Storie che immaginano teatri

[di Federica Iacobelli]

1.

I gabbiani

Pensata e sognata per molti anni, cercata intanto per altre vie, sbirciata e studiata in qualche sua esistenza affine dentro e fuori dai confini italiani, desiderata ma anche messa in discussione, interrogata, capovolta, allontanata e riavvicinata per guardarla da ogni lato e da diverse distanze, una nuova collana è venuta al mondo, e si chiama I gabbiani: letteratura teatrale per giovani lettori.

Nati nella casa delle coraggiose Edizioni Primavera, i gabbiani cominciano il viaggio con tre titoli, in uscita nel difficile aprile che è alle porte, e poi con altri tre, anzi quattro probabilmente, entro la fine del Duemilaventi. Sono e saranno storie provenienti da tutto il mondo, da tutte le lingue, purché nella forma di una drammaturgia, ovvero fatte di personaggi, monologhi, dialoghi, presenze, assenze, tempi, spazi, ritmi e silenzi. Potranno essere copioni di spettacoli già andati in scena, racconti scritti per il teatro da narratori o sceneggiatori o poeti, pièce che non siano ancora state rappresentate, opere di drammaturghi che siano state pubblicate in altri paesi; apparterranno al nostro tempo, o a qualche tempo fa; saranno, sempre, testi teatrali che ci appaiano emozionanti e interessanti anche solo da leggere. Perché i gabbiani sono libri, non teatro, anche se dal teatro arrivano o verso il teatro vanno. E nello spazio/tempo che sta intorno alla loro edizione, provocheranno magari altri viaggi e altri voli.

Il gabbiano di Anton Čechov, simbolo del Teatro d'arte di Mosca.

Dicendo “per giovani lettori” abbiamo in mente i bambini, i ragazzi, gli adolescenti: scritture in forma di teatro che siano adatte soprattutto a loro. Ma in fondo, a pensarci, i lettori sono tutti giovani di fronte alla letteratura teatrale: perché queste parole che immaginano teatri, queste situazioni e vicende che lasciano molto bianco in una pagina, questi pezzi scritti per uno spazio ora buio ora illuminato, per sequenze di scene, fuori e dentro, fantasmi di voci che cercano linguaggi per mimare, evocare, dire emozioni, per avviare o schivare una conversazione, per portare al culmine un conflitto o costruire un’immagine o mettere in moto un’azione, non sono così avvezzi a fissarsi sulla carta.

Eppure proprio sulla carta c’è una grande libertà, tutta da esplorare. Che il secolo Novecento abbia imposto la scrittura del regista, che l’animazione teatrale abbia ripensato la creazione del testo collegandola al lavoro sul palco e all’improvvisazione, che il Duemila sia tornato all’autorialità del performer-attore, che la pura drammaturgia sia progressivamente emigrata dal teatro verso il cinema e la tv, non ha cambiato il nucleo delle cose, ma le ha rese solo più ricche e complesse. Esistono ancora e sempre autori che scrivono le loro storie, le loro poesie, i loro punti di vista sul mondo, in scene, didascalie, battute, attraversando generi e modelli drammaturgici, muovendo o guardando muoversi eroi e antieroi, personaggi e antipersonaggi, ricordandoci con le nude voci, le pure azioni, i pensieri espressi davanti a un pubblico, che ogni storia è piccola, limitata nella misura e nei temi, ma che pure ciascuna, proprio dai suoi limiti e dalla sua piccolezza, può illuminare in pochi istanti un angolo dell’umanità e del nostro mondo. Esistono ancora, insomma, narrazioni che si muovono tra uno spazio della mente e uno spazio reale, e che i libri possono rendere disponibili alla lettura, solitaria o collettiva, silenziosa o proferita, trasformata in recita o meglio in gioco, offrendo magari anche ai teatranti drammaturgie finora sconosciute.

2.

Editoria e teatro

Nelle intenzioni degli editori Alessandro Carofano e Claudia Cioffi, che con cura ed entusiasmo l’hanno accolta, la nostra collana vuole essere uno strumento per disegnare un nuovo spazio nel mercato editoriale italiano: «per farlo - spiegano - ci piaceva l’idea di ricreare un rapporto tra editoria e letteratura teatrale, restituendo agli autori un ruolo principale, riconosciuto ampiamente ai drammaturghi fino alla metà del secolo scorso. La collana è diventata l’occasione per lavorare ancora sulla forza della parola, che per la prima volta nel nostro catalogo non trova sponda nelle illustrazioni, ma vive “una doppia gloria” perché è insieme scritta e pronunciata. Testi recitabili, leggibili ad alta voce senza perdere mai ritmo e struttura, anzi cercando nuovi metodi grafici per la scrittura delle battute nella pagina».

