Grandi vacanze di niente: leggere, scrivere, conoscersi

Tornano le cronache di classe di Enrica Buccarella che questa volta, attraverso la lettura di Un grande giorno di niente, di Beatrice Alemagna, trasforma il fantomatico tema sulle vacanze in un momento di riflessione collettiva su se stessi, la natura, il tempo, i luoghi. E sulle azioni per scoprire il mondo.

[di Enrica Buccarella]

E poi, come si fa di solito, ho chiesto: «Cosa avete fatto durante le vacanze?»

«Niente», mi hanno risposto quasi tutti. Un niente preventivo e sospettoso immaginando già che a questa innocente domanda avrebbe potuto far seguito la tremenda richiesta: «Scrivete un bel tema su come avete trascorso le vacanze. Che sia lungo più di una paginetta e completo di qualche suggestiva descrizione.»

Non si sa come, ma i bambini conoscono tutti i meccanismi delle maestre e sanno già, o credono di sapere in questo caso, quali saranno le tappe obbligatorie a cui nessuno, nel corso dei secoli scolastici è mai riuscito a sottrarsi: al ritorno a scuola il tema sulle vacanze estive, al ritorno da Natale il tema sulle vacanze invernali, al ritorno da Pasqua la primavera e le prime passeggiate: è tutto un succedersi di poi ho visto, poi ho fatto, poi sono andato. Insomma, diciamoci la verità, il tema con la cronaca delle vacanze può essere davvero una noia mortale, sia per chi lo scrive, con grande insofferenza, desiderando davvero di poter dire: «Non ho fatto niente, sono stato a casa e ho dormito per tre mesi!», sia per chi corregge questa serie infinita di poi, e dopo, e dopo, e poi, infine.

Mi viene in mente l’esilarante racconto di Bernard Friot sul tema post-domenicale. «Ogni lunedì è la stessa cosa. C’è il tema: Raccontate la vostra domenica. È uno strazio perché a casa mia la domenica non succede mai niente: andiamo dai nonni, non facciamo niente, mangiamo, non facciamo niente un’altra volta, rimangiamo, ed è finita. Quando l’ho raccontato la prima volta, la maestra mi ha dato: Insufficiente. La seconda volta ho addirittura preso zero.» (da Il mio mondo a testa in giù, edizioni Il castoro).

Il finale è un’ironica e irriverente sorpresa alla Friot che vi invito a leggere.

«Ah, quindi non avete fatto niente…», replico io. «Delle grandi vacanze di niente…», enfatizzo tirando fuori dalla borsa il libro Un grande giorno di niente di Beatrice Alemagna per le edizioni Topipittori.

«Pensi di leggercelo?» fa Francesco con sorriso e aria ammiccante. Anche questo i bambini sanno già, almeno quelli della mia classe. Ci sono libri che porto a scuola e metto silenziosamente nel nostro piccolo scaffale costruito dal papà di Leia, e lascio che siano loro a scoprirli e a meravigliarsene; e altri che invece metto lì sulla cattedra e loro adocchiano subito lanciandosi sguardi d’intesa: oggi ci legge una storia. Mi piace portare tanti libri a scuola, anche se poi non li leggeremo tutti. A volte li porto solo per qualcuno, perché sento che ne ha bisogno, che proprio a lui, e non a tutta la classe quel libro può interessare, dire qualcosa, sollecitargli un pensiero, un’azione, suggerirgli un consiglio.

Alessia e Natalia riguardano il libro con attenzione.

Quando decido di leggere un libro alla classe, che sia breve o lungo da leggere a puntate, è perché penso che tutti vi si possano più o meno riconoscere, che possa essere uno stimolo prima di tutto per la conversazione e il confronto, e poi per cercare di vedere e di fare le cose della scuola in modo diverso, come appunto scrivere un testo affrontando l’argomento da un’altra prospettiva, più intensa e motivante. Arrivare addirittura, dopo la lettura e il dialogo, le mille ipotesi, gli scambi e i battibecchi, a desiderare di scrivere. Leggo ai bambini principalmente per il piacere della lettura e poi anche per parlare, fare, cercare, approfondire e condividere. Il senso della lettura in classe, ad alta voce, è quello: leggendo al gruppo non si celebra il libro, ma la condivisione, la costruzione di un’attenzione, di una sensibilità, di un linguaggio e di una storia comuni, che poi è quello che ci rende classe, che ci rende compagni. Spesso gli stimoli più grandi si nascondono proprio nelle storie semplici, quelle di poche parole, che lasciano dei dubbi e che permettono di immaginare possibilità narrative parallele, o un prima e un poi che non c’è scritto, ma che ognuno può anche riferire al proprio vissuto, alla propria esperienza.

