[di Elena Dolcini]
Storia dell’arte è composto di centosessantasei pagine; potrebbe sembrare stranamente lungo per essere un libro per l’infanzia, ma a ben rifletterci non lo è, se la nostra idea di bambino è quella di una persona a cui mostrare e con cui condividere, nei tempi e modi adeguati, il mondo e il bello, e non quella di un individuo da imboccare con gli stereotipi e gli standard di una letteratura presunta tale.

Storia dell’arte si distingue per la sua sperimentazione, un’audace opera di genio, se si pensa che la prima edizione risale al 1999. Ogni foglio è costruito allo stesso modo: nella parte superiore il rettangolo imago-testuale limitato da un segno nero-cornice, nella parte inferiore lo spazio bianco, funzionale all’organicità di un libro che vive e respira anche grazie ai suoi spazi vuoti, come tutto il lavoro editoriale di Cox.



Con quest’opera, la grande narrazione, che per Lyotard era morta e sepolta con il postmoderno, ritorna ad appassionare lettori di ogni età, perché semplice e complessa allo stesso tempo, elaborata, brulicante di avvenimenti ma essenziale: la trama di Cox è visuale, un reticolato dove l’orizzontale e verticale formano il pattern costitutivo di tutta la sua arte, e testuale, una fiaba con personaggi sia tipici che bizzarri, come un re gelato-fago e uno di carta con a seguito un calorifero prêt-à-porter, figure classiche e attuali, che seppur nell’indefinitezza cronologica, abitano la modernità.
Giulio Carlo Argan nella sua arte moderna (Sansoni per la scuola, 1970) fa riferimento ad alcuni esponenti del movimento De Stijl:
«Nella poetica neo-plastica è estetico il puro atto costruttivo: combinare una verticale e una orizzontale oppure due colori elementari è già costruzione. È il principio in cui credono ugualmente un pittore come Mondrian, uno scultore come Vantongerloo, architetti come G. T. Rietveld, J. J. P. Oud, C. van Eesteren.»

Da sinista a destra: Composition A, 1923, Mondrian; Composition from the Ovoid, 1917, Vantongerloo.

Da sinista a destra: Red Blue Chair, 1918-1923, Rietveld; Café de Unie (Rotterdam), 1925, Oud; Contra-Construction Project (Axonometric), 1923, van Doesburg & van Eesteren.
La metafora tessile non è fuori luogo nel lavoro di Cox: Wallbook, la sua recente opera libro paretale (e mostra curata da Hamelin alla Fondazione del Monte di Bologna nel 2025) è una narrazione i cui elementi possono essere collegati liberamente da un osservatore, ma la cui struttura è un ordito preciso costruito dall’artista, lo sfondo che uniforma l’opera, anche editoriale. Similmente alle narrazioni epiche degli arazzi, alla Normandia vista da David Hockney, alle danze macabre che ritroviamo in alcune chiese medievali europee, anche l’opera di Cox è testo e contesto, oggetto e ambientazione, figura e sfondo, avventura e setting.


A Year in Normandy (musée de l’Orangerie), 2021, David Hockney.
Le figure dei quadri di Luco Pax, l’eroe di Storia dell’arte, come in un rompicapo che darebbe del filo da torcere perfino allo stesso Magritte, escono dalle tele e dalle cornici per condividere la vita degli altri personaggi, confondendosi, ma non senza limiti, nell’ambiente, in un gioco tra bidimensionalità e volumi.



Astraiamoci per un attimo da Storia dell’arte: anche I tre porcellini di David Wiesner vengono catapultati, con grande stupore del lupo, fuori dal loro habitat in altre storie (Orecchio Acerbo, 2020); in Museum di Saez-Castan e Marsol un pappagallo e una tigre fuoriescono dai quadri, mettendo sottosopra il contesto ormai non più ordinario della presunta realtà (Orecchio Acerbo, 2019); i personaggi dei quadri in Harry Potter non sono immagini “still”, ma in movimento (J.K. Rowling, Salani); Mary Poppins e Bert entrano in un disegno del Fiammiferaio, dove i loro abiti sono di un’eleganza mai vista prima (P.L. Travers, edizione Bur ragazzi, 2018).



La storia dell’arte qui non è intesa come una disciplina, una materia da insegnare cronologicamente, ma come strumento di problematizzazione del mondo, prima ancora che della sua comprensione: la storia dell’arte di Paul Cox accade tutta in un libro illustrato, nei suoi riferimenti più o meno espliciti alla pop art di Roy Lichtenstein, ai corpi in diagonale dei contadini di Van Gogh, agli objet-trouvé non solo duchampiani, al disegno-bambino e all’art brut, ai cut-out di Matisse, al surrealismo magrittiano, a una rappresentazione del gesto artistico alla De Chirico e, non ultima, all’arte concettuale.

Modern art Poster, 1967, Roy Lichtenstein.

Da sinistra a destra: Bicycle Wheel, 1913, Marcel Duchamp; Maquette for Christmas Eve (Nuit de Noël), 1952, Henri Matisse.

Una simile mutualità è sottointesa nell’epilogo di Storia dell’arte: due vignette ritraggono un gruppo di visitatori davanti a un quadro in un museo, mentre ascoltano le parole di una guida: se gli esseri umani osservano il quadro, il re ritratto nel dipinto li osserva a sua volta, mentre quando il gruppo si allontana, anche il re si gira e si incammina al di fuori dell’inquadratura. Cox ribalta l’opinione, forse la più diffusa, che vede i quadri come cose inermi, non viventi e, immaginandosi una nuova prossemica museale, apre a un pensiero divergente sugli oggetti artistici: ci guardano.