Tra teatro e editoria per ragazzi, in Italia, qualcosa di tanto in tanto è accaduta. Nel Duemilaquattro nasceva la collana Colpi di scena di Nuove Edizioni Romane: grandi classici del teatro e nuovi titoli che erano spesso adattamenti di racconti in prosa con scrittori di talento come Roberto Piumini. Oggi quella collana è rinata con il nome Sipario! per l’editore Giunti e correda i testi di un apparato per la messa in scena, considerandoli come copioni di scrittori italiani per piccoli attori in erba. La collana Fiabe a teatro di Fatatrac ha titoli illustrati, tutti adattamenti di fiabe. Le Edizioni Corsare accolgono una collana di testi teatrali, saggi, laboratori e “teatri di carta” illustrati: si chiama Facciamo teatro!, un titolo che ne stabilisce l’intento legato all’animazione e al laboratorio. Esistono poi il Teatro per bambini dell’editore Erga, che varia tra musica, adattamenti, fiabe; e Musica e teatro da giocare dell’editore ETS, che ha anche un’altra collana, Trame su misura, con l’obiettivo dichiarato dell’animazione multidisciplinare. La raffinata casa editrice toscana Titivillus, specializzata in editoria teatrale, ha invece nel suo catalogo I diavoletti, che si strutturano per fasce di età e recuperano un patrimonio di testi dagli spettacoli teatrali italiani per ragazzi diluendoli nella narrazione e illustrandoli, ovvero rendendoli, sulla carta, più narrativi che teatrali. Il lavoro sulla drammaturgia come forma letteraria, insomma, sembra ancora abbastanza lontano, in Italia, sia dal cosiddetto “teatro ragazzi” che dall’editoria per i lettori più giovani. Forse qualcosa di vitale, in questo senso, si trova andando a sfogliare i volumi di Briciole Edizioni, nati decenni fa nella casa del Teatro delle Briciole di Parma. E un magnifico lavoro di ricerca, traduzione e edizione era stato portato avanti grazie al progetto Intercity Connections, pensato per ragazzi tra i quattordici e i diciannove anni, una collaborazione tra il Royal National Theatre di Londra e il Teatro della Limonaia di Firenze dalla quale erano nati nel Duemilaquattro l’antologia  Intercity Connections - Nuovi testi per nuovi interpreti, a cura di Barbara Nativi e Rodolfo di Giammarco per i tipi di Editoria & Spettacolo, e negli stessi anni una collana di testi di drammaturgia contemporanea anglosassone tradotti da Barbara Nativi o da Luca Scarlini e pubblicati da AdnKronos Libri. L’unico tentativo solo editoriale, ovvero non legato ai festival e ai teatri, a parte Il cigno nero da me stessa tentato quindici anni fa con l’editore fiorentino Maria Margherita Bulgarini e il traduttore-drammaturgo Emiliano Schmidt Fiori, resta quello recente di Cleup (Cooperativa Libraria dell’Università di Padova), la cui collana Stelle di carta. Parole in scena si è fermata a due titoli, entrambi tradotti, non a caso, dal francese.

Non a caso perché, forte di una tradizione di teatro di parola, la Francia lavora da almeno trent’anni sui rapporti tra editoria e letteratura teatrale jeune public, sostenendo dalla fine degli anni ottanta del novecento la pubblicazione di opere teatrali per bambini, ragazzi e adolescenti, diffondendo una ricerca sulle diverse drammaturgie dei diversi paesi e continenti, favorendo la scrittura drammaturgica per i giovani da parte di autori e scrittori anche “per grandi”, francesi e non solo, come Jean Claude Carrière, Jon Fosse, Suzanne Lebeau, Fabrice Melquiot, e coinvolgendo in questo processo un numero sempre maggiore di teatri, biblioteche, scuole e soprattutto editori: L’Arche, Les Editions Theatrales, Les Editions du Bonhomme vert, Espace 34, Les Solitaires Intepestifs, le collane Folio Junior Theatre di Gallimard o Heyoka Jeunesse di Actes Sud, per dirne tanti, e nemmeno tutti.

3.

