Nel divagare beato. La biblioteca infinita di Antonio Faeti

[di Otto Gabos]

Ho assimilato da Antonio Faeti il divagare delle parole, l’inseguimento dei concetti che si inoltrano in territori sconosciuti su crinali impervi, il perdersi per poi scoprire invece di non avere mai perso la rotta. Le sue lezioni che seguivo da studente del DAMS erano così. Da ascoltare rapiti, passeggeri non paganti verso altri mondi o, questi mondi, osservati da punti di vista inediti. Quando citava gli innumerevoli fait divers a volte nascosti tra le pieghe segrete di un racconto, mi sentivo autorizzato ad applicare lo stesso procedimento alle cose che scribacchiavo, progetti di storie che sarebbero potuti essere fumetti o romanzo e che in gran parte sono rimasti progetti. Eppure l’inconsueto, il perturbante, lo strano, il curioso, il disturbante, tutto ciò che sta in bilico in definitiva, il weird come di fatto viene marchiato questa grande famiglia dell’immaginario, era ed è ineluttabilmente la mia casa. Quando scrivo, disegno o faccio lezione all’Accademia di Belle Arti mi viene spontaneo ripercorrere negli atteggiamenti e procedimenti lo stesso metodo. Non è cercato, ma funziona così.

Quando, dopo parecchi anni dopo, nella primavera del 2022, ho varcato di nuovo la soglia di uno degli appartamenti dove vivono i libri di Faeti è stato come immergersi nella materializzazione fisica di tutti quegli adoratissimi immaginari. Ero a casa.

La casa di Faeti è un arcipelago formato da appartamenti, cantine, garage dove la popolazione è composta da libri, albi illustrati, fumetti, scritti vari, riviste, locandine, disegni, quadri, memorabilia, soldatini, pupazzetti che si snodano in sentieri caotici per i poco attenti, luminosi per gli illuminati. È quanto di più simile al magico abbia mai visto al di fuori di una condizione museale, architettonica o scenografica. Stordito da una quantità di madeleine spropositata è stato impossibile non godere di quella seduzione di storie. Forse sarei rimasto lì per sempre, magari trasformato in un soldatino di un pirata della Malesia.

L’occasione di questo ritorno mi è stata regalata da Danilo Caracciolo, regista di documentari e caro amico, quando, in una telefonata, mi invitò a collaborare per un film su Antonio Faeti che stava progettando con Giorgia Grilli, per conto dell’Università di Bologna.

“Ma io non faccio film.”

“Ma tu disegni e conosci l’immaginario di Faeti.”

“È un immaginario infinito, ci sarà da perdersi.”

E sarebbe stato ancora il perdersi il fil rouge da seguire.

Per un attimo mi balocco con l’idea di vagare per la casa con un taccuino e fare bozzetti estemporanei, ma è troppo tutto e desisto quasi immediatamente, ubriacato dal tripudio di spunti possibili da trasformare in immagini, quindi in illustrazioni.

Faeti per la bisogna mi fornì di uno dei suoi classici quaderni di cui cura di persona la copertina, ma non ho osato contaminarlo. L’ho aggiunto come una reliquia alla collezione di quaderni che compro quando sono in viaggio. Allora, come faccio quasi sempre, ricorro alla macchina fotografica e allo smartphone e testimonio da vero invasato ciò che occhi e memoria limitati non potrebbero fare mai con la stessa efficacia.

Avrei disegnato volentieri uno scenario enciclopedico, mi piace disegnare la costola dei libri con i titoli, gli scaffali traboccanti, le schiere di soldatini.

Ma alla fine non l’ho fatto perché era più urgente dare forma a frammenti del discorso, sopratutto del ricordo. Durante le sessioni di ripresa del film sono emersi momenti evocativi che non trovavano un corrispettivo cinematografico e sarebbe stato un peccato lasciarli andare alla deriva. Il mio compito, che fino a quel momento facevo fatica a formalizzare, si è rivelato quello di reimmaginare quei momenti, filtrarli con la mia sensibilità e viaggiare a ritroso nel tempo, in un’infanzia e adolescenza prossima a quella dei miei genitori.

