La fabbrica del mito, ovvero: l'illustratore come mistificatore.

NormanRockwell, Breaking home ties,1954.
Copertina per il Saturday EveningPost.

Ilprossimo 11 novembre inaugurerà a Roma AmericanChronicles, una mostra monograficadedicata a un celeberrimo illustratore americano, NormanRockwell. Quarantaquattro quadri e 323illustrazioni originali per il Saturday EveningPost realizzate nel corso di 47 anni, dalla GrandeDepressione degli anni Trenta agli anni Settanta. (Qui equiil video di presentazione)

Le ragioni per visitarequesta mostra sono moltissime. Le illustrazioni di Rockwell per lecopertine del Saturday Evening Post sbigottiscono perla maestria tecnica e sono certo che saranno decine gli illustratoriche si accalcheranno davanti agli originali per carpire i segretidi una tecnica (olio) impeccabile, di una composizione efficace, diuna caratterizzazione dei personaggi misurata e allo stesso tempoallegra e arguta, di un'attenzione spasmodica ai dettagli piùminuti, alla ricerca di una ricetta impossibile da replicare. Epoi, quante sono le mostre di illustrazione che si organizzanoin Italia? Tanto vale non perdere l'occasione.


Norman Rockwell, Girl with a blackeye, 1953.
Copertina per il Saturday EveningPost.


Ma la ragione per la quale mi viene di scrivere di questa mostra (cheovviamente ancora non ho visto) e, soprattutto, di questo sapientissimoartigiano dell’immagine è che la notizia della prossima inaugurazionemi ha fatto riflettere sulla ragione per la quale - al di là delriconoscimento di una maestria composita e sfaccettata - io abbia sempreliquidato Rockwell con un «non mi piace»: mi faceva - e continua afarmi - lo stesso effetto emetico della melensa grafica vettoriale degliemoticon e degli impertinenti pupattoli fotografatida AnneGeddes. Ma queste sono considerazioni personali, gravementeinsufficienti, intrise di superficialità e di emotività. Esigerebberoun approfondimento, anche psichiatrico.


NormanRockwell, Boy in a dining car,1947.

Non cheil mio scarso gradimento sia fenomeno isolato: anche se i suoi originalisi vendono a milioni di dollari (gli ultimi passaggi in asta, fra i 9,1 ei 46 milioni; e basti ricordare che a cifre non molto più alte si vendonodei Picasso, dei Bacon, dei Warhol) la critica non ha mai accolto Rockwellnel novero dei grandi. Solo adesso, con la sua straordinaria rivalutazionefinanziaria, qualche voce di lode comincia a levarsi: bisogna purgiustificare lo sperpero di cifre così assurdamente elevate.

Norman Rockwell, Freedom ofSpeech, 1943.
Dipinto della serie FourFreedoms.


In realtà, la resurrezione critica di Norman Rockwell ècominciata qualche anno fa: nel 2001, subito dopo l’11 settembre,il Guggenheim Museum di New York ha montato in fretta e furiaunagrande retrospettiva di questo illustratore. Una mostrache ebbe un successo di pubblico straordinario: la gente correvaa fiumi a farsi rassicurare - nel momento in cui il suo mitoveniva messo così drammaticamente in discussione - dall'immaginedi un’America buona e compassionevole, dove  tuttii bambini sono simpatici scavezzacollo, i poliziotti severi mabonari, i servi negri grati al padrone, i poveri dignitosi, i ricchicondiscendenti ma consapevoli delle proprie responsabilità sociali,la gente accogliente e di mente aperta. Perfino la battaglia per idiritti civili, nelle illustrazioni di Rockwell, diventa asetticae linda come il vestito di una scolaretta.


NormanRockwell, The problem we all live in,1964.

Inquesto senso, il titolo della mostra AmericanChronicle [Cronache americane] è decisamentefuorviante; ma è anche un ulteriore segnale di quanto questa opera dimistificazione fatta di tacchini ripieni, camicie a scacchi, calziniesausti arrotolati sulle caviglie, nonne interamente rivestire dipizzo e abiti da ballo provati sopra la salopette in jeans sia stataefficace. Quanto questa azione di depurazione e di filtraggio abbiaagito nel profondo della psiche collettiva americana: una patentequanto magistrale finzione viene accettata come quintessenza delreale, del genuino, del vero. Sono convinto che sia stato proprioil mezzo, l'illustrazione, a rendere possibile un risultato cosìstupefacente. E c'è qualcosa di diabolico in questo.


NormanRockwell, Prom Dress, 1949.
Copertina per il Saturday EveningPost.


Il corpus delle immagini confezionate con ossessiva maniacalitàda Rockwell ha contribuito, in un arco di tempo lungo quasi quantoil secolo breve a promuovere il sogno americano presso gli americani,forse più ancora del cinema. E lo ha fatto così bene (e attraversouno strumento così diffuso e coinvolgente come la stampa popolare)che gli americani hanno finito per crederci, per identificarsicompletamente e perdutamente in quella narrazione fatta di singoleimmagini sospese, il cui "prima" e "dopo" è lasciato alla fantasiadel singolo lettore, costruendo un  immaginario collettivoautoassolutorio e appagante, cieco alla realtà e totalmente vendutoal mito, alla finzione dell'americanità. Non è forse un caso chefra i più grandi collezionisti di Rockwell ci siano il politicopopulista RossH Perot e due fra i cineasti che meglio hannorappresentato questa versione del mito americano: George Lucase StevenSpielberg. (Quiun servizio Rai sulla mostra Telling Stories:Norman Rockwell from the Collections of George Lucas and StevenSpielberg.)

Norman Rockwell, The Runaway,1958.
Copertina per il Saturday EveningPost.


Non credo che Rockwell fosse in malafede. Misembra lo dimostri un documentario (quila prima parte, quila seconda e quila terza) che descrive, tra l'altro, in modo molto interessante il suoaffettuoso rapporto con i modelli che usava per le sue illustrazionie che costringeva a comporre tableaux vivants che "fotografava aolio", intervenendo solo in quei minuti dettagli mistificatoriche servono a rendere espliciti, palpabili e - alla fin fine -veri i cosiddetti valori tradizionali americani.


Norman Rockwell,After the proms, 1957.
La fotopreparatoria e la copertina per il Saturday EveningPost.


Ma se usava la gente della strada, i vicini di casa, i bottegaiall'angolo per comporre il suo ritratto dell'America, quella che dipingevaera l'America che avrebbe voluto: altra da quella che, anche nella ridenteStockbridge, Massachusetts, aveva sotto gli occhi quotidianamente.

Norman Rockwell,Christmas Homecoming, 1948.
Copertinaper il Saturday Evening Post.
Il personaggio con la pipa in alto a destra è NormanRockwell


In coda a queste riflessioni, mi viene da notare che in Italia nonabbiamo mai avuto un aedo così sublime di una narrazione collettivadell'italianità: un illustratore in grado di plasmnare con tanta acribiaun'immagine nella quale gli italiani si potessero riconoscere. Piùche una narrazione, abbiamo avuto una retorica dell'illustrazione,altisonante e cinica, che occhieggiava dalle copertine della Domenica delCorriere proponendoci la vita come spettacolo più che lo spettacolodella vita, e creando così i presupposti del dominio di quellacattiva televisione che ha devastato la nostra psiche collettiva.

NormanRockwell, Girl at mirror,1954.
Copertina per il Saturday EveningPost.


Direi che nel cambio non ci abbiamo comunque guadagnato.

Norman Rockwell,Un illustratore ispeziona un'illustrazione, Roma,2014