Karin Serres e David Almond

In onore di questa virtuosa storia d’oltralpe, tra i primi tre gabbiani c’è un testo la cui vita si è giocata, prima che nei teatri, proprio tra le pagine di una delle collane francesi dedicate, quella dell’editore L’école des loisirs. Si tratta di Louise / les ours, opera della drammaturga, scenografa, regista e scrittrice Karin Serres, che nella nostra traduzione è diventato Lucy / gli orsi (su Karin Serres in questo blog avevo già scritto qui).

Karin Serres, Lucy /Gli orsi (Edizioni Primavera, 2020, illustrazione di copertina di Daniela Berti).

Karin Serres, Louise les ours (théâtre l'école des loisirs, 2006).

Locandina teatrale per Louise les ours, di François Caspar.

«Ho la fortuna di essere pubblicata da diverse case editrici, e piuttosto spesso, - mi ha raccontato Karin Serres rispondendo a qualche mia domanda - il che aiuta i miei testi non ancora messi in scena a trovare nuove opportunità per essere letti da registi che non conosco, da gruppi amatoriali, dai ragazzi nelle scuole. I miei testi non sono mai veramente finiti, ma per l’editing, perché diventino libri, è necessario congelarli in una versione che appaia definitiva. Poi però, quando faccio letture pubbliche delle mie pièce pubblicate, anche anni dopo, leggendo direttamente dai libri, continuo a modificare e cancellare il testo sulle bellissime pagine stampate. Il teatro per me è una scrittura frammentata, una scrittura con dei buchi, in cui so di dover lasciare spazio a coloro che gli daranno vita in futuro: i lettori, i registi, gli artisti, gli attori. È importante non dire tutto, ma solo l’essenziale. Evocare, per quanto possibile; aprire delle possibilità e lasciare aria, intorno, in modo che la storia possa respirare, una volta trasmessa a chi la farà risuonare in voci e corpi. Romanzo e teatro sono due forme letterarie radicalmente diverse, che generano processi di scrittura radicalmente diversi, eppure possono essere riassunti con la medesima azione: raccontare storie, personaggi e mondi che vivono nella mia testa a delle persone sconosciute, nella speranza che queste ne siano colpite e influenzate in qualche misura».

Qualcosa di simile dichiara anche David Almond, lo scrittore inglese di cui i gabbiani hanno scovato e pubblicato l’unica storia pensata come drammaturgia fin dalla sua origine. «Ho cominciato a scrivere Wild Girl, Wild Boy come se dovesse essere un racconto in prosa, - scrive l’autore nella postfazione inglese a questa sua storia teatrale - da solo, nel mio studio a Newcastle. Ho immaginato subito uno spazio vuoto, un palcoscenico. Ho cominciato a scrivere le parole di Elaine. Avevo un’idea di come Elaine doveva apparire, del timbro della sua voce, dell’aspetto della sua stanza, del suo orto, della madre e del padre, e così del suono delle loro parole. Loro si muovevano e parlavano e ballavano in quello spazio simile a un palco che si chiariva a poco a poco nella mia mente. Ma a differenza delle storie in prosa, che vanno avanti riga dopo riga dall’angolo in alto a sinistra a quello in basso a destra, tutto lo spazio riempito dallo scrittore, una storia in forma teatrale si sposta lungo la pagina in brevi raffiche circondate da molto spazio. Dialoghi, nomi, sintetiche direzioni spaziali, ed è tutto. Lo spazio intorno alle parole lo riempiranno il regista, gli attori, le scenografie, i suoni, le luci. Mi sono ritrovato presto fuori dal mio studio, con uno script completato a metà, e poi su un treno diretto a Londra, per scoprire cosa sarebbe successo alla mia storia quando avesse cominciato a essere libera».

David Almond, Wild girl, Wild boy (Edizioni Primavera, 2020, illustrazione di copertina di Luca Tagliafico).

4.

I figli di Medea

Parlando di drammi, però, è sempre bene sdrammatizzare. Ricordarsi per esempio che Il gabbiano evocato dal nome della nostra collana, la pièce scritta da Anton Cechov negli ultimi anni del secolo Ottocento e ancora oggi meravigliosa lettura, fu un clamoroso insuccesso nella sua prima rappresentazione, a San Pietroburgo, prima che i maestri Stanislavskij e Dancenko la rimettessero in scena al Teatro d’arte di Mosca conducendola a un inaspettato trionfo. O, ancora, mettere in conto l’effetto dirompente, le emozioni contrastanti che può suscitare il nostro primo titolo, I figli di Medea, una pièce che provocò scandalo e scalpore anche quando per la prima volta fu messa in scena, nel 1975, giacché rende protagonisti quella bambina e quel bambino che nella tragedia di Euripide, davanti all’Atene del quinto secolo a.C., venivano uccisi, innocenti, dalla furia di una madre ferita.

