Contro il politicamente corretto nella letteratura per ragazzi

Siamo molto contenti di pubblicare questo post, per gentile concessione di Ana Garralón apparso sul blog anatarambana literatura infantil. Gli episodi segnalati in questo scritto non riguardano solo la Spagna, ma anche, come ben sappiamo, l’Italia, la Francia, gli Stati Uniti eccetera. Perché le reticenze e le paure che interessano il campo educativo e l’istruzione sono fenomeni globali, conseguenze di una situazione sociale, politica e culturale che travalica i confini. Uno stato di cose allarmante nei confronti del quale cui ognuno può fare la sua parte con gli strumenti che la letteratura, il pensiero e la ragione offrono, ovunque siamo, qualunque professione svolgiamo, dovunque viviamo, perché i bambini e i ragazzi sono davvero il futuro, e con questa idea che vadano protetti perché “privi di capacità critica, prospettiva storica, analitica…” lo stiamo compromettendo.

[di Ana Garralón]

Recentemente abbiamo appreso (a bocca aperta) una notizia scioccante: Vietata la favola di Cappuccetto Rosso perché sessista. Nella biblioteca di una scuola catalana, l’associazione delle madri e dei padri (AMPA) ha ritirato 200 titoli (200! Il 30% del fondo della biblioteca) considerati tossici. La decisione è stata presa dopo che un gruppo di madri ha sottoposto i quasi 600 libri della biblioteca a una lettura con prospettiva di genere. Di fronte allo scandalo suscitato dalla notizia, si sono affrettati a specificare che Cappuccetto non compariva tra i libri ritirati sebbene, secondo i loro i criteri, non avrebbe superato il test. Nella dichiarazione di smentita si sono lasciati sfuggire che i bambini sono privi di capacità critica, prospettiva storica, analitica…

Censurare i libri destinati ai bambini è una pratica tanto antica quanto la storia del libro e della pedagogia. Tutti conosciamo storie di libri bruciati, sequestrati, adattati, inclusi in liste nere… E fin qui niente di strano, giacché i libri hanno continuato a circolare, sono stati letti e hanno messo a confronto pensieri diversi.

Le giustificazioni: motivi morali, sociali, ideologici e pedagogici. Spesso la censura è stata esercitata da istituzioni pubbliche in seno tanto a regimi totalitari, quanto democratici. Basti ricordare che il libro di Maurice Sendak In the night kitchen venne messo al bando perché vi appariva un bambino nudo. Erano gli anni sessanta del secolo scorso ed erano gli Stati Uniti. Il paese in cui, dal 1973, non era concesso di pubblicare nemmeno a Tomi Ungerer.

Più recente, ma sempre del secolo scorso, è la protesta di alcuni lettori contro il bestseller Dov’è Wally? in cui si mostrava una donna in topless!

È bastato un po’ di rumore per vestirla:

Negli ultimi anni (ricordiamo che siamo nel XXI secolo), abbiamo assistito perplessi a notizie come quella regalataci nel 2015 dal sindaco di Venezia, che ha vietato 49 libri che avrebbero trasmesso messaggi omosessuali. Tra questi, Piccolo blu e piccolo giallo di Leo Lionni dove, come tutti sanno, il blu abbraccia così forte il giallo che, dalla loro unione, nasce il colore verde. Solo l’intervento del cantante Elton John, che ha una casa a Venezia, è riuscito a far sì che la lista si riducesse a due titoli.

Di recente, il comune di Parigi ha dato ordine di ritirare due libri dalle biblioteche. Il Dictionnaire fou du corps di Katy Couprie (libro premiatissimo) e BETA di Jens Harder. Di quest’ultimo il comitato preposto alla censura ha dichiarato: «Contiene scene che potrebbero impressionare i bambini o i loro genitori per cui chiediamo che venga tenuto sotto chiave». Non so se sia più sorprendente il divieto in sé o l’esistenza di questo comitato di vigilanza sui libri.

Anche in Francia si accese una polemica nel 2014 quando un politico ultraconservatore denunciò la scelta di una scuola primaria del libro Tous au poil! (Tutti nudi), con l’accusa che istigasse alla degenerazione. Nel libro un gruppo di persone vanno in spiaggia e, incoraggiati dal primo che si sveste, tutti si spogliano e vanno a fare il bagno.

Il fatto più preoccupante ai miei occhi non è che un libro possa dare fastidio a qualcuno ma che, alla fine, gli editori abbiano deciso di cambiare copertina:

Tutto questo controllo finisce per ripercuotersi, come è logico, sugli operatori del libro: gli editori, gli scrittori e gli illustratori. La professionalizzazione del settore, la globalizzazione, l’internazionalizzazione e le molteplici possibilità di pubblicare un libro in vari paesi e, quindi, culture, fa sì che negli ultimi anni si faccia molta più attenzione a ciò che si pubblica.

