L'alfabeto del mondo

È uscito da poco in libreria Fuori da noi. Cose, piante, città, una raccolta di storie, divagazioni e riflessioni di Giovanna Zoboli edito da Nuova Editrice Berti. Tutti i sedici racconti mescolano libri e vicende autobiografiche in un intreccio che rende le trame irregolari e imprevedibili, un po' rabdomantiche, come alla ricerca di qualcosa, un ordine, un senso, che per un attimo possa illuminare l'esperienza così mobile e sfiuggente della vita. Molti di questi pezzi riguardano l'infanzia dell'autrice e le molte letture che ha incontrato nel corso del tempo della crescita (le fiabe, Pinin Carpi, I Quindici libri, Garcia Lorca, i giornaletti, i fumetti eccetera). Per questa ragione vi proponiamo questo titolo di cui abbiamo scelto un brano in lettura. Grazie a Federico Novaro e a Cecilia Mutti che hanno reso possibile questo libro. Grazie a Mariolina Bertini che ha scritto una bellissima prefazione. Il libro sarà presentato alla presenza dell'autrice questa sera 24 maggio, a Cantù, ore 20.30, presso Spazio Libri La Cornice, via Ospedale 8 (con Valentina Pellizzoni); mercoledì 29 maggio, a Milano, presso Spazio BK, via Lambertenghi 20 (con Massimo Scotti); e venerdì 31 maggio a Parma presso Nuova Editrice Berti, piazzale San Lorenzo 3c/d (con Caterina Bonetti).

[di Giovanna Zoboli]

Quando ancora non sapevo leggere, in prima elementare, mentre stavo imparando l’alfabeto c’è stato un momento in cui, come credo facciano tutti i bambini, mi allenavo a riconoscere le lettere utilizzando ogni occasione fornisse una palestra adeguata. La cosa che più mi piaceva erano le insegne dei negozi, in particolare quelle luminose. Non so se ho mai più provato una soddisfazione del genere, nel leggere. Nemmeno Madame Bovary, Gita al faro, Guerra e pace o Il rosso e il nero, sono stati alla pari delle insegne luminose. Il fatto è che quando faceva buio, nel tardo pomeriggio, d’inverno, a Milano, prendevano a splendere nei loro colori neon: certi rosa, rossi, certi azzurrini, blu che la nebbia trasformava in affermazioni enigmatiche. Il momento che prediligevo, era quando le adocchiavo dall’auto attraverso i finestrini rigati di pioggia: nella strada scura le parole si accendevano in rivoli luminosi.

L’aspetto più stupefacente fu, al tempo stesso, scoprire che quelli che mi erano sempre parsi messaggi inaccessibili, improvvisamente, grazie alla nuova pratica dell’alfabeto, manifestavano la loro voce. Non solo brillavano per magnificenza, ma parlavano. Parlavano al modo degli aiutanti magici nelle fiabe quando, a un certo punto, nel bosco, qualcuno che si è smarrito sente una vocina e capisce che è un topo a parlare, o una pianta, o un rivo d’acqua, e in quello stesso istante sa di essere salvo. Scopre, insomma, che tutto è vivo e niente perduto.

Forse a causa di questo avvio fantasmagorico, la lettura mi è sempre parsa una delle attività più adeguate alla vita che si possano intraprendere. Infatti, non ricordo un momento della mia esistenza, da che ho iniziato a leggere, in cui non abbia avuto un libro sul comodino.

Milanesissima e datata visione di insegne luminose.

Da piccola avevo un comodino arancione, tondo, con gli sportelli scorrevoli, e, sopra, una lampada fatta da due piccole sfere marroni. Erano arredi degli anni Settanta, componibili, comodi, con quel design pieno di ottimismo da uomo sulla Luna. Il comodino ogni tanto si metteva nella vasca da bagno e si lavava, guardando con indicibile piacere l’acqua grigia di polvere che se ne andava per lo scarico in un turbine di schiuma.

Cercavo di lavare anche gli innumerevoli peluche con cui ogni notte dividevo il mio sonno. All’inizio una famiglia mononucleare, che in breve tempo, adattandosi alle mode, divenne allargata, fino ad assumere le proporzioni di un reggimento. dovetti così stabilire dei turni per chi poteva stare sotto le coperte con me e chi doveva accontentarsi di stare sul copriletto, fuori, dove rimaneva qualche posto libero, come nel loggione nei teatri d’opera. Lavare i peluche era un’operazione oscena, che non dava la minima soddisfazione, anzi rivelava cose turpi a proposito della disposizione dei corpi a perdere la loro forma per trasformarsi in tristi e pesanti sacchi di materia inerte. Aspettavo con pazienza che, asciugandosi, i miei amici riprendessero l’aspetto consueto, ma il danno ormai era fatto, e la gioia andava da quel momento condivisa con il sentimento ambiguo di aver conosciuto un’inquietante verità.

Il tempo delle letture, dei libri sul comodino e delle dormite di gruppo si interrompeva con la partenza per le vacanze che per diversi anni furono sul litorale laziale e in Appennino. Dopo viaggi estenuanti e avventurosi o che tali mi parevano, raggiungevamo in automobile quelle case che io, segretamente, amavo più di quella dove abitavo. Il loro arredamento, composto da quel tipo di mobili che hanno una vocazione al nomadismo e traslocano da una casa all’altra secondo necessità, instaurava negli spazi un’atmosfera anarchica. Quelle stanze sistemate un po’ come capitava, dichiaravano l’avvento di un tempo in cui i consueti doveri, le abitudini familiari con il loro corredo di oggetti deputati non avevano corso. Liberati dalla tirannia dei ruoli, miracolati dalla presenza benefica di posate diseguali, piatti scompagnati, tende di seconda mano, tazze brutte vinte con i punti, noi abitanti, per contiguità e analogia col mondo delle suppellettili, diventavamo leggeri, festosi. Era seducente, rincuorante, sapere che l’estate aveva facoltà di sovvertire l’ordine, permettere nuove libertà a tutti: oggetti, luoghi, tempi, persone.