Ma I figli di Medea, un testo nato quarantacinque anni fa, è una pietra miliare della drammaturgia per e con i bambini: un piccolo classico ancora poco conosciuto, una pièce sorprendente, divertente, commovente, lucida e ancora attuale, che ho potuto leggere per la prima volta in una traduzione inglese inedita. I figli di Medea fu scritto da Per Lysander e da Suzanne Osten, pioniera, quest’ultima, del teatro politico per i giovani e fondatrice della sezione young people del teatro nazionale di Stoccolma, l’Unga Klara, che ha diretto fino a pochi anni fa. Fu scritto lavorando per mesi sulla Medea di Euripide con tre classi di bambini e con alcuni attori: leggendo, improvvisando, facendosi e facendo domande.

I figli di Medea: locandine teatrali e interpretazioni.

Suzanne Osten all'Unga Klara.

«Tornare nel 1975 alla poetica di Aristotele e al concetto di catarsi con una ricerca sulle tragedie per bambini può sembrare bizzarro - spiegava Suzanne Osten raccontando quell’esperienza nella raccolta dei suoi lavori teatrali per bambini dell’editore svedese Themis Förlag - ma è una scelta basata su un’analisi che ci ha portato a concludere che il concetto stesso di infanzia ha subito una trasformazione. Secondo noi l’infanzia non dovrebbe essere considerata una categoria solo biologica, ma anche storicamente e socialmente determinata. Rinchiusi come sono in un moderno mondo infantile, e separati dalla società degli adulti, i bambini si ritrovano ad avere un ruolo storico completamente cambiato. In una società moderna come la nostra sono bambini, senza alcun compito produttivo. Raccontare ai bambini i destini di bambini significa in una certa misura descrivere l’essere umano e gli dèi capricciosi della tragedia greca. Prendere sul serio le esperienze dei bambini significa fornire loro dei “drammi del destino” sulle loro limitate possibilità di agire nel mondo degli adulti: la tragedia infantile! Dal “dare ai bambini quello che dovrebbero sapere come adulti in fieri”, con la forte convinzione che tutto potesse essere spiegato razionalmente, siamo passati a descrivere il modo in cui i bambini vivono il mondo. Questo comprende anche gli aspetti “prerazionali”, le esperienze infantili preverbali, e l’idea di creare un genere di arte che risponde a queste esperienze. È sicuramente il momento di affermare il diritto dei bambini alle loro esperienze di bambini, ma è chiaro che questo non è privo di rischi, perché provoca gli adulti (gli dèi), con i loro profondi sensi di colpa dovuti al fatto che trascurano i figli. […] Una domanda che ricorre di continuo è se i bambini sono bambini prima di appartenere a una classe sociale. Esiste una “bambinanza” che stabilisce un legame più forte dell’appartenenza dei genitori a una classe sociale? Dato che la compagnia Unga Klara fa teatro per le scuole, e dunque lavora per bambini di tutte le classi sociali, abbiamo prodotto soprattutto pièce in cui i problemi riguardano i “bambini”. E da lì abbiamo anche sviluppato il nostro lavoro teorico. Per quanto riguarda le vie d’uscita “costruttive” per i bambini nella nostra moderna società suddivisa in classi, durante il lavoro su I figli di Medea abbiamo costruito una teoria per la “rielaborazione”. L’eroe di Comma 22 di Joseph Heller usava nella fantasia un gommone per tutti i piani di fuga dal suo inferno in guerra. Nella nostra pièce mostriamo i modi in cui i bambini progettano di fuggire dal conflitto in cui sono coinvolti. Vogliono scappare, allontanarsi grazie al sogno, suicidarsi. Ma alla fine avranno preso le distanze da tutte queste vie di fuga. Nella scena conclusiva affrontano i genitori e si ‘liberano’ della fase più acuta del conflitto. Abbiamo costruito una fine utopistica, perché la nostra tragedia infantile si svolge sul palcoscenico e non nella realtà, ma per il pubblico la liberazione consiste nell’attraversare, insieme ai bambini in scena, tutte le possibilità di fuga che esistono, per poi trovarsi faccia a faccia con la propria realtà».

Le parole di Suzanne Osten vanno ben oltre la contingenza artistica e politica alla quale fanno riferimento: ci dicono che, al di là dell’idea di teatro o della pratica che le guidino, le scritture drammaturgiche cercate con il rigore, l’autenticità, la tensione di indagine sostanziale e formale che ogni letteratura richiede, possono sconfinare e farci sconfinare, in tanti sensi.

