La solitudine dei numeri pari

[di Giulia Coniglio]

[…] Il mio mestiere è scrivere delle storie, cose inventate o cose che ricordo della mia vita ma comunque storie, cose dove non c'entra la cultura ma soltanto la memoria e la fantasia. […] E poi sono nati i miei figli e io sul principio quando erano molto piccoli non riuscivo a capire come si facesse a scrivere avendo dei figli. Non capivo come avrei fatto a separarmi da loro per inseguire un tale racconto. M'ero messa a disprezzare il mio mestiere. Ne avevo una disperata nostalgia ogni tanto, mi sentivo in esilio, ma mi sforzavo di disprezzarlo e deriderlo per occuparmi solo dei bambini. Credevo di dover fare così. Mi occupavo della crema di riso e della crema d'orzo  e se c'era il sole o se non c'era sole e se c'era vento o se non c'era vento per portare i bambini a passeggio. I bambini mi parevano una cosa troppo importante perché ci si potesse perdere dietro a delle stupide storie, stupidi personaggi imbalsamati. Ma avevo una feroce nostalgia e qualche volta di notte mi veniva quasi da piangere a ricordare com'era bello il mio mestiere. Pensavo che l'avrei ritrovato un giorno o l'altro, ma non sapevo quando: pensavo che avrei dovuto aspettare che i miei figli diventassero uomini e andassero via da me. Perché quello che avevo allora per i miei figli era un sentimento che non avevo ancora imparato a dominare. Ma poi ho imparato, a poco a poco. Non ci ho messo neppure tanto tempo.[...]

Natalia Ginzburg, Le piccole virtù, Einaudi 1962

Fra pochi giorni è capodanno. Mio figlio Lorenzo fra pochi giorni compie un anno. Fra pochi giorni è il mio capodanno. Ed è tempo di tirare le somme. Natalia Ginzburg nel '62 scriveva così a proposito dell'essere madre e del suo mestiere. Queste parole mi hanno salvata dall'oblio, dalla catastrofe della ripetizione e dall'abitudine nella maternità. L'altro giorno mentre stendevo i panni con il sole che mi bucava la faccia, pensavo che far figli è una cosa mistica. Non è né bello ne brutto: queste categorie sono troppo riduttive. In alcuni momenti è bellissimo, anzi di più, e in altri è brutto da far schifo. Io non sono una madre pentita di esserlo diventata, nonostante non avessi messo in preventivo di avere figli. Anzi. Pensavo che il mio troppo zucchero nel sangue li avrebbe annegati, i figli. Invece no. Lorenzo è nato. Prima, ma è nato. Si è fatto un mese di ospedale in terapia intensiva. Lorenzo è nato due volte. Quando è tornato a casa, io l'ho donato al mondo. Ai nonni, agli amici, agli zii, alla natura, al vento, alla pioggia. L'esperienza in ospedale mi ha fatto capire che i figli sono del presente. Sono del momento in cui vengono al mondo, chi c'è, c'è. Lorenzo è e sarà di chi lo ama. E lui lo sa. Io sono il suo braccio, la sua voce, la sua volontà, per ora, fino a che non sarà in grado di fare da solo.

Io lavoro a casa, il mio compagno ha un lavoro che lo costringe a far nulla per lunghi periodi e lontano per altrettanti interminabili periodi, questo fa sì che io sia la costante e lui la variabile.

Lorenzo si adegua di conseguenza. I giorni in cui a casa siamo soli, io sono bastone e carota, croce e delizia. Al bagno ci vado una volta ogni due giorni e per scrivere quattro righe ci vogliono quattro mesi. Io e il mio lavoro ci guardiamo in cagnesco e la notte la passo a consegnare, a scrivere mail, a cercare di portare dei soldi per la baby-sitter e la donna delle pulizie. Rita si chiama. Io la chiamo santa Rita da scutari. Lorenzo le sorride sempre, sa che io le voglio bene, che senza di lei sarei una donna finita. E così le giornate volano tra pannolini, libri letti di nascosto, sensi di colpa per cedere al lettone, rito della messa a letto: pigiamino-storia-oggetto transizionale e dormi te che dormo anch'io. Stanotte ha fatto tutta una tirata. Stanotte ottanta risvegli per colpa dei denti che tanto non si sa mica mai a chi e cosa dare davvero la colpa. In realtà la colpa è del tempo. A dodici mesi se non ti svegli almeno tre volte, non hai dodici mesi ma dodici anni. Siamo giusti. E allora vai di camomilla e dormi te che dormo anch'io.

