Decolonizzare la letteratura per l'infanzia

Oggi condividiamo questo post che ci ha proposto Federica Buglioni appena dopo la Bologna Children's Book Fair. Era entusiasta di alcuni incontri avuti allo stand collettivo dell'Africa (dove ci ha spediti a guardare alcuni libri effettivamente bellissimi). E, dopo aver parlato con alcuni operatori del settore editoriali di diverse realtà africane, ha deciso di approfondire il tema della decolonizzazione della letteratura per l'infanzia. Sappiamo che Federica ha appena vinto il Premio Andersen come Protagonista della cultura per l'infanzia 2022. Nella motivazione si legge, fra le altre cose: "Per il suo approccio interdisciplinare..." Questa cosa se dovessimo tradurla con parole nostre sarebbe: a Federica interessa praticamente tutto. È la curiosità fatta persona. E questo si esplica in una irrefrenabile voglia di andare a a raspare dovunque si trovi qualcosa di interessante e poi nell'ingegnarsi di trovare il modo di poterne parlare... Insomma: viva Federica!

“In Africa ci sono due tipi di libri per bambini: quelli belli, scritti in inglese o in francese, rilegati e impaginati bene e stampati su buona carta, e quelli bruttini, con testi nelle lingue locali. I bambini ne deducono che l’inglese e il francese sono vere lingue, mentre il fulani, il malgascio, il wolof e altri idiomi parlati da decine di milioni di persone sono dialetti.”

Ad accogliermi con questa riflessione è Mary-des-Ailes, artista, educatrice e anima della collana malgascia Dodo Bonimenteur, pubblicata da Dodo Vole Editions ed esposta nel grande stand dell’Africa alla Children’s Book Fair di Bologna del 2022. Mentre sfoglio Le vieillard, l’enfant et l’âne (Il vecchio, il bambino e l’asino), mi spiega come funziona nel concreto il suo lavoro con i bambini in Senegal e in Madagascar.

La collana Dodo Bonimenteur recupera racconti tradizionali per restituirli all’infanzia perché spesso, come racconta Mary-des-Ailes, sono più noti agli studiosi che ai bambini.   

“Comincio cercando le storie tradizionali del territorio dove sono chiamata a lavorare. Le racconto ai bambini affinché le ascoltino e se ne approprino. Parallelamente, organizzo laboratori per avvicinarli ad antiche tecniche artistiche. Al termine del percorso i bambini scelgono la loro storia preferita e realizzano le illustrazioni per il libro. Queste vengono poi impaginate dall’editore con testi in due lingue, così da mettere sullo stesso piano la lingua insegnata a scuola e quella locale. Per Le vieillard, l’enfant et l’âne ci siamo ispirati all’arte tessile di Abomey (in Benin). Il testo è in francese e serer, la lingua parlata in Senegal e Gambia.”

Le illustrazioni di Le vieillard, l’enfant et l’âne, realizzate dai bambini che appaiono nel libro, prendono spunto dall’arte tessile ispirata ai  bassorilievi del Palazzo Reale di Abomey, alcuni dei quali recentemente restituiti al Benin da parte dei musei francesi.

Compro il libro. Il giorno dopo scoprirò che quella storia, tanto diffusa in Africa, circola anche in Italia. L’albo è effettivamente fatto ad arte. Nelle ultime pagine trovo anche una foto dei bambini-illustratori e un’approfondita descrizione del progetto. Domando a Mary-des-Ailes attraverso quali canali un libro come questo riesca a raggiungere i giovani lettori.

“La maggior parte dei bambini che incontro in Africa possiede al massimo un libro. Lo scarso potere d’acquisto della popolazione, il disinteresse delle amministrazioni per le politiche culturali e l’elevato analfabetismo rappresentano grandi ostacoli per la diffusione dei libri per l’infanzia. I giovani lettori accedono ai libri soprattutto attraverso le biblioteche pubbliche e scolastiche, dove però la gran parte dei volumi è in francese o inglese perché arriva dai paesi occidentali attraverso ONG come Book Aid International. Queste donazioni sono una risorsa, naturalmente, ma sono anche il pretesto che la politica locale accampa per non riconoscere alle biblioteche il diritto di scegliere e acquistare libri in autonomia. Ne consegue che le pubblicazioni africane faticano a entrare in biblioteca.”

Il problema riguarda la lingua e ancora di più i contenuti. Nel 2009 Chimamanda Ngozi Adichie affrontò questo argomento durante il suo celebre TED Talk dal titolo Il pericolo di una storia unica, discorso poi pubblicato in Italia da Einaudi (il blog se ne occupò qui), raccontando come da piccola andasse matta per i bei libri inglesi pieni di avventure di bambini che giocavano nella neve. Quando, verso i sette anni, cominciò lei stessa a scrivere storie, i suoi personaggi si comportavano esattamente come quelli dei suoi libri: mangiavano mele giocando nella neve e si sorprendevano per una giornata di sole, benché lei la neve non l’avesse mai vista, a merenda mangiasse il mango e il sole, in Nigeria, non fosse certo un’apparizione insolita.