Ho indagato presso numerosi scrittori e illustratori, i quali mi raccontano che, molte volte, si sentono dire dagli editori «questo, meglio di no» oppure viene chiesto loro di apportare modifiche di vario genere (come vestire un bambino, togliere un’immagine o, semplicemente, succede che gli elementi che non piacciono agli editori vengono rimossi senza preavviso, come accadde a una mia amica traduttrice dal cui testo l’editore eliminò, di punto in bianco, il riferimento all’aborto). Anche gli autori si muovono con cautela: evitano parole che in altri paesi iberoamericani potrebbero non essere capite oppure, davanti al dilemma di come ritrarre i bambini, per questioni logiche del tipo disegnare un bambino o una bambina, grasso o magro, biondo o castano, alto o basso ecc., scelgono direttamente di disegnare degli animali. O non ci siamo ancora accorti che i libri per bambini, anziché rappresentare l’infanzia, sono pieni di animali?

L’ambiguità, necessaria in letteratura, inizia a diluirsi: in molti casi ai testi manca quella stratificazione che consente molteplici interpretazioni, mancano temi politicamente impegnati, i diritti umani, la storia recente, il corpo umano, la sessualità. Ovviamente, l’umorismo è uno dei grandi assenti. Come sappiamo l’umorismo si basa sulla parodia, sul ridicolizzare, sul ridere degli altri. E nessuno vuole essere accusato di offendere gli altri.

Ma vorrei tornare agli anni Ottanta quando, in un’università degli Stati Uniti, compare il termine politicamente corretto. Viene da un movimento studentesco che sta cercando di cambiare la lingua per evitare che le persone possano sentirsi offese. Invece di negro si usa persona di colore o afroamericano, i vecchi diventano gli anziani, non si può più dire handicappato ma disabile e così via, una lunga lista che tenta di scoraggiare, attraverso la parola, gli atteggiamenti considerati spregiativi.  

Nel 1990, all’apice di questo movimento, il comico James Finn Garner pubblicò una raccolta dei suoi sketch dove applicava alle fiabe tradizionali la norma del politicamente corretto. Il libro si intitolava Fiabe della buonanotte politicamente corrette, molti di voi lo ricorderanno perché fu un grande successo. Cappuccetto Rosso inizia così:

C’era una volta una giovane persona chiamata Cappuccetto Rosso che viveva con la madre al margine di un bosco. Un giorno la madre le chiese di portare un cestino di frutta fresca e acqua minerale a casa della nonna – non già, si badi bene, perché fosse un lavoro da donnine, ma perché era un atto di generosità e contribuiva a promuovere un sentimento di comunità.

Ne è passata di acqua sotto i ponti da allora, eppure oggi questa fiaba potrebbe tranquillamente essere pubblicata e illustrata senza che la si consideri ironica. Il politicamente corretto è arrivato per restare. La letteratura, e i libri per bambini, si iniziano a leggere con questa lente ad ampio spettro. Biancaneve è considerata immorale perché vive con sette nani e, naturalmente, odiamo tutte le principesse – a parte quelle che fanno le puzzette – perché perpetuano dei modelli maschilisti. Chiunque può dire la sua opinione e decidere che un libro non gli piace perché offende una minoranza, sia quella delle madri single, sia quella dei vegani (che dicono che A caccia dell’Orso non è un libro adatto ai bambini), o quella delle femministe che censurano direttamente un libro se una donna appare in cucina o si insinua che è una sposa

Ciò che accade nella società si riflette nei libri per bambini. Penso alla notizia dei 650 panettieri che da tutta la Spagna hanno chiesto alla RAE [Real Academia Española, NdT] di eliminare il proverbio «pan con pan, comida de tontos» (pane con pane, cibo da stupidi) per valorizzare la loro professione. Durante la loro campagna hanno raccolto 4.000 firme, che sono andati a consegnare di persona. Oggi tutto può essere oggetto di offesa. Le notizie si susseguono sulla stampa ogni giorno. Una donna chiede di ritirare un’opera di Balthus dal Metropolitan Museum perché «inquietante». In questo caso il museo si è rifiutato, ma nel Regno Unito la Manchester Art Gallery ha ritirato un’opera del preraffaellita William Waterhouse, Ila e le Ninfe, per aprire un dialogo sul ruolo della donna nell’arte. Addirittura si può arrivare ad ascoltare l’opinione di chi non ama Matisse perché «quando colora esce dalle linee».

Siamo sempre di più e ogni giorno aumentano le minoranze. Non importa che tu sia amante dei gatti, avvocato, panettiere o cinese di seconda generazione: hai diritto a sentirti offeso e a denunciarlo. Alla drammaturga statunitense Eve Ensler, conosciuta per la sua opera I monologhi della vagina, messa in scena migliaia di volte, fu sospesa una rappresentazione in una scuola femminile perché era offensiva nei confronti delle «donne senza vagina».