In vacanza, i libri avevano poco posto. Leggevo quello che trovavo in giro, ma svagatamente. Qualche libretto o librino acquistato in edicole incontrate di passaggio, piccolo, colorato, poco ingombrante, latore di storie che si consumavano in un baleno, come una caramella. Anche l’edicola, così, si faceva latrice di nuove usanze, svincolando i libri dagli scaffali di casa e dall’acquisto in libreria. Questo piacere del comprare i libri in edicola e in particolar modo in luoghi improbabili, sperduti, soprattutto di provincia, mi è rimasto.

Durante le vacanze trionfavano i giornalini, le figurine, gli album da colorare e ritagliare, i pastelli, la colla. Sopra tutti, regnava Miao di cui mia sorella praticava un culto fanatico e che affrontava metodicamente, costringendomi a lunghe e spossanti sedute creative. Accanto a tale incontrastato signore del nostro tempo, c’erano i fumetti, le riviste, e la Settimana enigmistica che era roba dei nostri genitori: mio padre da ragazzo era stato iscritto a un club di enigmisti; mia madre, benché priva di pedigree, è sempre stata una tenace e vorace risolutrice di enigmi – sciarade, rebus, parole crociate con e senza schema, indovinelli, giochi di parole – sempre affrontati con l’implacabile concretezza del suo culto per la letteralità.

Sulla Settimana enigmistica avevamo l’esclusiva di alcuni giochi che i nostri genitori lasciavano a noi: unire puntini, riempire a biro spazi vuoti, entrambi numerati. Sia nell’uno sia nell’altro caso tutto il piacere consisteva nel veder apparire un disegno dall’illeggibile e indistinta superficie.

A Milano, a mia madre arrivava in abbonamento Linus che trovavamo bellissimo e in più ci pareva una cosa da grandi; a noi era indirizzato, invece, Il Corriere dei Piccoli, per il quale ci accapigliavamo per chi avesse il diritto di leggerlo per prima. Ma quando eravamo via dalla nostra città, i fumetti a cui accedevamo erano portati dal caso. Abitavano nei portariviste della casa affittata al mare, o erano i Topolino e i Diabolik della casa in collina. Li leggeva nostro zio che, come molti uomini giganteschi, grandi, grossi e baffuti, alloggiava in sé un ragazzetto mangione, rumorosissimo e amante di scherzi e barzellette (in viaggio di nozze a Cortina con nostra zia, sorella di mio padre, una foto ritrae i novelli sposi uno di qui uno di là in tenuta alpina e fra loro un tipo travestito da orso).

A Milano, Topolino e Diabolik li leggevo solo a casa delle nostre cugine, che li collezionavano religiosamente e ce ne concedevano l’uso, di tanto in tanto. Erano disciplinatissime collezioniste, per esempio di francobolli. La loro collezione alloggiava in album immacolati e perfetti, divisi per Paesi e valori. Provammo a imitarle, ma la nostra collezione mostrò immediatamente tutte le pecche del dilettante allo sbaraglio. Non capivamo un acca di valori postali ed eravamo radicalmente disinteressate a un approccio scientifico. Non avevamo pazienza, non ci scambiavamo pezzi con altri bambini collezionisti che parevano contabili nel loro furore classificatorio. Dei francobolli ci piacevano solo i colori e le immagini, il modo in cui sulle buste delle lettere, in alto a destra, spuntavano, inopinatamente, funghi, re e regine, animali, piante, antichi filosofi, mestieri e monumenti storici.

I giornaletti che ci arrivavano con l’estate, ennesima manifestazione del disordine vacanziero, li leggevo con gusto, pur dentro di me giudicandoli letture di serie B rispetto ai fumetti milanesi. Ogni tanto fra loro, come un alieno, si infiltrava un Tiramolla, che

sfogliavamo piene di alterigia, fieramente disgustate, odiandone ogni nome, ogni personaggio (la spaventosa Nonna Abelarda, su tutti), ogni parola, storia, assaporando il sottile piacere che dà l’acribia critica.

Diabolik lo trovavo leggibile, ma alla fine mi sembrava sempre uguale, e mi lasciava perplessa quella abnorme quantità di sopracciglia ad ala di gabbiano a sottolineare l’impenetrabile personalità dei due coniugi criminali e dell’ispettore che li braccava senza risultati. Di Topolino mi piaceva lo schiamazzo corale dei personaggi, le case color ghiacciolo di Topolinia, i guanti gialli che tutti in quella città portavano come fosse normale, le automobili, le file di salsicce che rubava Pluto, e le torte che Nonna Papera metteva a raffreddare sul davanzale della finestra (infatti, un Natale mi feci regalare il suo manuale di ricette che misi anche in pratica con soddisfazione). Mio zio leggeva anche Tex, ma noi quel fumetto non lo toccavamo: sarebbe stato chiedere troppo. un abisso di genere invalicabile ci separava da quelle storie noiosissime in cui a malapena apparivano personaggi femminili.