Anche scrivere è un posto obliquo

Un posto obliquo è un libro, un racconto d'immaginazione, una guida letteraria e illustrata a un luogo reale, meraviglioso, ricchissimo, meta nei secoli di narratori e artisti. Sarà presentato dalle autrici, Federica Iacobelli e Gioia Marchegiani, domenica 18 settembre, alle 17, ad Ariccia, presso Uccelliera di Parco Chigi. L’ingresso è ibero su prenotazione. Per info e prenotazioni: associazione.start@gmail.com Biblioteca Attiva 069332010.

[di Federica Iacobelli]

La copertina di Un posto obliquo.

Rispondo con slancio maggiore, e quindi con maggiore incoscienza, alle commissioni che domandano il racconto di un luogo reale o meglio una finzione che abbia per scena, per soggetto, per intenzione, di farne emergere la storia e le storie. Mi succede, credo, perché quel luogo reale è un ‘fuori di sé’, un oggetto esistente da indagare di nuovo o per la prima volta per poterlo narrare in qualche modo, e come tale rappresenta una zattera verso altre sponde, un solido appiglio in mezzo alla bufera della vanità e dell’incerto, una fuga da quel ‘dentro di sé’ che invece in me accentua, specie negli ultimi tempi, un conflitto mai messo a tacere con i limiti, le risorse e le insidie del cosiddetto mestiere di scrivere.

Così è stato quando all’inizio del 2021 Gaia Cianfanelli e Giuliana Riunno, fondatrici dell’Associazione Start e instancabili militanti della Biblioteca attiva di Ariccia, alle spalle una formazione l’una da curatrice museale e l’altra da restauratrice, mi hanno invitato a partecipare con Gioia Marchegiani, artista pittrice e illustratrice che non avevo ancora mai incontrato di persona, a una residenza di alcuni giorni nel Parco Chigi: il luogo reale intorno al quale avremmo poi dovuto far nascere un racconto che sarebbe diventato il primo libro della prima collana di Start edizioni.

I risguardi del libro.

Ogni storia, quale più quale meno, è anche il racconto di un luogo: dello spazio in cui si svolge. E finzioni ambientate nello spazio di un luogo reale sono state per me non di rado una fonte speciale di fascinazione e conoscenza. Ci sono posti che ricordo di aver realmente attraversato pure se non è vero e solo perché il romanzo o il racconto di uno autore amato mi ci hanno portato. E ci sono posti dove sono stata a lungo o sono cresciuta che esplorati come ambiente e paesaggio di un’invenzione narrativa mi hanno mostrato però aspetti nuovi e inattesi, angoli fino ad allora ignoti o rimossi o comunque nascosti al mio parziale punto di vista.

Forse perché come lettrice sono più sensibile allo spazio che al tempo di una storia, ovvero a come lo spazio ne racconta anche il tempo, o forse perché scrivere è per me attraversare uno spazio, innanzitutto, verso una meta che in parte resta ignota, fatto sta che ho accolto più di una commissione simile, negli ultimi tempi: per raccontare a lettori piccoli e grandi il famigerato portico di San Luca, per esempio, nella collana di ‘storie della Storia di Bologna’ curata da Tiziana Roversi per Minerva edizioni, è nato qualche anno fa il diario di viaggio di una lumaca secolare alla quale l’illustratrice Teresa Sdralevich ha dato insieme a me un corpo, un volto e un paesaggio.

L'ingresso nel parco durante la residenza.

L'uccelliera di Parco Chigi.

