Notizie da due mesi di scuola

o della sindrome di Geppetto ovvero, quando si rompe il dispositivo centralizzato

[di Michele Longo]

Come va la scuola? Cioè la scuola quest’anno, 2020/21, quella con le mascherine, la stanza Covid, le quarantene e tutto il resto?

Non so quasi niente di come va la scuola italiana, o la scuola primaria italiana; so poco anche della scuola dove lavoro. Ho solo voglia di raccontare qualcosa di questi due mesi per noi: un gruppo di venti bambini una maestra e un maestro in quarta elementare. So che siamo molto fortunati perché finora stiamo tutti bene, e per molti altri motivi. Un giorno, nel rumoroso momento del cambio turno, la maestra Giovanna e io ci siam guardati e abbiamo detto simultaneamente, come leggendo dalla stessa riga di pentagramma: «Che bello essere qui». Così abbiamo scoperto che tutti e due, ogni giorno, silenziosamente, avevamo ringraziato per essere di nuovo a scuola. La maestra Giovanna fa matematica e affini, io italiano e affini, la classe non è la mia, è la nostra.

Per un po’, all’inizio, i bambini non li ho visti. Né uno per uno, né come gruppo. Li sentivo. Li sentivo rumoreggiare continuamente, un effetto sonoro cui avevo perso l’abitudine: come un bidone pieno di biglie agitato con vigore da un gigante su un’opera orchestrale rumorosissima a vostra scelta - io mi permetto di suggerire qualcosa di Xenakis. Li sentivo ogni volta che in cinque o sei venivano a dirmi ciascuno una cosa importantissima e improrogabile mentre io andavo verso l’armadio per chiuderlo o verso la finestra per aprirla e arieggiare, loro mi seguivano dandosi sulla voce in crescendo finché nessuno era riuscito a dirmi niente e io avevo perso la strada per l’armadio, quella per la finestra, e la ragione per cui ero partito. Li guardavo occhiuto mentre ripetevo con fare da giandarme le raccomandazioni sulla mascherina, il distanziamento, l’igienizzazione delle mani; non li guardavo per vederli ma per capire se mi stavano ascoltando. Boh.

Ho capito che nei tre mesi senza scuola (la DAD non conta) si era rotto il “dispositivo centralizzato”: altroché lacune in ortografia e buchi nella tabellina dell’otto. Il “dispositivo centralizzato” non so se si chiama proprio così, se i manuali ne parlano, ma tutte le maestre e tutti gli scolari sanno cos’è. È quella cosa per cui la maestra a un certo momento si mette in un certo punto dell’aula (preferibilmente sempre lo stesso) e dopo un po’ di richiami a vario volume i bambini si accorgono che la maestra è lì, e che deve dire qualcosa. Allora un po’ alla volta smettono di parlare tra loro e iniziano a darsi da fare con le forbici, coi Gormiti, con le fosse nasali, o a guardare i disegni che emergono dalla superficie del banco. Se la maestra si trova sotto i maligni influssi dell’ego può spingersi a pretendere che i bambini la guardino. «Voglio fare la televisione, non la radio!» tuonava una mia vecchia collega. Io ci ho messo mesi per capire che non era l’annuncio di una svolta di carriera; i bambini non so. Immagino che la più moderna pedagogia consideri il dispositivo centralizzato come un ferro vecchio, un aggeggio della cassetta degli attrezzi della scuola trasmissiva, quella centrata sul maestro che fa la lezione frontale, mentre il maestro della pedagogia più aggiornata deve imparare a fare tappezzeria e tutt’al più fungere da facilitatore dei processi di spontaneo trasferimento osmotico orizzontale dei saperi eccetera. La Pedagogia più aggiornata vorrei vederla all’opera un pomeriggio in una prima elementare dove nessuno è passato a installare l’impianto centralizzato. Immagino i commessi che cercano di stanarla dal bagno degli insegnanti e la collega della classe accanto che le passa i kleenex da sotto la porta.

