Giocare con Baj

[di Massimo Schuster]

Massimo Schuster in Mahbahrata: la battaglia.

Quando, un giorno della primavera del 1982, andai per la prima volta a casa di Enrico Baj per chiedergli di disegnarmi la locandina per l'Ubu re di cui stavo facendo la regia al Théâtre du Merlan di Marsiglia, mai avrei immaginato che quello sarebbe stato l'inizio di una collaborazione e di un'amicizia durate fino alla sua morte, il 16 giugno del 2003.

Quel primo giorno, Baj mi fece sedere su una poltrona della sala della sua villa di Vergiate, in provincia di Varese, e per un'ora abbondante, in compagnia della moglie, Roberta Cerini, mi chiese di raccontargli di me. Alla fine mi disse: «Io il manifesto te lo faccio anche, ma avrei preferito farti almeno gli scenari». Gulp. Non sapevo cosa dire. Sono solo riuscito a biascicare: «Purtroppo, per gli scenari non ci sono più soldi». E lui: «Lo immagino. È per questo che te li faccio gratis. Dai, vieni con me». Doppio gulp. L'ho seguito in cantina e lui ha incominciato a tirar fuori una serie di teli di cotone sui quali aveva dipinto con pittura nera, usando la tecnica del dripping, cara a Pollock. Ne prendeva una, la dispiegava e mi chiedeva «Questa ti va?» Se mi andava, me la dava. Dopo un po' mi ha chiesto se tutto quel po' po' di bendidio mi bastava e, quando gli ho risposto che magari mi avrebbe fatto comodo avere anche un fondale per la scena della caverna e una nave per l'ultima scena, ha semplicemente tirato fuori un grosso rotolo di tessuto, ha preso pennelli e pittura nera, ha steso il tessuto sul prato e ci ha dipinto sopra le cose che gli avevo chiesto.

Enrico era così, sempre pronto ad aiutare un giovane che gli dava l'impressione di avere un minimo di potenziale, sempre disponibile, generoso e giocoso. Negli anni abbiamo finito per fare cinque spettacoli insieme: Ubu re, Iliade, Roncisvalle!, Le bleu blanc rouge et le noir (opera di Lorenzo Ferrero, su libretto di Anthony Burgess, coprodotta dalla Scala), e Mahabharata.

Ubu Re: Ubu nella caverna.

Iliade: Achille, Crise e Agamennone.

Roncisvalle: Oliviero, Astolfo, Rinaldo, Bradamante, Gilberto.

Le bleu-blanc-rouge et le noir: personaggi e ghigliottina.

In un articolo pubblicato sul libro Roncisvalle! (Ed. Titivillus) nel 2001 – articolo intitolato Colui che mi fa giocare – Baj scriveva (sbagliandosi un pochino sulle date, ma non importa):

Sul finire di quell'anno apparve il Schuster, alle cui rocambolesche avventure di spettacolo della società (Debord docet) sono ormai legato da quasi vent'anni, sollecitatovi anche dalla mia compagna Roberta. Sicché, anche se preso da digressioni e sviamenti vari dell'arte del dipingere e dello scrivere, e, lì per lì, privo di particolari pulsioni marionettistiche, vi è pur sempre colei che ha cura dell'archivio e delle misurazioni che mi rimette in riga, richiamandomi a un nuovo spettacolo da inventare.

Passano gli anni e cambiano gli uomini, mutano le politiche e aumenta la marea di decreti, leggi e regolamenti e soprattutto aumentano per ogni dove i cartelli di divieti; ormai è quasi tutto vietato, tranne che inquinare. Si vieta il fumo delle sigarette per aumentare quello delle automobili e il nostro Impero del Sole Cadente arriva al punto di opporsi a qualsiasi trattato limitativo. Intanto Massimo Schuster è sempre lì, sulla linea dell'orizzonte. Cominciò appunto alla fine del 1983 quando venne a trovarmi a Vergiate e mi propose un Ubu, personaggio per il quale è ben nota (anche a me) la mia propensione. Potevo mai dire di no? […] Feci quei teli di colature di vernice nera, ma dicevo a Massimo: «Lascia stare i tuoi pupi siciliani; per l'Ubu, essendo anch'io dottore in Patafisica, bisogna che li faccia io i personaggi, ovvero le marionette». Quanto mai! Quella mia istigazione mi legò definitivamente all'ex-puparo Schuster. E subito nel 1984 si progettò e si realizzò un Ubu fatto di pezzi di Meccano, l'antico e gioioso gioco, e comprendente una sessantina di marionette e alcuni elementi scenici. Il Massimo con quegli oggetti macchinacei si inventò un Ubu che era la fine del mondo e che del mondo fece il girotondo, presentato un po' dappertutto.

Non poteva finire e lì, e di fatto si continua ancora oggi, di spettacolo in spettacolo.

Ubu Re (1984): Stanislas Leczynski e il palotino Pile.