Ma diversamente da quell’esperienza, accolta anche per una consuetudine pressoché quotidiana con il portico più lungo del mondo, si trattava qui di entrare in un luogo a me fino ad allora sconosciuto, e di farlo guidata da due committenti dotate di un’idea di lavoro collettivo e in divenire per niente usuale: “La collana Scopri - spiegano bene Gaia Cianfanelli e Giuliana Riunno - nasce dall'esigenza, dopo tanti anni di contatto con il mondo dell'editoria, di comprendere se possano esserci dinamiche diverse da quelle abitudinali nel processo di creazione e di interazione tra testo e immagine nel libro illustrato. La residenza d'artista, come modalità mutuata dal mondo dell'arte contemporanea, è stata la strada scelta per questa sperimentazione. In generale i processi creativi ci interessano particolarmente e questo probabilmente perché sono indagini proprie dell'arte contemporanea che però abbiamo verificato essere di fondamentale importanza in questo mondo ibrido che navighiamo e che partendo da lì interseca il mondo del libro, dell'educazione, della poesia, della crescita, della cittadinanza attiva. Abbiamo quindi pensato che ‘Scopri’ potesse essere il luogo in cui questa sperimentazione prendesse vita, un'idea di collana nata prima dell'idea di libro, che fosse luogo di ricerca, spazio curatoriale in cui mediare e proporre direzioni e interrogativi, in cui rimanere dalla parte di chi guarda e di chi legge e lavorare sugli instanti di sorpresa. E quando questo accade allargare il confronto, stare, rimanere nel dubbio e credere fortemente che abbiamo bisogno sempre più di poesia e ricerca.”

Le botaniche del parco.

La collana, e il suo ‘pilota’ al quale venivo chiamata a collaborare, nascevano quindi da un lavoro radicato sul territorio e da una visione fortemente difesa e condivisa: da un elogio del margine inteso come “spazio di rifugio per la diversità, come parte residuale, un po’ come i bordi dei marciapiedi di cui parla Gilles Clement, su cui tutti passano veloci senza soffermarsi e capire che è proprio lì che è capace di vivere la biodiversità”, ma anche “come indicazione geografica, un piccolo borgo nei Castelli Romani”, e quindi “come atteggiamento di avversione verso le logiche del successo immediato e visibile, e come posizione dello sguardo, obliquo, laterale, consapevole ma non completamente assorbito da dinamiche di settore”.

Gaia e Giuliana erano e sono persuase che “conoscere, riconoscere, vivere e agire luoghi reali e ideali sia la prima possibilità di avere un pensiero critico sul mondo che ci circonda, e che farlo insieme ad una comunità apra possibilità di confronto che rendono il pensiero di ciascuno più ricco, più vigile e meno a rischio di diventare individualista”. Non a caso, il loro progetto editoriale si inseriva alla sua nascita in un progetto educativo già esistente dell’associazione Start, il Diario di un viaggiatore nella propria città, all’interno del quale ragazze e ragazzi, bambine e bambini del territorio sono stati i primi ad avventurarsi nel Parco Chigi: durante tutto l’anno 2021-2022 è stata infatti creata nel parco una classe all’aperto in cui le scuole di Ariccia si sono avvicendate esplorando il luogo non solo direttamente ma anche attraverso i materiali via via raccolti per il libro.

“L'esigenza è anche quella di dare voce, immagine, parole”, precisano Gaia e Giuliana, “a ciò che sul nostro territorio ci sembra prezioso, presente, forte ma poco valorizzato e riconosciuto. È stata quindi immediata e comune la scelta di iniziare questa collana da Parco Chigi, un luogo unico, testimone vivo di storie e memorie di un territorio molto più ampio di quello di Ariccia, meta per secoli di ricerche artistiche e letterarie, un luogo divenuto pubblico, e quindi collettivo, ma paradossalmente quasi scomparso dalle storie e memorie del territorio. Ciò che abbiamo chiesto alle autrici è stato di immergersi nel luogo oggetto del racconto, sia attraverso l'esperienza diretta che attraverso lo studio e l'analisi della ricca documentazione che abbiamo cercato. Il parco infatti è ricco di storie e memorie, di tanti tipi diversi. Dalla natura e la botanica, che continuano a proseguire il ciclo da migliaia di anni e sono testimonianza viva del passaggio del tempo su questo territorio particolare, agli aspetti mineralogici, dai miti e leggende degli albori della cultura latina, agli aspetti archeologici e iconologici. Volevamo che tutto questo trovasse spazio nel libro, ma senza divenire didascalico. Avevamo in mente una sorta di guida contemporanea, in cui ci fossero dei rimandi forti a ciò che il Parco custodisce ma mantenendo anche un aspetto narrativo fresco e agile. Un libro che fosse fonte di collegamenti per chi, del territorio o meno, abbia una conoscenza pregressa, ma allo stesso tempo potesse funzionare anche per chi non avesse alcun legame con il luogo specifico. Prima della residenza con le autrici abbiamo quindi fatto un grande lavoro di ricerca creando un archivio di fotografie, testi, ricerche archeologiche, mappe storiche e contemporanee, disegni e quadri dei tanti artisti che il Parco hanno rappresentato e interpretato nel tempo, miti e leggende legate al luogo, simboli e aspetti iconografici che potessero essere di ispirazione per il lavoro di creazione. Esperienza diretta e ricerca sono andate di pari passo nell'arco di tutto il periodo di lavoro, e a queste si sono poi aggiunte le ricerche e suggestioni delle autrici stesse, i materiali raccolti da loro, i cortocircuiti che sempre avvengono quando si è a lungo immersi in un progetto.”

