Il delitto perfetto

ovvero come lasciare un papà solo con il proprio figlio.

[di Giulia Coniglio]

Dopo mesi di pannolini, latte in polvere e dialoghi muti con mio figlio Lorenzo, il telefono squilla. La casa editrice Topipittori ha bisogno di un aiutante in fiera a Roma. Accetto e ringrazio l’universo creato, finalmente sono arrivate le ferie dalla maternità. È ottobre, Lorenzo ha 4 mesi, io ho 4 mesi. Fisso la data sul calendario di Guido Scarabottolo appeso accanto alla finestra in cucina, mancano 2 pagine di numeri al cerchio rosso che segna il 6 dicembre. Due mesi per capire con chi lasciare Lorenzo. La mia vita, come quella di molte persone è incasinata, non ho un vero spazio e Lorenzo è arrivato come una visita postprandiale senza preavviso. E cosi siamo diventati una famiglia, all’improvviso abbiamo messo radici. Una micro casa a Roma in affitto, genitori lontani e lavori precari; vita della mia generazione.

Cerchiato di rosso il 6 dicembre diventa una data vera, una data da rispettare e la mia mente inizia a pensare alle varie opzioni. Il mio impegno in fiera sarebbe stato dal 6 dicembre al 10, dalle 10 del mattino alle 20 di sera; il mio compagno, dal lunedì al venerdì è fuori casa 10 ore al giorno, come fare?

Potrebbe venire mia suocera a Roma per tutti 4 i giorni, oppure mio padre. No, mio padre no, la vecchia generazione è ancora convinta che i bambini siano come i gatti, lettiera e croccantini e via. Potrei chiedere alla mia amica Victoria, che ha già due figlie, ma come posso dare questo impegno a un’amica?! Il bene che le voglio me lo impedisce. Allora Susanna, la tata delle figlie di Victoria, ma Lorenzo è troppo piccolo e dovrei fare un inserimento facendola venire a casa da subito. Mia suocera sembra essere l’unica soluzione. Fisso il calendario, le foglie di ottobre di Guido Scarabottolo mi alleggeriscono. Guardo Lorenzo che da pochi giorni ride, ride a tutto e penso al presente. Lorenzo è il presente, il mio hic et nunc; prima di lui il presente era una fissa della mia professoressa delle medie. In quell’istante mi arriva la soluzione, premedito un delitto, il delitto perfetto.

Fiera dal 6 al 10 dicembre, l’8 dicembre sul calendario è rosso, Guido Scarabottolo mi ricorda che è festa e che capita di venerdì quindi il mio compagno è a casa, è presente, c’è. Penso a me; io sto sola con mio figlio dal lunedì al venerdì, 10 ore al giorno per un totale di 50 ore settimanali, un full-time con qualche ora di straordinario senza dama di compagnia. Eugenio, persona capace d’intendere e di volere, dotata di 4 arti funzionanti, è perfettamente in grado di fare altrettanto. Da 4 giorni di panico diventano 2 e mi chiedo, a questo punto, che senso abbia far venire mia suocera dalle Marche. Mi serve qualcuno per due giorni, ripenso a Victoria e a Susanna, penso anche al meccanico sotto casa che lavora precisamente dalle 10 alle 20. Potrei lasciare Lorenzo in officina e vedere come se la cava. Magari lo sottovaluto, i medici dicono che i neonati hanno capacità sorprendenti. Potrei fare una prova.

E se al posto di 5 giorni di fiera ne facessi tre? I tre più importanti. Se provassi a chiedere quei due giorni? Farei una brutta figura? Potrei inventarmi una scusa, una febbre. Io con le bugie sono pessima, come con i debiti. Non ci dormo la notte. Non rimane che tentare il tutto per tutto e dire la verità.

