L'infanzia di Maria

Per lanostra edizione de I cigni selvatici,di Hans Christian Andersen, con illustrazioni di JoannaConcejo, abbiamo potuto contare su una traduttriced'eccezione: Maria Giacobbe.
Abbiamo conosciuto i libridi questa scrittrice, un'estate, durante una vacanza in Sardegna,sua terra d'origine. In una libreria ci imbattemmo in Il diario di una maestrina (Il Maestrale, 2003)in cui la Giacobbe ripercorre le tappe della sua storia personale, dibambina e adolescente, in una famiglia colta, borghese e antifascista,durante il ventennio, quindi la scelta di diventare maestra ele prime esperienze di insegnamento in una Sardegna poverissima,legata a una cultura arcaica e in una situazione di grave emergenzaeconomico-sociale. Un libro bellissimo che, nel 1957, quando uscì,ebbe molta risonanza e vinse numerosi premi. Un libro che ha moltoancora da dire, anche in relazione al rapporto fra ragazzi e insegnanti,scuola e società, didattica e cultura d'appartenenza.
Il tema dellapropria infanzia Maria Giacobbe lo approfondisce anche inuna altro libro, Maschere e angeli nudi. Ritratto diun'infanzia  (Il Maestrale, 1999), davverostraordinario per la capacità di penetrare la dimensioneinfantile, restituendone la complessità, la difficoltà,lo spessore, la ricchezza immaginativa e intellettuale, ilsuo porsi come condizione “aliena”, fuori da qualsiasischema, convenzione, cliché (sarebbe stato un bellissimo Anniin tasca...).
Le pagine che varrebbela pena di estrapolare, per dare un saggio della qualità del libro,scritto in una lingua scarna, severa e insieme immaginifica, sononumerosissime. La scelta è ardua.
Ci siamo decisi perquelle che danno l'avvio al capitolo “Malaria”. Ringraziamo MariaGiacobbe e le edizioni Il Maestrale per averci data la possibilità dipubblicarle.
Da molti anni Maria Giacobbe vive in Danimarca,paese di cui conosce perfettamente la lingua. Quando ci si è postoil problema della traduzione de I cigni selvatici,ci siamo detti che nessuno avrebbe assolto meglio di lei il compitodi restituire ai bambini la meraviglia di questa fiaba. Maria haaccolto la nostra proposta con interesse, disponibilità, curiosità,prestandosi generosamente alla prova. Per giudicare il risultato,però, dovrete aspettare il 15 febbraio 2011.

    Come la scuola, la morte,le campane, il fascismo, anche la febbre, la malaria, il chininofacevano dunque parte della vita. Della vita quotidiana. Normale.
    Come il vento che gridava dietrole imposte con la voce dei morti che premevano per tornare negli spaziche erano stati loro e che noi, i vivi, indebitamente gli contendevamo,occupandoli.
    Come la notte senzaluce, senza sonno e con tanti ululati di cani fantasmi che s'incrociavanonel buio.
    Come l'inverno, lapioggia, le blatte, il freddo, la polizia, l'esattore delle imposte,il collettore del comune, certi adulti che non mi piacevano o che mifacevano paura, certe bambine che ero obbligata a frequentare e miannoiavano, certi angeli spioni che forse c'erano forse non c'erano mache in ogni caso disturbavano, come le macchie repulsive di salsa e vinosulla tovaglia, le file di escrementi e di immondizie in certi vicoli cheero costretta a percorrere, e tante altre cose ripugnanti o fastidioseche per qualche infernale motivo esistevano ed ero costretta ad accettarecome inevitabili.

   Sinché c'erano. E ogni volta che si ripresentavano. La febbre. Lamalaria. Il chinino. Erano spiacevoli. E anche molto. Moltospiacevoli. Ma non bisognava esagerare. Non bisognava mai esagerare. Sepossibile. Quando era possibile. Questo l'avevo imparato. Non bisognavamai esagerare.

Gustave Doré, "La Divina Commedia", Inferno, CantoV

   La febbre, quando finalmente arrivava, era quasi gradevole eliberatoria. Affondavo in essa come in un nido caldo, dopo latempesta di freddo furioso che l'aveva preceduta.

    Ai primibrividi lunghi che partivano dalla nuca e scendevano per la spinadorsale, invadendo petto e visceri, ne seguivano altri sempre piùfrequenti e caotici che partivano contemporaneamente da ogni zonae fibra del corpo scuotendolo e gettandolo in ogni direzione allostesso tempo, minandone ogni connessione e cardine.


    Il corpo eraun'accozzaglia disordinata di ossicini che tendevano a disgregarsisotto spinte e attrazioni contrastanti, in preda a forze centrifughe ecentripete che si combattevano nell'intento di smembrarlo e disperderlo aiquattro venti.
    Un intersecarsidisordinato e rapidissimo di correnti gelide vi si combattevano,contendendoselo, tirandolo, abbandonandolo, gettandolo da altezzevertiginose in abissi bianchi e profondissimi dai quali altre correntiirresistibili lo facevano emergere, separandolo dal cuore.
    Che restava duro, nero, solitario,in un luogo lontano, isolato, dove il suo battito era come una pesantecampana il cui tocco arrivava grigio e sordo attraverso la bufera.
    Insieme al dolore fisico, alla nausea,ai conati di vomito, ma ancora più terribile, c'era la certezza panicache ciò non avrebbe mai avuto termine. Che quella lotta cosmica fra glielementi che si scontravano nel mio corpo sarebbe durata per sempre. Nonc'era più in tutto l'universo un solo punto fermo nel quale almeno perun momento il corpo potesse trovare rifugio e riposo.


William Blake, "La Divina Commedia", Inferno, CantoV

   Un giorno, in una edizione della Divina Commedia illustrata dal Doré,che arrivava in fascicoli in casa di nonna, avevo visto un disegnoche rappresentava un vortice di corpi umani distorti e torturati daun vento che li trascinava come foglie aspirate e sbattute da ungigantesco mulinello. Compitai il verso che, tra due virgolette econ tre puntini da ogni parte, ne faceva da didascalia: “la buferainfernal che mai non resta”, e subito ebbi la certezza che era lì,nella “bufera infernal che mai non resta” che mi trovavo durantii miei accessi di malaria.