Nel bosco di Parco Chigi.

Immergersi in residenza nel Parco Chigi, lo ammetto, mi risultava insieme attrattivo e inquietante, specie dopo il lungo inverno dei confinamenti. Come forse chiunque per mestiere componga, sono anch’io appassionata al ‘processo’, intrigata dal ‘non finito’, ma ho sempre attraversato con disagio le situazioni di lavoro in cui il divenire dell’esperienza prevalesse sull’opera da compiere. Da sognatrice pratica, da amante insieme impulsiva e scettica, da sostenitrice di quella mescolanza così difficile e rara dell’alto con il basso, del popolare con il colto, nella convinzione fervida che poi solo l’opera conti, e che di tutto quel che abbiamo impiegato per comporla quasi niente debba intravedersi, e che chi la leggerà o guarderà meriti immenso rispetto ovvero una vigilanza costante sulla propria onestà sostanziale e intellettuale di autori, temevo non poco l’indugiare nei materiali, lo sfaldarsi delle trame, l’amalgama sempre incerto e misterioso delle parole con le immagini.

Eppure, confesso, mi piaceva molto l’idea che il libro che avremmo costruito insieme potesse essere anche una guida. Oggi i cataloghi delle case editrici ne sono pieni, in effetti, e ne offrono esempi i più svariati: antologie che mettono insieme storie di viaggio con schede e informazioni utili e brani letterari dedicati, racconti in prima persona, attraversamenti sentimentali di città o di paesi, sguardi autobiografici e a volte forzatamente inconsueti su luoghi del cuore, della memoria, della storia. Ancora lontana dal porre la penna sul foglio, ma già sprofondata, immaginavo così un libro di mappe, di pezzi di diario di viaggiatori artisti e non solo passati nel tempo per questo luogo, di cataloghi di botanica, di interviste sulle famiglie proprietarie del palazzo e del suo giardino, e sull’ecosistema del bosco, e sul suo rapporto col territorio, tanti cassetti ricolmi che una volta aperti per frugarli evidenziavano però le sacche immense della mia ignoranza, di mancanze difficili da colmare nel tempo comunque limitato di una commissione.

La famiglia Chigi.

E poi c’era la fluidità spazio-temporale percepita camminando nel Parco: un aspetto inatteso e dominante che mi spingeva a una forma fluida anche nella scrittura, il mio solo strumento. Non frammenti, allora, ma uno scorrere continuo, e non per costruire una guida ma per compiere anche a parole un viaggio alla scoperta dell’ignoto. Cercavo un’esperienza compositiva nuova, diversa nel chiuso del mio studio oltre che nelle scorribande con le mie compagne d’avventura; una scrittura con delle fondamenta e uno scheletro solido ma con la possibilità di perdermi e ritrovarmi nelle maglie delle parole come accadeva attraversando il nostro luogo accanto a Gioia. E visto che ancora e sempre restavo estranea a quello spazio, desideravo una distanza, dopo l’immersione. La storia della sua apertura pubblica mi suonava poi molto recente, finanche incompiuta. Sentivo quindi il bisogno di tornare al periodo in cui il Parco era ancora proprietà dell’ultima famiglia, quella che infine gli aveva dato il nome. Anzi mi interessava, per averne letto nei testi dedicati al suo restauro, proprio quel tempo di mezzo, quel lembo di ultima esistenza da giardino privato dei suoi ventotto ettari di terra che erano e sono bosco prima e più che parco. E mi avvinceva l’idea di una storia di iniziazione che evocasse anche altri eventi mitici o storici legati al luogo reale nei secoli e secoli, dal passato più antico a quello recente. Volevo attraversare quel luogo nei panni di un ragazzo di quasi cinquant’anni fa, e attraversarlo anche con lui per la prima volta.