Un paio di giorni prima la chiamata di lavoro, avevo affrontato Eugenio tentando con parole depresse di spiegare la mia assenza psicofisica. Dopo una giornata piena di Lorenzo, io voglio solo Netflix, con la speranza che il 25 di giugno, il primo compleanno, arrivi in un batter di ciglia. Lui con aria rilassata dice che mi capisce e che una delle soluzioni, secondo lui, è quella di sforzarmi di uscire a fare degli aperitivi con le amiche. Capisco senza pregiudizio, che non ha capito niente. Capisco anche, che lui non sa minimamente di cosa sto parlando, non per colpa sua ma per mancanza di esperienza, di quella specifica esperienza. Lui solo con Lorenzo non ci è mai stato e quando rientra la sera è troppo tardi per qualunque cosa. Come un’epifania sento le voci di tutte quelle donne che si lamentano dei loro compagni, di quanto siano inetti e di quanto loro si sentano sole. Lucidamente riaffiora la mia vita precedente, di quanto facessi la figa nel dire che io con “quelle” non avevo niente a che fare. Cosa sto facendo? Anche io sto monopolizzando mio figlio, anche io sono caduta nel tranello. Mi sento sola e con un mucchio di responsabilità, mi manca la mia vita, ma non gli aperitiv, mi manca il lavoro, il sentirmi parte di qualcosa che non sia il mondo mamma. Da un lato è vero, il recinto in cui pascoliamo ce lo costruiamo da soli, ma dall’altro, è altrettanto vero, che uno status ha una forza centripeta senza scampo. Lo status di mamma con conseguente ruolo sociale è una delle colonne portanti della nostra società e uscirne senza ferite equivale a vincere un Nobel per la pace avendo fatto la guerra. L’istante dopo il test di gravidanza non sei solo un bancomat per almeno un centinaio di aziende e per la sanità, ti ritrovi catapultata in una dimensione parallela, una boccia dei pesci dove il pesce sei tu. Vedi il mondo esterno, ma non puoi toccarlo, non te lo fanno toccare. E così anche dopo, quando partorisci, quando pensi che sia tutto finito e invece è l’inizio della fine. Sono convinta, avendo vissuto entrambe le esperienze, che la nascita di un figlio è come un lutto di una persona cara. Un trauma. Ci vuole tempo e dedizione per ritrovare se stessi e da soli non è possibile. Da soli possiamo trovare la lucidità e la consapevolezza per dare inizio a un processo di evoluzione ma poi bisogna saper chiedere aiuto e se non abbiamo toppato nelle relazioni della nostra vita, la risposta non tarderà ad arrivare.

Laura Pigozzi nelle prime pagine del suo libro, Mio figlio mia adora (Nottetempo 2016), sostiene che «La famiglia è il luogo in cui la parola costruisce gli esseri umani, nel bene e nel male. I genitori vi esercitano la capacità di trasferire, tramandare, offrire: quel ci fa madri e padri non è il sangue ma la parola […] Neppure il rapporto più biologico di tutti, il legame madre-figlio, può considerarsi nucleo fondativo universale della famiglia: la maternità, infatti, non è mai, in nessuna epoca e in nessun gruppo umano, la condizione essenziale di una famiglia. In qualunque civiltà il legame biologico è sottomesso a quello culturale […] La famiglia naturale non esiste, né è mai esistita: l’idea stessa di famiglia naturale appare una costruzione del pensiero, è culturale, quindi.» I figli non sono nostri, è vero, li abbiamo fatti noi e questo fatto è abbastanza incredibile, guardando Lorenzo non capisco come sia possibile che lui sia li, che ride, mangia, dorme. Chi è Lorenzo? Quali sono i suoi gusti? Io non lo so. Io sono l’addetta allo showroom, gli mostrerò, dal mio punto di vista, questo grande negozio che è il mondo e alla fine lui sceglierà qualcosa. Chissà cosa…

E come in tutti grandi magazzini, i commessi fanno i turni; un giorno è mio, un altro è del padre e quello dopo è dei nonni, degli zii e degli amici. È una vita fatta di abitudine, di orari, di grande dispendio di energia. Violenze psicologiche chiamate rinunce, incomprensioni dovute a differenze culturali anche quando la moglie e i buoi sono dei paesi tuoi. Il primo pensiero che ho fatto quando sono rimasta incinta è stato quello di aver perso il mio essere sola e di aver capito che l’uomo della vita non è il principe azzurro ma il padre di tuo figlio. Finché morte non ci separi.