Quando siamo riusciti a reinstallare almeno parzialmente il dispositivo centralizzato e a far routine dei pilastri della prevenzione, ho iniziato finalmente a guardarli davvero, questi nostri bambini. Mi sono sembrati uguali all’ultima volta che li avevo visti, sei mesi prima. Non erano diventati grandi quanto e come avevo immaginato io. Dal muretto delle maestre in cortile ho versato qualche stilla di disappunto e di disappointment. Eppure cominciavo a sentire sulla pelle il tepore emanato dalla nebula, la luce che mi attraversava il petto. Nei giorni prima dell’apertura immaginavo vagamente che sarebbe stato necessario dare spazio tempo e occasioni al gruppo per rinsaldarsi. Invece erano lì, pronti, insieme. Un gruppo di bambine e bambini di 8/9 anni un po’ travolgente, prossimo al punto di fusione. Affetto fluttuante. Nomi chiamati da voci chiamanti. Una testa appoggiata su un’altra guardando un libro, tre o quattro seduti fianco a fianco abbracciati per le spalle, sette o otto seduti per terra con le gambe divaricate a formare una stella tenuta insieme dal contatto delle punte dei piedi. «Le mascherine bene sul naso!» «Distanziatevi almeno un po’!». Anche nella situazione strana e claustrofobica dei primi giorni, senza spazio per muoversi, senza giocattoli comuni, si sbrogliavano autonomamente una buona quota di conflitti. Gianni esplode per una storia di Hot Wheels, sto ai box pronto a intervenire, arriva Leo che lo chiama con un diminutivo affettuoso (mai sentito!) e lo riporta nel gioco. Dopo qualche giorno di attesa e squilli di tamburo arriva il turno di Lavinia e Guido di “presentare”. Questo presentare è un’attività che ho copiato dai Peanuts, noto metamanuale didattico dello scorso millennio: nella traduzione italiana si chiama “mostra e dimostra”. Chi vuole si prenota su un apposito calendario e quando viene il suo turno, solo o in compagnia, si piazza dietro o davanti alla cattedra, se vuole sulla mia sedia piccola, e presenta alla classe un libro, un’ammonite, una banconota da mille lire. Lavinia e Guido hanno presentato un mazzo di carte tipo Pokémon, concepito e prodotto da loro stessi. C’era una carta per ogni componente della classe, con il ritratto a pennarello, il suo potere e/o la sua mossa speciale. Non mancava nessuno. Lo stralunato Stefano aveva il potere dell’inglese (che in effetti è bravo) e la sciabola da scherma, un’attività che faceva quando eravamo in prima. La mossa speciale di Marzia era il lancio del suo famoso copriorecchie di peluche che si trasformava in arma letale lungo la parabola. Eccetera. Io stavo seduto a un banco vuoto all’altro capo dell’aula a grattarmi la testa; le lenti sempre appannate degli occhiali su mascherina hanno provvidenzialmente nascosto un principio di lacrima. Passato il riprovevole attimo di commozione, mi ha sfiorato una vaga melanconia, un’infiltrazione di patetico. Oh, michelelongo, Santa Pazienza, ma che c’è, non puoi esser contento e basta? Per una volta? Poi ci arrivo. Si tratta di un attacco di sindrome di Geppetto. «Ho capito, siete diventati grandi, non avete più bisogno di me, adesso. Così dev’essere. Starò buono nel mio cantuccio, a scaldarmi al focolare dipinto sul muro. Insegnerò daccapo l’abaco alle formicole. Ma sono io che vi ho fatto conoscere, lo sapete?» La sindrome di Geppetto si manifesta con linee di pensiero alterato: un delirio piccolo e quieto. Non senza imbarazzo, devo ammettere che anche ora, completamente guarito grazie ai complessi multivitaminici della mia farmacista del cuore e a certe esecuzioni dei concerti per piano di Prokofiev, mi riconosco un po’ nella sciocca protesta del falegname: «sono io che vi ho fatto conoscere». Tra poche righe i fatti mi smentiranno quasi completamente, tuttavia… Tuttavia è vero che parte del nostro lavoro di maestre* consiste nell’aiutare i bambini della classe a conoscersi, accettare gli spigoli degli altri e accorgersi dei propri, apprezzare le qualità degli strani e dei fuori posto.

Tuttavia, un corno, Polendina! Con una piccola indagine incrociata bambini-genitori io e Giovanna abbiamo scoperto che molti dei nostri alunni durante il lockdown sono riusciti a tenersi in contatto grazie alla combinazione di videochiamate e videogames. Lunghe videochiamate ad alto tasso di stupidera, brevi chiamate per darsi appuntamento per giocare, messaggi per essere “accettati” come amici di gioco. Nella trama di questi scambi semiclandestini, resi possibili da genitori che li hanno consentiti anche facendo i conti con qualche convinzione personale, sono entrati in comunicazione bambini che a scuola non si erano mai avvicinati oltre un episodico “giochiamo insieme”. Intese insospettabili che ora continuano nella rete del sottobanco.

Prima di iniziare a scrivere mi son ripromesso di non usare una parola che non sopporto più. L’ho messa in quarantena, chiusa tra parentesi. (Resilienza). Se a qualcuno dovesse servire, è lì, basta chiedere la chiave. Qui ne uso un’altra, per concludere. Resistenza. Con l’aiuto della fortuna e l’uso dell’ingegno un piccolo gruppo di bambini ha sfidato l’isolamento del lockdown. Qualcuno ha perso per strada la tabellina dell’otto, o l’uso dell’acca, ma tutti hanno imparato cose che forse non sanno ancora dire. Certo sono diventati più grandi. Noi maestre non rivendichiamo alcun merito. Con l’otto e l’acca ci stiamo dando sotto.


* A quanto pare non ce la farò mai a scrivere “maestri” per significare molte maestre e qualche maestro. Ho sempre paura che i lettori finiscano per immaginarsi la scuola come il campo di battaglia tra Troiani e Achei, pieno di maschi che fanno un sacco di stupidaggini e litigano per qualsiasi cosa. Sia il numero, dunque, a fare il genere, anche stavolta.