Ogni giorno guardo la cassetta della posta per vedere se i servizi educativi mi hanno promossa alla mezza giornata libera. Entrare all'asilo comunale è come entrare in un club esclusivo di polo. Prima di tutto devi avere un sacco di punti. Il punteggio, signora Coniglio, è tutto. Io che credevo di aver chiuso con i punteggi. Marito che lavora fuori, 5 punti. Donna che non lavora, 0 punti. Donna che lavora a singhiozzo, 3 punti. Nonna invalida, 5 punti. Nonno sano, 0 punti e così via. La nostra famiglia non è da punteggi alti. Io e il mio compagno abbiamo sempre fatto bene quello che ci piaceva, uguale: 0 punti. Bisogna saper di tutto un po’, 5 punti.

Dopo il punteggio c'è l'età del bambino. Se è lattante 0-12, entra di sicuro, se è medio entra forse, se è grande aspetti di mandarlo a scuola. Dunque Lorenzo è nato a giugno quindi avrei dovuto mandarlo, per essere sicura della mia libertà, a tre mesi. Va da sé che la domanda l'avrei dovuta compilare prima che lui nascesse. Ma chi è così sicuro che poi un figlio nasca davvero?

Asilo o non asilo quello che ho riscontrato è che è molto difficile piazzare il proprio figlio da qualche parte o con qualcuno. Utilizzo il verbo piazzare con cognizione di causa. In alcuni momenti è un diritto piazzare il proprio figlio da qualche parte lontano da te. Non importa quale sia la motivazione, anche dormire senza interruzioni va bene. Se una famiglia non ha tutti i quattro i nonni funzionanti è un bel problema. Baby-sitter giovane con esperienza, 8 euro l'ora, ma se la sera vuoi uscire, sicuro esce anche lei. Baby-sitter nonna, 10 euro l'ora ma devi tornare a casa entro le 23:00 che poi è stanca e vuole andare a casa. Una tata è per ricchi.

Io vorrei solo uscire una sera e star tranquilla a dire scemenze per il gusto di dirle e fumare sigarette senza la morsa dell’ora d'aria.

La verità è che tutto è cambiato. La verità è che prima faccio un bel funerale a ciò che ero e prima comincio una nuova vita. Libera. Piena. Divertente. Non è come prima e non lo sarà mai più. Certo, si ricomincerà ad uscire, ad andare a cena, al cinema, a far l'amore soli. Ma una parte del nostro cuore e della nostra mente sarà sempre di qualcuno, anche se lontano. E quel qualcuno a quel punto ci mancherà. Il famoso cane che si morde la coda.

Ho capito che dovevo chiedere aiuto quando una domenica pomeriggio un mio caro amico mi ha invitato a un aperitivo. Prima di rispondere affermativamente ci ho messo circa quindici minuti. Quindici minuti di silenzio telefonico. Dunque: Lorenzo mangia alle 19:30, l'aperitivo è alle 19:00 quindi potrei fare un salto volante e tornare a casa avendo cucinato prima la cena. No, aspetta così non mi godo niente. Ok. Ricominciamo. Potrei dare da mangiare a Lorenzo e arrivare all'aperitivo alle 20:30. No, così è una cena e poi io ho fame e lui ha sonno. Allora potrei portare con me i contenitori del cibo e gli do da mangiare al bar. Facilissimo. Niente di più pratico. Contenitori, forchetta, piatto, bavaglino: voglio morire. Il mio amico, in attesa al telefono, ha rilanciato un magari possiamo vederci alle 17:00, ché l'importante è vedersi. Finalmente avanzo un sì secco. Di quelli felici. Arrivata all'appuntamento, in mezzo a gente ben vestita e rilassata in una musica piena di bassi, mi accorgo di non saper più conversare. Ho il cervello in pappa. Riesco solo a dire parole bisillabe. Cane, gatto, casa, sole. E anche bravo, bravo, bravo con applauso. Torno a casa frustrata. Ho bisogno d'aiuto.

Recalcati da dentro la tv dice che il bambino verrà salvato dalle fauci della madre solo dalla donna. La prima cosa che penso è che, se Rai tre decide di chiamare uno psicanalista per ridefinire ciò che di più animalesco al mondo c’è, significa che qualcosa è andato storto. E poi penso alla parola donna. Quanta ne è rimasta in me? Tanta. Ma come si fa a farla uscire?

Sono arrabbiata con la mia generazione, con il mio tempo. Un tempo di assoluti e di fanatismo.

Questo è il tempo del con me o contro di me, di un solo modo giusto. Abbiamo preso delle teorie e le abbiamo fatte diventare leggi. Penso al povero Bowlby e alla sua teoria dell'attaccamento, che è stata travisata e resa arida e sghemba, confinata alla mera volontà di allattare. Al bambino in fascia anche a 40 gradi all'ombra per il contatto pelle a pelle qualunque cosa accada. Al co-sleeping a costo di divorzio. E vai con le case maternità dove non è possibile che tu non abbia il latte. E alle fascioteche che se vai con lo zainetto sei brutta e cattiva. E l'amore lo fai il prossimo anno perché e meglio stare tutti insieme nel letto, ma attenzione al soffocamento e anche alle morti bianche: meglio comprare un riduttore cosi sta nel lettone ma sicuro. Messaggi e mail su come devi fare questo o quello con foto di famiglia felice tutti stretti stretti in un abbraccio al sole.