Letture alla scuola di Kandutura, in Kenya, oggetto anche di donazioni italiane. @Book Aid International

Book Aid International propone anche corsi di lettura ad alta voce per le bibliotecarie.

Lo scaffale dei libri locali alla biblioteca provinciale di Mongu, Zambia. @Book Aid International

I viaggi di Gulliver, letti accanto al fuoco in versione abbreviata @Book Aid International

L’ombra del colonialismo sulla moderna editoria per l’infanzia non danneggia solo le ex colonie ma priva la “storia unica” occidentale – ovvero la nostra visione della vita, del tempo, della storia e della natura – della possibilità di essere relativizzata attraverso scambi e confronti con visioni alternative. Di fronte al dramma dell’emergenza climatica, per esempio, occorre chiedersi quanto sarebbe più ricco l’immaginario offerto dai libri per bambini in materia di relazione uomo-natura se le popolazioni indigene americane e australiane, che qualcuno considera arretrate, trovassero spazio nelle nostre librerie, naturalmente senza la mediazione di narratori bianchi.

Scrive a questo proposito Carla Benedetti: «L’emergenza ecologica non cambia solo il futuro, cambia anche il passato. Le culture lontane non ci appaiono più chiuse nel loro contesto storico, ritenuto privo di contatto col presente, come ci ha abituati a guardarle lo storicismo, dominante nei saperi umanistici moderni. Nella resa dei conti finale a cui siamo chiamati, tutte le culture dell’uomo ci appaiono ora contemporanee. Sono il grande serbatoio vivente, che mantiene vive e parlanti tutte le potenzialità della specie umana, comprese quelle ritenute “superate” dai moderni.» 
[Carla Benedetti, La letteratura ci salverà dall’estinzione, Einaudi 2021]

Quel “grande serbatoio vivente” delle culture umane è anche in fiera ma, raggiunto lo stand degli editori canadesi, mi accorgo quanto sia facile non vederlo se non si esce dal proprio recinto mentale, dalla storia unica.

 

 

Guardando queste copertine, un occidentale potrebbe pensare a libri dedicati alle madri nel mondo naturale e immaginare pagine di mammine accudenti e padri forti e protettivi. Ma si sbaglierebbe. L’autore di Mothers of Xsan appartiene alla nazione indigena di Gitxsan (in British Columbia), una società matrilineare suddivisa in clan che prendono il nome da specie con le quali la vita è interconnessa, come l’aquila e il lupo. La collana descrive il ruolo ecologico e culturale di queste creature senza che emerga alcun conflitto tra natura e cultura umana o tra scienza e spiritualità, cosa che nessun libro occidentale potrebbe fare (piccola divagazione: su Youtube si può ascoltare l’autore che pronuncia i nomi degli animali in lingua Gitxsan; sentire per la prima volta il suono di una lingua sconosciuta è emozionante!).

L’ultima tappa della mia giornata in fiera è allo stand australiano, tra storie di animali, illustrazioni ispirate alla dot art e diversi libri sul rito tradizionale chiamato Welcome to Country, che vi invito ad approfondire perché riguarda proprio quel rapporto di interdipendenza e rispetto tra l’uomo e la terra e tra le diverse generazioni che merita di essere guardato con crescente interesse.

Termino così la passeggiata nel territorio della decolonizzazione della letteratura dell’infanzia alla fiera di Bologna con un po’ di consapevolezza in più e con molte domande. Mi chiedo, per esempio, come si faccia a riconosce un libro attento al tema della decolonizzazione, argomento diverso dal razzismo o dalla marginalizzazione sociale.

Sul sito canadese Strong Nations trovo una prima risposta coerente con il lavoro di Mary-des-Ailes. Qui la descrizione dei libri per bambini è affiancata da icone che simboleggiano tre aspetti imprescindibili: contenuto, testo e arte.

Nell’elenco dei libri premiati mi incuriosisce Fatty Legs, la storia vera di una bambina Inuit che decise di andare in una residential school (dove fortunatamente riuscì a sopravvivere), attratta dall’idea di imparare a leggere Alice nel paese delle meraviglie e qui scoprì una scuola fatta di divisioni: la conoscenza divisa in materie, i bambini separati per età, un’istruzione fatta soprattutto di parole anziché di esperienze; una scuola basata cioè sull’assunto tutto europeo che il tempo sia quel moto lineare che trasforma un essere umano irrazionale e fragile in uno sempre più preparato, autonomo, efficiente e socialmente integrato.

Ancora una volta sento il bisogno e il sollievo di uno sguardo “altro”.

Una delle più celebri immagini di propaganda colonialista canadese è oggi la più nota coppia di foto sulla decolonizzazione. Thomas Moore Keesick, fotografato a 8 anni in improbabili abiti tradizionali e armato di rivoltella e poi a 11 anni vestito all’europea, si ammalò di tubercolosi alla Regina Indian Industrial School e morì all’età di soli 12 anni.