con gusto, genio, prolificità creativa compulsiva, incontenibile.

Tezuka production, Osamu Tezuka, una biografia manga, (Coconino Press, 2000). Lettura da destra a sinistra.

Le due pagine riprodotte sono tratte dalla sua biografia manga in quattro volumi pubblicata da Coconino. A scuola propongo disegni d'autore al posto delle fotografie, e invito gli allievi a osservare minuziosamente le immagini per dieci minuti (non due). Poi mi riprendo le immagini e lascio che disegnino finché ne hanno bisogno. Alla fine osserviamo tutti assieme i risultati e commentiamo sia l'esperienza dei dieci minuti di osservazione, sia quella del disegno a memoria. Non racconto mai niente prima, di quanto accadrà. Altrimenti dirigerei l'esperienza su binari noti, mentre è assai più interessante che ciascuno viva la sua personale esperienza. È il motivo per cui non ne parlo nemmeno qui: i lettori che desiderano provarci, sono liberi di andare all'avventura!

Appunto perché ritengo che oggi ce ne sia particolare bisogno, alla Scuola d'Arte del Castello propongo un percorso breve espressamente dedicato agli esercizi di percezione e "disegno consapevole" (comincia a marzo, per chi fosse interessato). Ma tutto quello che stiamo vivendo oggi forse non è assolutamente nuovo in sé: solo capillarmente diffuso per quantità d'individui praticanti e per monte ore giornaliero a ciò dedicato. Per evidenza del risultato. La tecnologia facilita, più che altro.

Le facilitazioni credo che siano il nodo della questione che dibattevamo coi Topi qualche tempo fa. L'incapacità di disciplina dell'artista odierno nel costruire le sue competenze artistiche, credo che sia conseguenza inevitabile di tutti gli interruttori che pigiamo ogni giorno. A confronto con le generazioni del passato, noi smidollati d'oggi abbiamo non solo stravinto la guerra di sterminio contro la fatica, ma abbiamo esteso il fronte fino ai più innocui fastidi, le più lievi occasioni d'impegno muscolare. Dico solo: lo spremiagrumi elettrico! C'è in tutte le nostre abitazioni e forse nemmeno ci domandiamo più quale sia davvero la massa di fatica che ci risparmia, e se esista una proporzione minimamente sensata fra quanto gli spremiagrumi elettrici costano al pianeta e i benefici che apportano all'umanità. Non ce lo domandiamo per abitudine. Li adoperiamo, per abitudine! Per abitudine non siamo mai qui.

Così, per disabitudine, accade che l'esser qui o il ritornarci diventa sempre più una fatica. Sono convinto che per i grandi artisti del passato (non solo, ma soprattutto) ciò che chiamiamo disciplina non era fatica. O meglio, non era fatica-nemica. Era la sana fatica di quando si è contenti di farla. Di quando addirittura si ruggisce di piacere, nel farla.

Osamu Tezuka ha prodotto un numero abnorme di tavole di fumetti. Una quantità impressionante di cartoni animati, sia popolari sia sperimentali. Si è laureato in medicina quando aveva già una carriera di fumettista che gli divorava i giorni e le notti. Disegnava anche sdraiato a terra, quando non aveva più le forze per farlo al tavolo e le scadenze non permettevano soste. Si era costruito una conoscenza enciclopedica del mondo della natura e degli insetti in particolare. Suonava il pianoforte. Andava al cinema tutti i giorni.

Credo che per lui il punto non fosse la fatica, ma la bellezza. E la consapevolezza di viverla.

Osamu Tezuka con un pupazzo del personaggio Tetsuwan Atomu, più conosciuto come Astro Boy, 1963.

I casi della vita suggeriscono una postilla al post.

Martedì 28 febbraio si è aperta la stagione 2017 di Meet the Media Guru, rassegna ormai classica di incontri con personalità della comunicazione digitale. Ospiti del primo affollatissimo incontro, Tim Jones e Gabo Arora.

Arora è direttore creativo di UNVR, cellula di realtà virtuale delle Nazioni Unite. Al pubblico di MtMG ha diffusamente illustrato Clouds over Sidra, un cortometraggio girato a 360° in cui lo spettatore ha l'impressione di visitare in prima persona un campo profughi. Un campione di settemila spettatori, se non ricordo male, ha dato risultati sorprendenti: uno su sei ha lasciato un'offerta in denaro al gazebo dell'Unicef in cui ha fatto l'esperienza (il doppio secco della media delle persone contattate in maniera tradizionale) e il 70% di essi ha dichiarato di sentirsi motivato ad agire nella propria comunità per accogliere i profughi.

Ci sarebbe stata la possibilità di provare gli apparecchi di Realtà Virtuale prima dell'incontro, ma io non lo sapevo… e comunque le prenotazioni per i posti disponibili sono andate esaurite in un quarto d'ora, prestazione decisamente fuori portata per me. Quindi posso fare riflessioni sulla cosa, senza parlarne per esperienza diretta.

Gabo Arora ha fatto una panoramica storica delle strategie mediatiche di sensibilizzazione al "dolore degli altri", dalla prima guerra mondiale alla Siria attuale e a Black Lives Matter, mostrando quanto sia fallimentare e anche controproducente diffondere immagini esplicite della sofferenza e del disastro. Per chi è interessato a questo argomento e a tutto l'incontro, rimando alla registrazione disponibile a questo indirizzo. Quello che tocca l'argomento di questo post è la convinzione di Arora che ciò che funziona davvero è lo storytelling, il coinvolgimento "narrativo" del pubblico.

Ho una sensazione che può essere pregiudiziale… Nell'esporre i lusinghieri risultati ottenuti da Clouds over Sidra, Arora si dilunga sull'approccio linguistico e umano, sullo storytelling immersivo, sul confronto con una realtà percettiva globale in evoluzione che non riesce più a essere agganciata da espedienti esausti oltre che intrinsecamente poco efficaci. Mostra un breve dietrolequinte del suo lavoro a Gaza in cui suggestioni e barlumi di storie traspaiono dai volti delle persone e dagli ambienti di vita. Insomma senza sottolinearlo pone altre componenti (di sensibilità umana, artistica e di professionalità autoriale nella gestione di un medium e del suo linguaggio) accanto al prodigio del nuovo ritrovato tecnologico che, in questa sede, si aggiudicherebbe altrimenti tutto il merito.

Se non capisco male, la tesi è che la RV sia sostanzialmente un medium che restituisce una più fedele illusione di presenza (la parola illusione è mia). Lo strumento in questo caso è stato usato assai virtuosamente, anche se suppongo che sia neutro in sé e che non favorisca un incremento di consapevolezza automatico per lo spettatore. Mi domando se la possibilità di simulazione di una presenza sempre più verosimile e ricca ma non reale sia, al di qua dei fini conseguiti, un passo avanti nel mondo incantato che rende sempre più complicato ritrovare un bel giorno la strada per tornare a casa.

Dice Arora: "Presenza è la prima parola a cui bisogna pensare". E a me, più che l'indicazione di un percorso tecnologico, pare un ottimo consiglio da sceneggiatore.