La traccia di un sorriso

[di Paolo Canton]

Novalis, uno dei più importanti esponenti del romanticismo tedesco, considerava fosse essenziale dare alle cose un senso di solennità, alle realtà quotidiane una forma misteriosa. Questa sua lezione è stata magistralmente adottata da Domenico Gnoli, un pittore del quale la Fondazione Prada celebra in questi giorni a Milano l’opera con una mostra della quale, non avendola ancora visitata, posso solo dire essere oltremodo promettente.

Ho conosciuto l’opera di Gnoli nella prima casa editrice dove ho lavorato, che poco prima del mio ingresso aveva pubblicato una sontuosa monografia (testo di Vittorio Sgarbi) che recava in copertina un dettaglio di Chemisette verte, un quadro del 1967 che ritrae, appunto, il colletto rotondo e due bottoncini di madreperla di una camicetta di (presumo) seta stampata ton sur ton a motivi floreali. Niente di meno misterioso al mondo, vien da pensare, del dettaglio ingigantito di un capo d’abbigliamento. Ma – e non credo di essere io a dirlo, né da primo né da ultimo – quel che si deve guardare, nella pittura di Gnoli non è quel che c’è, ma quel che manca.

[Un suo collezionista, Claude Spaak, drammaturgo e zio della più nota Catherine, lo disse con maestria nella postfazione al libro sopra citato: «Nella modesta stanza campeggiava sul cavalletto Letto bianco, coperta chiara, guanciale immacolato recante peraltro l’impronta di una testa, che mi sconvolse. Qualcuno ci aveva dormito senza turbare l’ordine delle lenzuola? Qualcuno aveva lasciato quel giaciglio per non tornarvi mai più? Qualcuno che forse si aggirava non lontano? Si pretendeva che Gnoli fosse il pittore dello sguardo e io scoprivo il pittore dell’assenza.»]

Roba seria. Molto seria. Talmente seria da far pensare sia quasi impossibile trovare, in un artista tanto rigoroso un segnale di allegria, umorismo, ironia. La traccia di un sorriso.

Ero rimasto sorpreso, alcuni anni fa, nel trovare in vendita a un prezzo ragionevole l’edizione originale di un bel libro di grande formato, intitolato Orestes or the art of smiling by Domenico Gnoli, pubblicato da Simon and Schuster nel 1961. Lo ordinai a scatola chiusa, non sapendo bene che cosa fosse (catalogo di una mostra? Libro illustrato? Raccolta di tavole incise?) e che cosa aspettarmi. Certamente, la copertina non rimandava affatto a un’atmosfera gaia: un bel disegno a penna, ritoccato all’acquerello, con una mongolfiera (uno dei topoi dell’opera grafica di Gnoli) identificata da un cartiglio che riporta il numero 611 che sorvola una città rinascimentale, trasportando un giovane uomo ben vestito che, invece di guardare il panorama, sembra assorto in pensieri tutt’altro che lieti. Un seppia per il segno, un cilestrino e qualche tocco di paglierino a riempire, e il bianco della carta. Un segno fatto – sorprendentemente – di volute e tratteggi incrociati, fra il tardo Cinquecento e il primo Seicento, direi.

Il pacco viaggiò parecchio, il libro arrivò e si rivelò essere sontuoso e sconcertante: sul piano materiale, la sovraccoperta in carta naturale pesante (descritta sopra) celava una legatura con piatti in carta marcata a imitazione della tela di lino e dorso in seta, con impressioni pastello al piatto e al dorso e un interno stampato con ogni possibile cura da Amilcare Pizzi, una delle glorie della buona stampa italiana, su una carta marcata; su quello artistico, una invenzione spiritosa che rivela in Gnoli una prodigiosa fantasia di illustratore che Vittorio Sgarbi definì a suo tempo “ariostesca”. Un libro che, in fondo, rivela un’anima segreta – e segretamente lieve – di un pittore che raramente sembra toccato dall’ironia, tutto teso, come scrivevamo sopra, a “dare alle realtà quotidiane una forma misteriosa”.

Ma dal reale Gnoli dimostra di poter fuggire nella favola, scrivendo e illustrando Oreste, dove tornano tutti i temi più cari alla sua opera grafica, dal letto con i dieci materassi della principessa sul pisello, alle fantastiche architetture, alle gabbie vuote (che sono tantissime e stanno dappertutto: in cima a una collina o dentro un armadio aperto. E poi ci sono palchi di teatro affollati come le navi degli emigranti; un cavaliere romantico in bicicletta nella notte rischiarata dalla luna; uno straordinario campionario dei sorrisi che tappezzano come manifesti la parete dello studio del professor Krauss mentre cerca di far sorridere Oreste, il principe malinconico; i teatrini imprevedibili in cui scorrono stravaganti avventure da affrontare con un sorriso, a volte coraggioso, a volte misterioso.

La storia, della quale non dirò molto per non sottrarvi il piacere della scoperta se e mai leggerete il libro, è ambientata in un paese cinto da mura il cui nome è Terramafiusa, descritto in antiporta a volo d’uccello, alla maniera della colossale xilografia “Venetie MD” di Jacopo de’ Barbari, le cui matrici si possono vedere alla Querini Stampalia. [In realtà si possono vedere al Museo Correr. L'errore è stato notato da Debora Zamboni, che ringrazio. NdA]. E a ricordarci la passione dell’artista per il teatro, nella pagina iniziale ci vengono presentati i personaggi principali, posti sui rami di una pianta a metà strada fra l’albero delle vanità del Barone Rampante e l’albero di Jesse, fra due muri che fanno da quinte; sopra quello di destra si affaccia un personaggio che guarda: è Gnoli nell’unico ritratto di sé che ci abbia lasciato nei suoi disegni.