«Quale figura ti piace di più? A me questa perché il bambino si guarda allo specchio e vede il suo papà.»

«Perché la mamma e il bambino sono in vacanza da soli? E il papà dov’è?». «Non c’è scritto», rispondo io. Lascio, come mi suggerisce il libro, che ognuno faccia le sue ipotesi. «E perché il bambino non fa qualcos’altro se si annoia?». Cosa potrebbe fare? Potrebbe disegnare, o anche andare in cucina a preparare qualcosa, potrebbe aiutare la mamma nel suo lavoro. Ma no, la mamma sta scrivendo al computer delle cose difficili, è molto occupata non ha bisogno del suo aiuto. E poi lui lo dice: «Non volevo fare proprio niente, solo schiacciare il bottone del mio videogioco e uccidere i marziani».

Ecco che dopo la lettura - che sempre si compie in religioso silenzio - partono le domande e le riflessioni tra loro e tra me e loro. E riguardiamo anche le immagini. Abbiamo letto questo libro guardando le illustrazioni proiettate sulla lim, le avevo preventivamente fotografate. Poi il libro resta in classe e il contatto fisico con il volume non manca mai, non deve mai mancare, ma è bello poter vedere tutti insieme contemporaneamente le figure mentre la voce racconta, in un buio soffice, con la luce che valorizza ogni particolare. Così i bambini si accorgono che nel momento di massima disperazione del protagonista, quando lui si sente come un albero perduto nella tempesta, le sue gambe sono un tronco di legno, e colgono anche che quando viene rappresentato visto dal basso, su una distesa di grossi funghi profumati, il suo impermeabile arancione, che lo fa sembrare di volta in volta stella o farfalla, stavolta si allarga e lo fa apparire come un grosso fungo. E non ricordo chi, nel buio, dice: «Significa che lui, adesso che si guarda intorno, sta diventando parte della natura.»

Durante la ricreazione, Sara legge il libro ai bambini delle altre classi.

E poi aggiungono: «Meno male che ha perso il videogioco, meno male che è uscito da quella gabbia, aveva dimenticato persino gli odori e aveva perso i suoi ricordi». Usano proprio questa parola: una gabbia che, mi spiegano, si era costruito da solo, con la sua tristezza, con la sua pigrizia, forse anche con la sua rabbia verso la mamma che lo ha trascinato in vacanza in quella vecchia solita casa, sotto la pioggia. «Bisogna cadere per poi rialzarsi», penso io, in un eccesso di riflessione filosofica adulta. «E meno male che è caduto», invece aggiungono loro, esprimendo il mio pensiero ad alta voce. Infatti è proprio la caduta rovinosa giù dalla collina che mette il bambino nella condizione di vedere le cose da una diversa prospettiva, anzi, di più: le vede proprio al contrario.

Caduta, scivolone, ruzzolone, capitombolo, sprofondamento: è il momento clou della storia e allora cerchiamo tutte le parole per definire questa sequenza fatta di sei figure e di rimbalzi e scivolate. Fino al fondo della collina, dove, a pancia all’aria e con gli occhi al cielo, tutto sembra aver cambiato posto, il mondo sembra tutto nuovo.

In quanti modi si può cadere?

La pagina seguente è allora un inno all’energia ritrovata, al riappropriarsi di vista, olfatto, gusto e movimento, perciò, da buona maestra metto in evidenza i cinque sensi con cui entriamo in contatto con ciò che ci circonda. Il bambino guarda, tocca, assaggia, ascolta, prova. Mi dicono: «Però maestra, per conoscere il mondo e scoprire cose nuove non servono solo i sensi, servono anche le emozioni.» Giusto! Allora il mondo si conosce attraverso ciò che si sente anche con la testa e il cuore, concludiamo. «Altrimenti il bambino non avrebbe guardato attraverso un sassolino di vetro», mi dice una bambina.

