La rivoluzione di Donatella

[di Martina Forti]

Oggi, 12 giugno 2023, mia madre Donatella Ziliotto compie 91 anni, per diciotto dei quali, una malattia l’ha isolata dal mondo.

I suoi libri continuano a venire ristampati, molti ricordano con stima e riconoscenza il suo lavoro di editor e traduttrice, ma io mi domando: quanti, tra quelli che si sono approcciati alla letteratura per l’infanzia nell’ultimo ventennio, la conoscono? Non sono sicura che siano in molti, non i giovanissimi senz’altro: scomparire per diciotto anni ha delle conseguenze.

Chi, ad esempio, sfogliando un libro di Roald Dahl, sa com’ è finito nella collana degli Istrici della Salani, o leggendo Pippi Calzelunghe è consapevole che quel romanzo è approdato in Italia grazie a mia madre, che è andata a scovarlo direttamente in Svezia, a casa di Astrid Lindgren e l’ha tradotto insieme alla sua amica Annuska Palme Sanavio?

Ma forse conviene partire dal principio.

Mia madre è nata a Trieste nel 1932. La sua infanzia, se pur in un periodo così complesso come quello della guerra, si è svolta in un clima stimolante, un po’ per la città, crogiuolo di diverse culture, un po’ per l’ambito famigliare.

Il padre, Baccio Ziliotto, apparentemente severo preside di Liceo Classico, rigoroso e austero, era in realtà un vivace intellettuale, un uomo inventivo, affettuoso e anticonformista. Ha sempre incoraggiato mia madre a pensare con la sua testa, a distinguersi; arrivò perfino a spettinarla prima di scattarle una famosa fotografia, che Grazia Nidasio inserì nelle illustrazioni del romanzo Un chilo di piume, un chilo di piombo, uscito nel 1992 (ripubblicato nel 2016 da Lapis, con una emozionante introduzione di Bianca Pitzorno che consiglio di leggere). Di tutt’altro carattere era mia nonna Anna, come si evince dagli otto volumi dei diari che mia madre scrisse tra il 1940 e il 1949, dei quali Beatrice Masini ha pubblicato una scelta nel 2018 in Pensa giornalino! Diario di una bambina che amava i diari (Bompiani). Professoressa di lettere, mia nonna anelava ad avere una “bimba a modo”, e giustificava le stravaganze della figlia, solo perché la considerava affetta da “infantilismo psichico”.

Credo che da suo padre, mia madre abbia ereditato molto: l’attenzione agli altri (casa nostra era sempre un via vai di rifugiati politici, artisti squattrinati raccattati anche per la strada, amici di amici che noi ospitavamo), alla natura, alla musica, alla Storia dell’arte. Mio nonno la portava in giro per la città insegnandole i vari stili artistici, magari basandosi sugli angeli del cimitero, scolpiti sopra le tombe; e quando era malata, le dipingeva una fiaba sul risvolto del lenzuolo. Mia madre, in compenso, mi faceva le decalcomanie sulle braccia: una bimba con il morbillo o gli orecchioni, ma tatuata.

Sotto pseudonimo e in segreto dalla famiglia, mio nonno collaborò a lungo con il Corriere dei Piccoli, sorprendente coincidenza, se si pensa che nei diari di mia madre è riportata una lettera che a otto anni mandò al direttore di quel giornale. Si offriva come collaboratrice, e poi concludeva commentando che, se non l’avessero voluta, poco male, si sarebbe rivolta all’Intrepido.

Rigore e fantasia, regole e inventiva, serietà e ironia: metodi educativi appresi da suo padre, che mia madre applicò anche con noi figli. Non a caso, per prenderla in giro, la definivamo “austroungarica”.

Un’altra figura fondamentale per la sua formazione è stata l’insegnante di italiano della prima media, Rita Cajola, che le ha fatto conoscere gli scrittori russi, inglesi e americani, ma anche Dante e Leopardi, sostenendo che così sarebbe tornata ad amare la luna. In quegli anni, la luna era temuta, nelle notti chiare era più facile venire bombardati.

La Cajola invitava le alunne a non usare la retorica, a cercare la propria originalità, a mostrarsi coraggiose, un insegnamento che mia madre ha sempre seguito, denunciando nei suoi romanzi, ma anche attraverso i libri scelti per le sue collane editoriali, una certa tendenza dei genitori ad avere un’idea preconcetta dei figli, senza rispetto per la loro individualità.

Finito il liceo, partì per la Scandinavia sulle tracce di Bibi, una bimba del Nord, la protagonista dei libri della scrittrice danese Karen Michaelis, una bambina come quella che la sua insegnante l’aveva spinta a diventare: libera e autonoma.

Quel viaggio si rivelò fondamentale. Nel grande Nord mia madre scoprì che era normale convivere con un mondo magico e fiabesco, fatto di strane creature; i bambini erano amati, ma indipendenti; la vita in armonia con la natura.

In Scandinavia tornò un’altra volta, dopo che l’editore Vallecchi le chiese di inaugurare tre collane per l’infanzia: Il Martin Pescatore; L’Arganello e Le Piramidi. Il primo titolo del Martin Pescatore fu Pippi Calzelunghe.

La vicenda dietro a questo libro, è una storia a sé. Era il 1958 e mia madre stava cercando romanzi per la nuova collana, che in seguito verrà considerata “storica”. Non a caso il motto usato per lanciarla era stato: “I Classici di domani”.

Il suo intento era quello di offrire ai bambini italiani il meglio della letteratura internazionale per l’infanzia, secondo lei erano pronti ad affrontare in modo critico, temi nuovi e a volte complessi, come la separazione dei genitori, la morte, la guerra, tematiche che svilupperà e amplierà quando, anni dopo, dirigerà “Gli Istrici” della Salani.