È bene che mi sia stato imposto per questo mio articolo destinato al blog di Topipittori un numero limitato di battute, perché se mi mettessi a scrivere di tutti gli aneddoti dei quali un giorno o l'altro magari mi deciderò a scrivere per davvero, rischierei, magari non di vincere il campionato del mondo del post più lungo, ma di sicuro di arrivare alla finale. Enrico era un vulcano di idee e lavorare con lui era uno spasso. Ho passato ore o ore nel suo studio, assemblando, bullonando, inchiodando e incollando, sotto la sua supervisione, pezzi di Meccano, fiocchi di tende, quadranti di orologi (ottimi come occhi), pezzi di legno, attrezzi vari comprati dal ferramenta sulla strada per la Malpensa, scopetti che fungevano da naso e barba, rondelle di legno colorato, piedini di poltrone, maschere da subacqueo, taglierini per la pizza, bottoni, cerniere e quant'altro. Ma ciò che mi resta soprattuto del Baj è il ricordo delle lunghe chiacchierate nel suo studio e dei pranzi e delle cene con persone che senza di lui non avrei mai incontrato, come Edoardo Sanguineti, Arturo Schwartz, Ugo Nespolo, Guido Almansi, Tadeusz Kantor, Roberto Sanesi e molti altri. E, lo confesso volentieri, mi resta anche la fierezza di avere portato al teatro di figura, per il quale già avevano fabbricato burattini e pupazzi Pierre Bonnard, Paul Klee, Oskar Schlemmer, Fortunato Depero, Joan Miró e William Kentridge – per citare i più grandi – un artista del suo calibro.

E va bene, qualche aneddoto, così come viene.

Verso la fine dell'‘89 Enrico stava lavorando a una mostra che si sarebbe svolta l'anno dopo alla Villa Mirabello di Varese, con il titolo, volutamente in tedesco, Die Mytologie des Kitches. Quel giorno stava dipingendo un grosso quadro, che sarebbe poi stato intitolato Darma, tigre fedele, protegge Marianna, detta la Perla di Labuan. Stavamo chiacchierando, quando mi ha detto: «Dai, vai di là a prendermi qualcosa per gli occhi della tigre». Di là voleva dire nella stanza attigua allo studio, dove c'era tutta una serie di cassetti pieni di bottoni, perline, immaginette, medaglie, pins e altri oggetti di piccole dimensioni che poi lui incollava sui quadri con l'amato Vinavil. «Ma cosa vuoi, dei bottoni, o cosa?» «Ma non lo so, vedi tu, dai». Non ricordo cosa gli portai e non importa. Ma l'aneddoto mi sembra significativo di quel suo modo sempre gioioso e ludico di lavorare, modo che non ha mai abbandonato nemmeno dipingendo le sue opere più apparentemente serie, come la serie dei Generali, o lo splendido I funerali dell'anarchico Pinelli, che a mio modesto avviso resterà come una delle opere principali della pittura italiana della seconda metà del '900.

Iliade: il funerale di Ettore.

Le bleu blanc rouge et le noir: le parrocchiane e Paul Deslandres.

Quando facemmo l'Ubu in Meccano, passando giorni e giorni a bullonare listelli e placchette colorate di rosso, verde, giallo e blu, mi resi conto, dopo una quindicina di rappresentazioni, che la scena della battaglia non mi soddisfaceva. Andai allora da un ferramenta marsigliese, visto che era a Marsiglia che abitavo, e mi comprai una scatola degli attrezzi in metallo blu, di quelle che si aprono a soffietto. A partire da quella base, alla quale per prima cosa aggiunsi quattro grosse ruote, fabbricai, con i pezzi di Meccano che erano rimasti, un grosso cannone che poi in scena sparava riempiendo l'aria di un denso fumo il cui odore arrivava fino agli spettatori delle prime file. Decisi di non dirlo a Baj e di aspettare che quella mia fabbricazione, che avevo cercato di realizzare come l'avrebbe fatta lui, la scoprisse in scena. L'occasione arrivò poco dopo, quando fui invitato a fare lo spettacolo alla vernice della sua grossa mostra al Forte di Bard, in Val d'Aosta. In realtà me la facevo un po' sotto: cos'avrebbe detto il Baj di quella mia idea? Appena finito lo spettacolo lo vidi arrivare, molto eccitato. Mi chiese di fotografare il cannone sotto ogni angolo e di mandargli le foto. Qualche mese dopo mi invitò a Parigi, dove avrebbe esposto varie sue cose alla FIAC, la fiera internazionale di arte contemporanea che si svolge annualmente al Grand Palais. Mi disse solo che il suo gallerista, Giò Marconi, gli aveva preparato uno spazio bellissimo. Salimmo insieme la grande gradinata, aprimmo le porte e, appena dentro, vidi una serie di colonnine bianche, su ognuna delle quali c'era un personaggio in Meccano che era la copia di uno di quelli che aveva fatto per me. Ma la cosa straordinaria (almeno per me) era che al centro, su una colonnina più alta delle altre, c'era… il mio cannone, che lui aveva riprodotto all'identico. È lì che capii che tra me e quell'immenso artista c'era una vera complicità.

Alla fine di questo post mi dico che forse avrei dovuto scrivere qualcosa di diverso. Forse avrei dovuto parlare più di arte che di complicità e di amicizia. Ma quando si ha avuto la fortuna di passare tanto tempo con qualcuno come Baj, anche l'avventura artistica passa in secondo piano e ciò che resta vivo è, prima di tutto, il ricordo dell'uomo che, dietro una patina burbera e talvolta intransigente, era una splendida persona che mi ha cambiato la vita.

Ubu Re (1984): il cannone.