In una tipica mattina d’estate bolognese, ossia dominata da un’afa feroce, ho vagato per via Orfeo, dove Faeti è cresciuto e ho fotografato muri e facciate di palazzi giallo ocra. Ho superato i portoni chiusi, perché in città i portoni sono sempre chiusi, per avventurarmi nei cortili che sarebbero diventati il palcoscenico ideale.

Ho messo in scena frammenti salgariani, libraie imponenti, vecchie radio che infiammavano la fantasia. Per calarmi in quel mondo lontano sono tornato bambino, ho frequentato di nuovo i cortili della mia infanzia, ho sfogliato ancora una volta i volumetti tascabili di Salgari delle Edizioni del Gabbiano con le incredibili copertine di Carlo Jacono. Mi sono sovrapposto all’infanzia di mio padre non tanto distante anagraficamente da quella di Faeti. Poi, quando sono riemerso carico di suggestioni, le ho trasferite su carta. Ho disegnato con pochi strumenti: grafite di vario spessore e durezza, soprattutto 2B e 6B e carta liscia da 200 grammi. Ci vuole pazienza con la matita. Sembra un metodo rapido e lo è, quando si progetta, ma poi i tempi si allungano per definire l’indefinito. La mano si sporca, il viso si sporca e sopratutto il foglio si sporca di argento plumbeo, offuscando le immagini. La patina di grigio diventa materia prima da scavare con la gomma per lasciare affiorare le luci.

Il caldo implacabile di luglio è stato il mio nemico, ma anche fedele alleato in giorni che non finivano mai e mi regalavano più tempo. A volte penso a cosa sarebbero i disegni, senza l’aggravio da scadenze crudeli. Non saprei davvero. Forse avrei continuato a disegnare, magari avrei realizzato abbastanza materiale da farci un libro a parte.

Poi le illustrazioni le ho elaborate in digitale come fossi al mixer di uno studio di incisione. Per me disegnare è abbastanza simile a suonare. Dopo di che ho spedito i file a Danilo che ha usato le alchimie del montaggio per compiere la magia di trasformare quei frammenti sparsi in un film e quando ho visto per la prima volta il girato, non del tutto compiuto, ma già abbastanza definito, mi sono commosso. Davvero.

Eravamo davvero nel mondo di Antonio Faeti e il giorno della prima in Cineteca gli applausi scroscianti del pubblico alzato in piedi in una standing ovation per celebrare Continuare il racconto erano tutti meritati. Dal primo all’ultimo, che non voleva finire mai.

 

Produzione: Università di Bologna, Dipartmento di Scienze dell’Educazione “G.M.Bertin”

Con il contributo del Comune di Bologna (Progetto finanziato dai Fondi Strutturali e di Investimento Europei nell’ambito della risposta dell’Unione alla pandemia di COVID-19)

Con: Antonio Faeti e Annamaria Rossi

Un film di: Danilo Caracciolo e Giorgia Grilli

Regia e montaggio: Danilo Caracciolo

Progetto scientifico e interviste: Giorgia Grilli

Assistente alla ricerca: Ilaria Dindelli

Fotografia: Andrea Dalpian

Musiche originali: Riccardo Nanni e Giancarlo Di Maria

Primo Violino e Violino Solista: Valentino Corvino

Orchestra SonaCorda ensamble

Post-produzione audio: Riccardo Nanni (7 Floor S.A.S)

Illustrazioni: Otto Gabos

Color correction: Andrea Dalpian

Disegni originali: Antonio Faeti

Illustrazioni: Otto Gabos

Fonici: Daniele Cutrufo, Fabio Vassallo

Lettura lettere di Calvino, Fellini e Rodari : Andrea Ascolese

Produzione esecutiva: SmaIL per Università di Bologna , Giusi Santoro per POPCult