Come si creano i libri per bambini in uno scenario simile? Come scrivere senza paura di questo controllo selvaggio e imprevedibile? Cosa fare contro la polizia del pensiero? Come non pensare che i creatori si autocensurino anche in modo inconsapevole? In un mondo che legge tutto in modo letterale, dove stanno la trasgressione, l’ambiguità, il simbolico? Perché è questo uno degli argomenti più delicati secondo me: leggere la letteratura come se fosse una pagina di vita. Parlare di questo tema con amici illustratori scatena una gran quantità di aneddoti. «A me hanno fatto togliere il bicchiere di vino che beveva il papà mentre cucinava»; «Io ho dovuto togliere la frase voglio dormire nel tuo letto che una bambina diceva al padre»; «A me hanno fatto vestire un bambino che era in mutande».

Mentre stavo scrivendo queste righe, un’amica mi ha mandato dalla Germania la traduzione tedesca di un libro polacco. Il libro di una delle coppie più di successo in questo momento, Aleksandra e Daniel Mizelinska, autori di Mappe e di molti altri libri.

Nell’edizione tedesca alla sirena è stato aggiunto il pezzo sopra…

… ed è stato completamente cambiato il profilo di una donna.

Se due autori che potevano tranquillamente rifiutarsi hanno deciso di accettare queste modifiche, cosa può succedere ad autori emergenti o a quelli che, vivendo dei libri che pubblicano, non hanno il potere di rifiutarsi? L’industria e il mercato rendono i creatori inoffensivi. Ungerer e Roald Dahl, per esempio, oggi sarebbero impubblicabili.

Il politicamente corretto si presenta come una forma di sottomissione e lo si vede chiaramente nei libri per bambini: si pubblica tantissimo (l’anno scorso sono state presentate 7.000 domande di ISBN da destinare a libri per bambini). Possiamo dire che, tra questi, ci sono libri scomodi? Sinceramente, molto pochi. E quando ciò accade significa che non si stanno prendendo rischi. Significa che i libri subiscono un editing molto forte (si legga: sono censurati, fatti passare attraverso il filtro del politicamente corretto). Per me è un passo indietro.

Se negli anni '70 si cercava di rompere i tabù ed eliminare la censura, oggi si lavora per creare una nuova forma di censura. Di fronte a questo scenario, non deve sorprendere che nessuno voglia correre dei rischi. In ogni fase della creazione, un piccolo inquisitore individua ciò che non si può dire. Responsabili sono giudici con poco talento e pieni di buone intenzioni, come le mamme della scuola catalana che, ormai, accetteranno solo titoli come Il grembiule di papà e altri le cui intenzioni sono chiarissime fin dalla prima occhiata. In Germania, un classico come La piccola strega di Otfried Preussler, che vende 50.000 copie l’anno, è attualmente oggetto di un’operazione di pulizia mentale che vorrebbe rimuovere dal testo due bambini vestiti a carnevale, uno da eschimese e l’altro da nero. La casa editrice è in trattativa serrata con gli eredi, i quali si giustificano dicendo che l’autore non era razzista. Ma che importa, se c’è qualcuno che pensa di sì.

Non conta di dove sei o cosa hai scritto, se hai usato la parola negro tutta la tua opera verrà messa in discussione. I valori estetici sono passati in secondo piano, o meglio, non vengono più presi in considerazione. In ogni gruppo, inoltre, c’è una legione di scrittori pronti a manipolare le fiabe libere da diritto d’autore, per riscriverle su commissione. Il risultato sono dei pamphlet pedagogici con un’ideologia sottostante, il cui obiettivo sembra essere di allontanarci dall’arte e dalla letteratura, risparmiarci a tutti i costi l’esperienza estetica.

Il caso più recente è una versione de Il piccolo principe, intitolata La principesa. Gli autori dicono che oltre a essere una traduzione di genere, la protagonista femminile viaggia verso pianeti in cui qualsiasi lavoro è svolto indistintamente da uomini e donne, gli animali sono trattati più gentilmente che nell’opera originale e la rosa si è trasformata in un garofano. L’idea è che quelle persone che appartengono a gruppi tradizionalmente discriminati possano vedere riflessa nel libro la loro realtà e, di conseguenza, costruire una visione del mondo più ampia e inclusiva di quella a cui la società ci ha abituato. Questo libro sì che supererebbe la prova del lettore sensibile, una nuova figura dell’editoria incaricata di scovare le potenziali offese a minoranze, e anche delle madri benpensanti. Ma vogliamo davvero che la letteratura diventi questo? Perché non è che l’inizio…

Chi ci rimette, a mio modo di vedere, sono la letteratura e, ovviamente, i lettori. Una parola, la prima, che io associo a arte, provocazione, discorso estetico, rottura delle tradizioni, rottura delle regole, immaginazione, e che sta perdendo tutta la sua connotazione estetica. La scrittura, la creazione sono trasgressive per natura, hanno il germe dell’esplorazione e dell’avventura. Una letteratura sociale è la morte dell’invenzione. Alla letteratura non interessa questo mondo felice di mariti che si occupano delle faccende domestiche. Non è quella la sua preoccupazione. E mi piacerebbe concludere dandole la parola. Se potessimo portarla qui, lei direbbe: «Non sono qui per rispettare.»

[Traduzione di Lisa Topi]