All’inizio faccio un po’ fatica nel capire l'associazione, ma poi mi rendo conto della potenza di questo pensiero. Raccogliere un sassolino e accorgersi che è trasparente, giocare a guardare il mondo attraverso di esso, non è solo usare la vista: è qualcosa di più, vuol dire avere cuore e cervello vivi e attivi, allegri e giocosi e pronti a tutto, pronti alla scoperta. Così parte la gara a chi sa dire più azioni che si possono fare per scoprire il mondo, e sono azioni che coinvolgono tutto il nostro essere, immaginazione compresa: nuotare sott’acqua, scalare una montagna, lanciarsi col paracadute, immergere le mani in un ruscello, bere l’acqua da una sorgente, guardare il cielo di notte, accarezzare un animale, visitare delle grotte, ascoltare il rumore della pioggia, cercare le lucciole, vedere cose nelle forme delle nuvole, andare a caccia di squali. E tutte sono azioni che i bambini hanno fatto durante le loro vacanze, a parte lanciarsi con il paracadute e sì, invece, andare a caccia di squali, se dobbiamo dar fiducia a Rebecca che ha trascorso le vacanze alle Maldive.

«Ma allora avete fatto delle cose straordinarie durante le vacanze!», dico io e loro ridono. Ormai li ho smascherati. Quando aggiungo che mi piacerebbe saperne di più, e loro lo sanno che è vero, e che potrebbero scrivere dieci cose che hanno fatto durante le vacanze. Sono già pronti, quaderno e penna, e qualcuno mi dice «Posso scriverne di più?». «No! Dieci bastano», è la mia impassibile risposta. «Ti prego maestra dodici, solo dodici!» e poi ancora «Sono arrivato a dieci ma me ne mancano ancora, posso?». «E va bene, se proprio ci tenete a scrivere…». Ci tengono a scrivere, molto, e senza accorgersi scrivono delle sequenze tenerissime, scoprendo quanto importanti sono persino quelle azioni che diamo per scontate e quanto scriverle le renda ancora più degne di attenzione e significative. Perché la scrittura ha questo enorme potere, di farci fare delle scelte e di rivelare a noi stessi i nostri pensieri, di indicarci tra mille cose quelle più importanti.

E così tra queste brevi frasi, racconti flash che dicono molto più di un lungo tema, leggo con sollievo che esiste ancora quell’idea di infanzia come età mitica di scoperta del mondo, della natura, che si fanno ancora quei vecchi giochi che nel ricordo di noi adulti sono dei veri e propri pulsanti della memoria: fare una buca, fare castelli di sabbia, costruire una base segreta, arrampicarsi sugli alberi, trovare le conchiglie, raccogliere sassi, fare guai, andare a pesca con mio papà, correre sul prato, fare il bagnetto al cane, nuotare da sola fino al largo, cantare in macchina, e poi dormire fino a tardi e stare svegli fino a tardi, disturbare mio fratello, conoscere un cugino, conoscere il cane di mio cugino… E un ambiguo svaligiare la casa che nell’idea di Denis significava solo che la sua famiglia ha dovuto fare un trasloco dalla casa in Romania.

A riprova che è proprio vero ciò che ha detto Rebecca, che il mondo si scopre anche con i sentimenti e le emozioni, ecco che trovo tra le righe alcuni resoconti che rivelano le vite, le fragilità, i desideri, le fatiche: abbracciare mio papà, fare la valigia, incontrare i famigliari, giocare con i cugini, vomitare perché ero emozionata, partire dalla Romania, tornare in Italia, viaggiare in macchina, arrivare in Romania, accarezzare il cane, ripartire per andare a salutare gli altri nonni, fare le valigie, disfare le valigie, salutare Raffadali, attraversare lo Stretto di Messina, viaggiare per quindici ore, conoscere Castelfranco Veneto.

E infine ci sono anche: giocare a casa, finire i compiti delle vacanze, guardare la televisione, giocare col cellulare, compiere gli anni (senza i miei compagni).

L’entusiasmo per questo tipo di scrittura veloce e immediata, che sembra tirare fuori da dentro proprio quello che si voleva dire, non accenna a diminuire. Allora nei giorni seguenti decidiamo di scrivere un altro elenco: quello delle cose nuove, mai fatte prima. Viste, toccate, assaggiate, annusate, ascoltate, provate per la prima volta. «Ho ascoltato di notte la musica turca ad un matrimonio», scrive Melina che durante le vacanze è tornata in Macedonia. «Ho toccato l’acqua appena uscita dalla cascata e ho odorato per la prima volta la menta».

«Ho toccato la lingua delle caprette dandogli un po’ d’erbetta.»