Non ci sto. Mi voglio ribellare. Alle fanatiche del seno a tutti i costi finché morte non ci separi.

Vorrei dire che non tutte le madri possono e vogliono vivere questa esperienza. Io per esempio non ho voluto e potuto. Lorenzo nei dieci giorni di terapia intensiva è stato alimentato con il sondino e poi quando eravamo fuori da qualsiasi rischio io non sono stata capace di smettere di fumare, talmente forte lo stress. Mi tiravo il latte e lo buttavo perché, del mio corpo, non volevo offrirgli più niente che potesse nuocerlo. Svuotavo il piccolo biberon nel grande lavandino acciaio dell'ospedale di nascosto dalle altre mamme, da quelli della lega del latte che passavano a ritirarlo a fine giornata e dal mio compagno che era convinto che il mio latte avrebbe salvato Lorenzo da qualunque situazione.

Mettevo la sveglia di notte per svuotare il seno dal dolore e di giorno sedevo nella stanza dell'allattamento, con le altre mamme, in silenzio, il solo rumore della pompa per tirare via la manna dal seno. Il mio era un latte amaro, lo rendeva amaro la paura di perderlo. Il troppo amore. E Lorenzo aveva fame, una fame da lupo e il mio latte era poco e così pieno di rimorso. Rispetto i seni paonazzi di ragadi e le febbri a seguire, rispetto il latte pieno di nutrienti e gli asciugamani caldi contro il dolore per l'ostruzione dei dotti ma sono felice della scelta che ho fatto e sono convinta che la maternità passi anche per altre strade. Per la cura e l'accoglienza, il linguaggio, la cultura e l'amore. Maternità come risposta al grido d'aiuto, al far sentire i nostri figli desiderati dal mondo e non solo da noi, che ce li abbiamo messi.

Credo che la difficoltà sta nel primo figlio, nelle prime esperienze.

Le prime volte sono sempre le più difficili. Implacabili. La solitudine dei numeri pari. Della diade. Il secondo figlio lo immagino da mano sinistra. Come andare in bicicletta. A distanza di un anno capisco che la metà delle cose che mi sono autoinflitta me le potevo risparmiare e così i milioni di cose comprate senza alcun senso. I bambini non hanno bisogno di niente. Se non di una madre che stia bene con se stessa, che sia felice delle scelte compiute: di allattare, di non farlo, di dormire con il proprio bambino, di giocare con lui o di lavorare, di essere stanca o arrabbiata, di piangere insieme al proprio compagno guardando in che razza di casino ci si è andati a cacciare.

Bruno Bettelheim in Un genitore quasi perfetto scrive nei ringraziamenti: «Desidero per prima cosa precisare che il titolo del presente libro si ispira all'idea di ‘madre abbastanza buona’, o ‘madre passabile’, formulata da D.W. Winnicot. […] il titolo suggerisce che, per una buona educazione dei propri figli, non bisogna cercare di essere dei genitori perfetti, né tantomeno aspettarsi che lo siano o che lo diventino, i nostri figli. La perfezione non è alla portata del normale essere umano, e l'accanimento nel volerla raggiungere è inevitabilmente di ostacolo a quell'atteggiamento di tolleranza verso le imperfezioni altrui, comprese quelle dei figli, che, solo, rende possibili i rapporti umani decenti. È invece alla portata di tutti essere genitori passabili, vale a dire genitori che educano bene i figli.[...]»

L'altra sera sono uscita. Dopo ventuno mesi, nove di gravidanza e dodici di Lorenzo, sono uscita. Ho chiamato la Georgina che è una di quelle mamme diventate nonne, alla quale, per evidenti motivi ho fatto pena. Le ho mollato Lorenzo dalle 20.30 alle 22.30. Sono uscita con la mia bicicletta da corsa rossa, mi sudavano le mani e verso il mare mi sono bevuta il vento. Ho pensato di avere quindici anni. Legata al palo la mia bici davanti al ristorante, dove mi aspettavano le mie amiche per una cena. Cena che ho consumato con l'imbuto che già erano le 22.30. Per la prima volta non ho pensato a nulla, mi sono goduta il mio tempo. Tornata a casa Lorenzo dormiva sfinito. Un'ora di diavolo a quattro, ha detto Georgina. Ma il sonno vince tutti.

Ha ragione, ho pensato io pivella.

Sono felice. Felice di essere mancata a Lorenzo. Felice che per due ore Georgina abbia accompagnato mio figlio nelle braccia di Morfeo. Felice di essermi presa ciò che mi spettava. Di essere stata donna per due ore.