Per Lysander e Suzanne Osten, I figli di Medea (Edizioni Primavera, 2020, illustrazione di copertina di Viola Niccolai).

5.

In viaggio

Sarebbe auspicabile, nel tempo, nel loro volo tra cielo mare e terra, che anche i gabbiani sconfinassero e ci facessero sconfinare. Che provocassero nuove scritture, dialoghi inediti con chi il teatro lo fa, incontri inaspettati tra letteratura e teatro, ricerche e riflessioni sulle tante possibili forme che la drammaturgia assume e cerca, specie quando è destinata ai bambini, e quindi esperimenti sulla lingua e le lingue, sulla lettura, su che cosa significhi essere lettori giovani.

Penso alla ricerca di Chiara Guidi con Societas, alle sue riscritture delle fiabe, al suo racconto di lavoro e di senso fatto insieme a Lucia Amara e pubblicato proprio in questi giorni con il titolo Teatro Infantile da Luca Sossella Editore. Ripenso a un bel film del 2003, L’esquive di Abdel Kechiche (La schivata, in italiano), in cui l’amore del timido, sofferente Krimo per la spavalda e talentuosa compagna di scuola Lydia, nella banlieu di Parigi, trovava finalmente gesti e parole grazie a un classico della letteratura teatrale letto e poi messo in scena in classe, Il gioco dell’amore e del caso di Marivaux. Penso al legame profondo, forse non ancora abbastanza studiato, tra lo scrittore Gianni Rodari e il teatro. Penso al lavoro con le scuole che porta avanti a Ravenna il Teatro delle Albe con la non-scuola, grazie alla quale è nato anche il progetto napoletano Arrevuoto, o al più recente laboratorio di Generazioni a Teatro, creato dal Teatro Comunale Laura Betti di Casalecchio di Reno (Bologna) e ATER Fondazione con diversi artisti, insegnanti e classi del territorio. Penso al Premio Scenario Infanzia, che sostiene progetti e visioni di teatro per l’infanzia e l’adolescenza, affiancando dal duemilasei l’ormai storico Premio Scenario. Penso alla Casa del Teatro Ragazzi e Giovani di Torino e al patrimonio della Biblioteca del Centro Studi Teatro Ragazzi Gian Renzo Morteo, che andranno visitati e esplorati. Penso all’impegno di ASSITEJ, l’associazione internazionale che in tutto il mondo unisce teatri, organizzazioni e singoli individui nel nome del teatro per bambini e ragazzi. Ripenso, infine, a Sensibili ai confini, un piccolo illuminante saggio scritto un po’ di tempo fa dallo sceneggiatore Nicola Lusuardi che  veniva, all’epoca, da una lunga esperienza di scrittore-drammaturgo con i principali teatri per ragazzi italiani. Lusuardi si diceva convinto dell’importanza di una produzione di soggetti originali per il teatro rivolto ai giovani, affinché diventasse «statisticamente probabile la fioritura di talenti, la scoperta di modi nuovi e l’affermazione di opere finalmente libere dalle catene ideologiche». E poche pagine più su ricordava che «un maestro della regia contemporanea come Peter Brook mostra i suoi spettacoli a una platea di bambini quando sono in una fase avanzata dell’allestimento, ma devono ancora percorrere il tratto finale e definitivo della strada che li porta al debutto. Brook studia le reazioni dei bambini, ritenendole esemplari e significative dei problemi che un pubblico adulto potrebbe filtrare e snaturare attraverso l’applicazione di filtri intellettuali o comportamentali troppo condizionati. I bambini infatti sono altamente reattivi alle emergenze primarie dei confini teatrali che l’adulto ha imparato a contenere in precisi codici di comportamento».

La schivata, di Abdel Kechiche.

Ripenso a tutto questo, a tutto il resto, e mi dico che allora, forse, anche una scrittura teatrale pensata per lettori bambini, data in forma di libro ai giovani lettori, potrebbe diventare uno stimolo a togliere filtri, a cercare nuovi codici, a spezzare catene, a costruire ponti, ad aprire porte. Forse allora, mi dico, far viaggiare i gabbiani potrebbe rivelarsi, nel suo piccolo, una cosa importante.

[NdA: la traduzione dallo svedese del testo citato di Suzanne Osten è di Laura Cangemi; sono mie, invece, e perdonatene l’approssimazione, le traduzioni dal francese e dall’inglese dei testi citati di Karin Serres e David Almond.]