«Io per la prima volta ho visto una foto di mia mamma da giovane.»

«Io nelle vacanze ho toccato il vestito tradizionale rumeno che mi ha fatto una sarta; pungeva un po’.»

«Ho toccato il vetro polveroso di una macchina e ho provato a scrivere con il dito.»

«Ho ascoltato il verso di una civetta a casa di mia nonna.»

«Ho annusato l’aria fresca in cima al Monte Rosetta.»

«L’anno scorso ho fatto nuoto e quindi per la prima volta al mare sapevo nuotare.»

«Ho toccato i miei capelli e mi sono accorta che sono diventati lunghi.»

«Ho mangiato pizza in spiaggia e ho ascoltato dieci storie spaventosissime che ha raccontato mio zio.»

«Ho ascoltato una canzone che si chiama Com’è bella la città e mi è piaciuta molto, l’ho persino imparata a memoria.»

E Chenhao che durante l’estate è stato in Cina per trenta giorni scrive: «Ho visto per la prima volta una tigre vera. Ma gentile».

Queste piccole scritture illuminano l’argomento vacanze di una luce nuova, mi permettono di osservare i bambini nel loro mondo, nella loro sensibilità, nella capacità di cogliere dettagli. Mi diventano più chiare alcune dinamiche dei loro comportamenti, le luci e le ombre. Di alcune frasi scritte ne parliamo perché vogliamo sapere di più, ascoltiamo le canzoni e le musiche che hanno citato, e questa cosa li ha entusiasmati più di ogni altra. Si esaltano quando cerco le canzoni e i video dei T-Boys, un gruppo cinese di adolescenti cantanti ballerini a me ovviamente sconosciuti. La scuola entra nella loro vita, la loro vita entra a scuola. E ne ho la prova quando il giorno dopo, di sua iniziativa, Leia porta a scuola il suo vestito rumeno e tutte le bambine lo vogliono provare. E poi disegnano, come ha fatto Beatrice Alemagna, in piccoli spazi, le azioni per scoprire il mondo: quelle che hanno compiuto e quelle che avrebbero desiderato, quelle più facili da disegnare o quelle più suggestive. Sono illustrazioni che ognuno esegue con il suo stile, personale e ben definito, e siccome si tratta di vere miniature ne curano ogni particolare. È come aver puntato una lente che inquadra e valorizza ogni situazione che vogliono rappresentare. E questa bella raccolta di vignette sarà la copertina del nostro quaderno di Storie e poesie, il primo di questo nuovo anno che inizia all’insegna della scoperta del mondo.

Infine Giulia mi dice che ha riconosciuto l’illustratrice di Un grande giorno di niente e le sembra che sia la stessa di Lotta combina guai che ha letto durante l’estate. Adelina si incuriosisce e vuole conoscere questo libro e quindi lo porterò a scuola, solo per lei. Come mi sento orgogliosa in questi casi e quanto mi piace attribuirmi il merito di questa capacità di osservare, cogliere, accorgersi, interessarsi a ciò che dice un compagno, questa attenzione che rende ogni cosa speciale: una figura in un libro, una parola, un ricordo, persino una giornata a scuola, che notoriamente per i bambini a cui si chiede Cosa hai fatto oggi? è sempre un giorno di niente.

P.S. Nei giorni seguenti Natalia ha portato a scuola Cuori di Waffel e io Vacanze all’isola dei gabbiani, per continuare a parlare di vacanze in modi diversi, per "sfruttare" l’entusiasmo e la motivazione nati dal nostro lavoro e continuare a leggere, un po’ insieme e un po’ da soli, secondo i propri tempi e interessi. Succede spesso così. Potrei banalmente dire che i libri sono come le ciliegie e uno tira l’altro ma in realtà non è così semplice. Creare l’abitudine della lettura è un lavoro lungo che deve trovarci sempre pronti e preparati. Pronti a parlare di libri, ma soprattutto a parlare con i bambini, a dedicare loro del tempo, pronti a suggerire e a cogliere suggerimenti. Pronti a fare tesoro delle loro considerazioni appropriate ma ancor di più delle loro impertinenze e divagazioni. Sono quelle che più di ogni altra cosa ci portano a capire le reciproche profondità, a cercare e trovare insieme i libri più giusti per sviluppare argomenti e percorsi. Perché sarebbe davvero un peccato trascorrere cinque anni di scuola insieme e non arrivare a conoscersi.