Essere madre è un’esperienza fortissima, che può far perdere le coordinate, per questo servono gli Altri. Dove per altri s’intende il compagno, gli amici, i genitori, i libri, il lavoro, il mondo. I risultati delle indagini quantitative svolte dalla sociologia del lavoro, ci dicono che le donne che rientrano nel mercato del lavoro dopo la maternità sono poche e la stragrande maggioranza richiede un passaggio di tempo da full-time a part-time. Nel nostro paese è ancora la famiglia, intesa come nonni o parenti, l’istituzione a capo delle reti di aiuto. Le politiche sociali sono carenti sia dal punto di vista scolastico che da quello sociale. Ma la famiglia è cambiata, oggi tante coppie non sono sposate e non vivono più con i loro genitori o parenti; vivono lontano chilometri. Quindi la famiglia diventa l’altro, il proprio compagno o marito e chi se lo può permettere una terza persona stipendiata. Sempre dalla sociologia del lavoro emerge che l’uomo in famiglia è depositario del sapere ludico, come dire, ho uno in casa che fa giocare mio figlio. Una sottospecie di babysitter con il naso rosso da pagliaccio. Questo perché accade? È possibile che sia solo colpa degli altri? Delle istituzioni, manchevoli sicuramente, dei nonni, non sempre presenti e dei compagni sicuramente pieni di lavoro o qualsiasi altra cosa li faccia essere assenti. Mi chiedo, non è che siamo anche un po’ noi donne a voler essere onnipresenti? Non volendo nascondiamo i pigiamini nei cassetti, non lasciamo il latte nel biberon in frigo, non mettiamo in bellavista i giochi. Non è che godiamo un pochetto nel mettere in difficoltà i nostri compagni? Per fargli capire la difficoltà che viviamo ogni giorno.

Apro la finestra e mi accendo una sigaretta, come un sicario immagino il mio delitto. Mi vedo uscire il mattino e ritornare a casa la sera. La sagoma di Eugenio disegnata con il gessetto bianco in salotto e Lorenzo con il suo sorriso sdentato mi dice che ce l’abbiamo fatta.

Ho deciso, questo è ciò che accadrà. Chiamo Paolo e Giovanna e senza giri di parole gli racconto il mio piano: lasciare Eugenio solo con Lorenzo per tre giorni. Le croci sul calendario scorrono velocemente e l’8 dicembre arriva in un lampo, come mi ero figurata esco di casa e saluto i maschi. Buona giornata e la porta si chiude.

Per avere un alibi di ferro, i giorni prima avevo preso a etichettare tutto, anche il telecomando, quello senza pile. Telecomando Lorenzo. Tutto era piegato e in bella vista, tutto a portata di mano, con Lorenzo in braccio si traduce a portata di denti e piedi. Avevo travestito la mia vendetta da Madre Teresa di Calcutta.

Ovviamente per tre giorni Lorenzo è stato buonissimo, come si dice: la fortuna del principiante. Ha mangiato, dormito e giocato. La sera al mio rientro i maschi erano felici, chissà forse non volevano darmi soddisfazione. O forse, semplicemente si può fare. Si può mollare.

Da quei tre giorni altri lavori sono arrivati e avendo imparato che delegare è possibile, lasciando ognuno al proprio destino, esco di casa leggera. Eugenio ha provato con mano la difficoltà non tanto fisica quanto psicologica di relazionarsi con un qualcuno che ami più di te stesso ma che per ovvi motivi non ti risponde e pretende che tu sia al massimo delle tue forze. Pena giornate da dimenticare. Io ho imparato che avere tutto sotto controllo è non solo impossibile, ma da malati di mente, data la frustrazione prodotta.

Lorenzo anche con la maglia al contrario, il pannolino sghembo e i calzetti spaiati è felice. Anzi, forse, Lorenzo è più felice.