Fu così che partì per la Svezia e si recò a Vimmerby, città natale di Astrid Lindgren. Aveva sentito parlare di un suo libro su una bambina fortissima e autosufficiente, che viveva da sola in una villa sgangherata, un romanzo che sembrava perfetto per la sua nuova impresa editoriale. Girò a lungo, ma della scrittrice non trovò traccia, fino a quando, esausta, chiese aiuto a una contadina dalle gote rosse, che stava spaccando un cumulo di legna.

“Astrid Lindgren sono io.” Le disse. “Sono forte, ma so anche scrivere.” Dopo una lunga chiacchierata e un the con i biscotti, la scrittrice la congedò con queste parole: “Ho capito che tu sei una Pippi, porta la mia Pippi in Italia con te.”

In quella occasione mia madre conobbe anche Tove Jansson, l’autrice finlandese della saga dei Moomin (sempre pubblicati nel Martin Pescatore), che girava tutti gli specchi di casa per impedire ai troll pelosi di venirsi a specchiare.

Un racconto, tra i tanti dello stesso tenore, che in famiglia trovavamo assolutamente plausibile.

Forse, tra le molte cose che mi sono mancate in questi lunghi anni di malattia, quella che rimpiango di più è proprio la capacità che mia madre aveva di rendere anche gli avvenimenti più insignificanti, una storia degna di essere raccontata. La vita di tutti i giorni con lei assumeva un aspetto fantastico e divertente, era una inesauribile fonte di meraviglia e di ispirazione.

Il suo vissuto diventava materiale letterario, ma trasfigurato dal suo modo di interpretare la realtà, visionario e ironico, sempre alla ricerca della parte buffa e surreale delle cose.

«Non ho mai avuto memoria, così qualsiasi elemento finisce per diventare un racconto fantastico», spiegò durante un’intervista, ma io sono convinta che il problema non fosse solo quello, piuttosto che si trattasse di una vera e propria chiave di lettura del mondo.

Essendo il nostro un rapporto madre/figlia e non professionale, il valore di mia madre nell’ambito della letteratura per ragazzi, non mi è stato subito chiaro.

Per me era normale viaggiare in cuccetta con Gianni Rodari, costringendolo a comporre poesie per tutta la notte; festeggiare gli ottant'anni di Astrid Lindgren a casa nostra, e sentirla cantare canzoni svedesi, dopo aver bevuto del vino rosso; pranzare con la moglie di Roald Dahl; raccontare barzellette con Bianca Pitzorno; o andare a trovare Michael Ende e il suo esercito di tartarughe vere e finte, nella sua villa di Genzano.

Una maggiore consapevolezza dell’importanza che mia madre ha avuto nell’evoluzione dell’editoria per l’infanzia, l’ho raggiunta solo da adulta, nel periodo in cui lavorava per la Salani. Con il tempo ho capito che si è trattata di una figura chiave, che ha creato un vero e proprio spartiacque tra la letteratura per l’infanzia del dopoguerra, che si basava per lo più su testi educativi e moraleggianti, e quella venuta dopo, quando l’attenzione ai bambini e ai loro sentimenti sarebbe diventata prioritaria.

Eppure, nonostante un’apparente spavalderia, è sempre stata una donna piena di insicurezze, che non ha mai pensato di essere all’altezza dei grandi.

Anche i suoi libri, sintetici ed essenziali, erano avanti con i tempi per temi e stile, lo stesso approccio che mia madre ha applicato nel suo lavoro di editor.

In uno dei suoi romanzi sono finita anche io: Tea Patata. Quella bambina timorosa, lenta in un mondo vorticoso, insicura e un po’ conformista di fronte ai grandi cambiamenti come erano quelli del '68, è ispirata a me, e tutti i personaggi che le ruotano attorno, alla nostra famiglia: mio padre, i miei fratelli, le mie sorelle, mia nonna. In quel libro ci sono le nostre idee, i nostri caratteri, i nostri dialoghi, registrati e riportati fedelmente sulla carta.

Nel 1987, dopo un lungo periodo alla Rai, presso la Tv dei ragazzi, mia madre iniziò a collaborare con la Salani e nacquero Gli Istrici, seguiti dai “I Criceti” e da “Le Linci”. In quelle collane recuperò molti dei titoli che aveva amato, e portò in Italia autori come Roald Dahl, Christine Nöstlinger, e tanti altri.

Così come la nostra vita talvolta diventava racconto, poteva accadere che il suo lavoro si trasformasse in una questione di famiglia. Ricordo che quando stava traducendo Il GGG di Roald Dahl, eravamo tutti seduti nel suo studio alla ricerca di un nome per un gigante o di un gioco di parole.

La sua malattia mi ha privata di molto, non so che cosa darei per poter fare ancora due chiacchiere con mia madre come una volta, ma mi ritengo comunque fortunata, grata per quello che mi ha trasmesso.

C’è una frase, con la quale aveva commentato il fallimento della Vallecchi, che mi è rimasta impressa: “Dopo varie vicissitudini, l’editore ha ora praticamente smembrato la collana. Le mie scelte sono andate disperse in collezioni i cui curatori se le ritrovano belle e pronte sul loro scrittoio. Non hanno mai visto un troll, frequentato un prestigiatore, camminato sul mare ghiacciato. Non hanno conosciuto Astrid Lindgren quando era così forte da sollevare un cavallo, come Pippi. Probabilmente allora per me, più che una direzione di collana, si era trattato di una fiaba.”

Forse in quel periodo vissuto insieme, anche per me si è trattato di una fiaba.