Il protagonista del libro.

Volevo provare a camminare sul confine tra il reale e il fantastico, per quanto fosse possibile. Ma non volevo perdere il sentimento dell’incontro più assurdo avvenuto durante la nostra residenza concreta: quello con due pelosissime pecore portate nel Parco Chigi per il set di un film e poi dimenticate lì, dove ancora vivono. Il loro manto gonfio, intricato, non tosato per mesi e per anni, comparso all’improvviso e poi subito scomparso tra il tronco di un albero e un cespuglio di piante, mi evocava l’intrico del bosco lasciato crescere senza interventi umani o quasi, come se ne fosse una miniatura. Ed è da questo incontro suggestivo che è nato il titolo-guida per il mio racconto: Nel vello, decisamente arcaico e impronunciabile.

Agostina e Sigismonda, le pecore che abitano nel parco.

In una trama e in una scrittura così concepite confluivano più o meno disordinati materiali di varia origine: il ricordo della luce che cambiava di ora in ora e di passo in passo durante le nostre passeggiate, le suggestioni provenienti da documenti tipici dell’aricia latina come l’erma bifronte, o dalla rilettura del mito di Ippolito-Virbio, o ancora della scoperta della processione rituale della dea Diana, e poi le piante e i fiori, gli animali terrestri e volanti, i batteri, i funghi, gli insetti, i ruderi e gli scorci che mi tornavano addosso sia da una memoria visiva sia filtrati attraverso i disegni dal vero della mia coautrice illustratrice. Perché durante la residenza Gioia Marchegiani aveva già cominciato la scrittura di un suo racconto di immagini, che con il mio scorreva in parte parallelo e in parte invece si stava già intersecando.

L’erma bifronte.

Del resto Gioia quel luogo reale lo conosceva da prima di me e del nostro incontro: “Quando sono entrata nel Parco Chigi la prima volta era il 20 ottobre 2019 e ricordo benissimo di essere stata colta da sindrome di Stendhal alla vista della distesa boscosa dalla terrazza appena attraversato il portone d’ingresso. Impressa indelebilmente sul fondo dei miei occhi è riapparsa inalterata mentre leggevo il testo delle prime pagine del racconto, ed è stata questa una delle prime illustrazioni ad acquerello che ho dipinto.”

Il suo modo lieve, morbido, aperto, di concepire il senso e la sostanza della parte visiva del nostro racconto mi ha insegnato molto, dialogando e anche scontrandosi con quell’intrico di rami, esistenze, pietre, che la mia scrittura diventava a tratti. “L’urgenza di dipingere quei luoghi, la necessità di intrecciarmi alla storia e il desiderio di lasciare, inserire, indicare uno spazio aperto, un passaggio, un luogo dell’incognito e dell’incerto”, tutto questo ha dato luogo per Gioia “alla definizione, dai confini morbidi, di tre livelli narrativi principali. All’acquerello ho affidato il racconto reale del Parco, con quella predominanza di verde declinato dalla luce in molteplici sfumature senza tempo. Con l’inchiostro ho cercato di dialogare con le parole della storia, in un flusso in cui lettere e segno sono arrivate fino a confondersi ed è successo anche che si son persi nell’intrigo dei rami, tra quel sopra e quel sotto. Al bianco del foglio ho lasciato la dimensione di passaggio, il luogo del tempo tra i tempi, tra il prima e il dopo, dove c’è tutto, tantissimo ma dove ognuno può starci come vuole, vedere quello che vuole.”

Simon Mago.

Quando si scrive di un luogo reale, e con tanti riferimenti e informazioni da prendere e da dare, capita di procedere sul foglio più lentamente e goffamente del solito. Si segue il filo della trama, si sta col personaggio e con le sue emozioni cangianti, ma al contempo si riattraversa uno spazio realmente vissuto, se ne ricostruisce una mappa mentale e si sta attenti a una precisione illusoria cercando maldestramente con semplici gruppi di parole di descrivere i posti, e le distanze, e i rumori, e la luce, e gli odori, e il sopra, il sotto, il dentro, il fuori… Si sta tesi con quest’intenzione e intanto invece quel posto diventa anche un altro, sempre più inconoscibile via via che ci si addentra nel suo alter ego di sintagmi, sempre più alieno, o almeno questa è la sensazione dolcemente umiliante che si ha scrivendo e riscrivendo in una seconda, in una terza, in una quarta stesura, come è stato per me in quest’esperienza.

Ma il bello è arrivato rileggendo l’ultima versione dopo qualche tempo, nell’impaginato, dove il racconto di parole fluiva quindi già insieme a quello delle immagini. Certo è vero che un’opera compiuta non corrisponde mai alla sua immaginazione, a quello che si aveva in testa dapprincipio, e all’intenzione piena con cui ne abbiamo affrontato il lavoro cosiddetto creativo: un pezzo più o meno grande ci sfugge sempre, resta inconsapevole, inconscio, ed è una pietra dura e luminosa che svicola da ogni esercizio di trama, da ogni ombra di modello, da qualunque dichiarazione di intenti pur condivisa e confrontata e discussa a lungo. Però sfogliando il libro, attraversandone la storia di parole e di segni, io sono arrivata a chiedermi chi l’avesse scritto: pur essendoci stata su per settimane, lavorando a lungo ogni frase e parola, montandone e rimontandone i passaggi di ritmo, di senso e di luce, pur avendo visto e osservato e via via amato le immagini che Gioia andava creando in dialogo con il luogo o con le mie parole o con entrambi, ora non mi riconoscevo nel testo, o solo in parte. Ora leggevo qualcosa che non andava diritta alla mia meta originaria ma procedeva storta, sghemba, talvolta perché il terreno era sconnesso e talvolta per farmi uno scherzo, una sorpresa, uno sgambetto. Le curatrici intanto cercavano un titolo nuovo, perché l’amato Nel vello era stato bocciato da tutti i primi lettori. Un posto obliquo, ci hanno proposto: lo chiameremo così. E io ho subito sentito che era giusto: non diceva solo del luogo, infatti, diceva anche della scrittura, del suo procedere o fermarsi, della sua impossibilità ad aderire, a rispondere e basta, a diventare insomma strumento di qualcuno o di qualcosa.

Del resto poi, come dice bene Gioia, “tutto a tratti può confondersi. Perché entrare in un posto obliquo è così. Si passa dal buio alla luce, dall’euforia alla paura, dalla certezza al dubbio. Si sale e si scende. Si scivola ma ci si siede anche. E si può perfino vedere stando con gli occhi chiusi. La scoperta è che un libro può nascere anche così. Che all’inizio ci sembrava difficile, a tratti un’impresa. La scoperta è che prima di rinunciare all’impresa è bene attraversare la soglia, sedersi, inclinare un po’ la testa e provare a vedere da una prospettiva diversa.”

L'affaccio sul bosco.

Oggi che Un posto obliquo è appena uscito dalla tipografia, ovvero è un libro che esiste, finito, Gaia Cianfanelli e Giuliana Riunno vedono sia il processo sia l’oggetto che ne è nato come “un punto di arrivo di cui siamo molto soddisfatte nell’ aver trovato il modo di mettere insieme tutti quegli elementi che per noi erano fondamentali: la memoria e le storie custodite da un luogo reale senza divenire didascalico ma aprendo a una possibilità di incontro per chiunque, la descrizione dettagliata delle meraviglie piccole e grandi che ne costituiscono la verità, un libro in cui testo, immagini e grafica avessero lo stesso peso e fossero profondamente di senso. Insieme a Gioia e Federica, come autrici che sono partite dalla residenza d'artista, era per noi molto importante che ci fosse una componente grafica che interagisse con la narrazione. Abbiamo quindi coinvolto Francesco Sanesi, che ha sviluppato il progetto grafico del libro in un ulteriore confronto tra parola e immagine, immagine e grafica, parola e grafica andando a modificare e indirizzare ancor di più il senso della narrazione complessiva. Allo stesso tempo ‘Un posto obliquo’ è però anche un punto di partenza di un percorso che vediamo molto lungo, variegato, pieno di soluzioni diverse, in quel processo di ricerca che rimane aperto, pieno di interrogativi, di soluzioni possibili e di dubbi. Pensiamo che la strada intrapresa sia interessante e in grado di rivelare le potenzialità di una partitura scritta con linguaggi diversi fatta di forti incontri e di pause necessarie per costruire una e tante narrazioni, rivelando un patrimonio linguistico e visivo unico e che soltanto l’esperienza diretta tra le due autrici è riuscita ad accordare. Sarebbe interessante capire se anche la componente grafica possa essere vista come un linguaggio iniziale da far intervenire fin dal primo momento nella residenza oppure se si rischia di creare troppa confusione senza trovare una linea comune. Si deve però anche dire che tra le cose che abbiamo capito c'è sicuramente il fatto che fare libri, almeno in questa maniera, sia assolutamente insostenibile dal punto di vista economico. È quindi stato per noi molto importante sia da un punto di vista creativo che pratico che il libro nascesse in una dinamica comunque progettuale e più ampia rispetto al solo aspetto editoriale. Ci chiediamo ancora se sia possibile che una modalità come quella che abbiamo in mente con la neonata collana ‘Scopri’ possa quindi entrare in un mondo come quello editoriale o se sia necessario proprio questo stare non pienamente inseriti nel contesto per portarla avanti”.

Il ponte di Ariccia.

A dodici mesi esatti dalla nostra residenza, tra maggio e giugno 2022, Gaia e Giuliana hanno portato Gioia e me a incontrare tutte le bambine e i bambini, le ragazze e i ragazzi che durante l’anno avevano esplorato il Parco Chigi nella classe all’aperto creata per loro. Il libro non c’era ancora ma c’erano già tutte le parole, e i disegni, e l’impaginato con la sua idea grafica e compositiva. Per due intere giornate, nella luce di questo posto stratificato, abbiamo dialogato su una piccola opera ancora non visibile ma quasi, nata come racconto immaginario ambientato in un luogo reale o meglio come una finzione che avesse per scena, per soggetto, per intenzione, di far emergere di quel luogo la storia e le storie. È stato paradossale, ma divertente anche per questo, parlare di un libro che non c’era a un pubblico di diverse età, dai sei ai quindici anni ma pure dai venti ai settanta visto che con gli studenti c’erano anche gli insegnanti. Ed è stato istruttivo provare a ricostruire in che modo avessimo provato a portare nei nostri disegni, nelle nostre parole pezzi di quel luogo reale che il nostro pubblico pure conosceva, perché lo aveva a sua volta esplorato, per cui ciascuno di loro avrebbe di certo trovato altre storie, altri respiri e segni e ritmi e personaggi per raccontarlo a se stesso o ad altri. Così, quando un ragazzo o una ragazza o un professore, non ricordo, ci ha domandato a che cosa servisse Un posto obliquo, “A niente”, ho risposto io d’istinto. E l’ho fatto con discreto orgoglio, oltre che con un certo sollievo.

La quarta di copertina.

Un posto obliquo sarà presentato pubblicamente domenica 18 settembre alle ore 17 nell’Uccelliera del Parco Chigi di Ariccia (Roma). Ingresso libero con prenotazione obbligatoria.

Per informazioni e prenotazioni: associazione.start@gmail.com ・ Biblioteca Attiva 06 9332010


Link utili:

Associazione Start

Biblioteca Attiva di Ariccia

Il Parco Chigi

Gioia Marchegiani

Il portico più lungo del mondo