Poetica della scuola

[di Enrica Buccarella]

La scuola che voglio fare come insegnante è quella in cui entro in classe contenta, eccitata ed emozionata, così come mi piacerebbe fossero anche i miei alunni, per ciò che riserverà loro la giornata: incontri, relazioni, scoperte, attività. È la scuola della formazione, mia e dei miei bambini, ma ancora di più la scuola dell’educazione, parola impegnativa che prevede la capacità di percepire il mondo, i diversi contesti, saper gestire i propri interventi e contributi e trovare il proprio posto in se stessi e nel gruppo.  È un compito impegnativo: senza una forte volontà, superare gli ostacoli che si pongono tra noi e questo obiettivo diventa impossibile. E tutto sommato sento di agire con grande semplicità nel perseguirlo perché il metodo principale che applico e che consiglio sempre è di guardare i bambini in modo diretto e sincero, di ascoltarli da adulto e guida autorevole, da persona che si fa carico non solo dell’insegnamento dei saperi ma della crescita sociale e culturale: individuale, per ciò di cui ognuno ha bisogno e che è differente dai bisogni degli altri, e collettiva, perché scuola significa gruppo, classe, insieme di presenze e contributi.

Giocalibro, percorsi di lettura per la scuola materna ed elementare (Fulvio Panzeri, Editrice Bibliografica 1998, contributo della maestra Antonella Capetti).



Pagina della rivista quindicinale Biblioteca di lavoro a cura del gruppo sperimentale coordinato da Mario Lodi dal 1970 (Editore Luciano Manzuoli, contributo della maestra Elia Zardo).

Edgar Morin parla di insegnamento educativo. La parola insegnamento, dice, indica l’arte di trasmettere conoscenze e ha una valenza di tipo principalmente cognitivo, allora non basta. Le affianca la parola educativo, ma anche la parola educazione può comprendere un troppo e una mancanza, quindi l’idea di un insegnamento educativo si traduce nella capacità di trasmettere, oltre al sapere, una cultura che permetta di aiutare a vivere e appartenere al mondo con un pensiero aperto e libero, una didattica che incoraggi l’autodidattica, suscitando contemporaneamente il rispetto delle regole sociali e l’autonomia dello spirito. Secondo Morin l’educazione può aiutarci ad accettare la parte prosaica della nostra vita e al tempo stesso a scoprirne la parte poetica.



La testa ben fatta, Riforma dell’insegnamento e riforma del pensiero (Edgar Morin, Raffaello Cortina Editore 1999).

Attraverso questa idea di insegnamento educativo vorrei allora estendere il concetto dall’educazione alla scuola stessa, al fare scuola da docente e al frequentare la scuola da allievo. Se la scuola è il luogo che ci insegna ad accettare e rispettare le regole, gli spazi, le condizioni, a formare la consapevolezza dell’essere cittadino in un ottica di utilità, condivisione e benessere (come diceva Mario Lodi in anni ricchi di fermento per la pedagogia italiana), è anche il luogo in cui si salva e si esprime la parte poetica e meravigliosa della nostra vita, nel senso proprio di stupore e meraviglia, attraverso la scoperta della letteratura, delle scienze, dell’arte tutta.

Costituzione, la Legge degli Italiani riscritta per i bambini, per i giovani, per tutti (a cura di Mario Lodi, Casa delle Arti e del Gioco 1972).

C’è speranza se questo accade accade al Vho (Mario Lodi, Einaudi 1972, contributo della maestra Luciana Bertinato).

L’idea di Morin, che mi piace interpretare in questo modo, va oltre quel concetto di competenza così fortemente sostenuto negli ultimi tempi nei curricoli scolastici e teorizzato dallo stesso Morin, che è stato anche l’ispiratore delle famose otto competenze chiave europee per l’apprendimento permanente. Ma non sempre le parole viaggiano di pari passo con le idee e i principi che le ispirano e le contengono. Le tre sfide da lui lanciate nel libro La testa ben fatta (la sfida culturale, la sfida sociologica, la sfida civica) sembrano dimenticate, sommerse da un concetto quasi unico che ha permeato gli obiettivi di questa nostra riforma scolastica e che nel tempo si è orientato o è stato spesso interpretato in funzione di una presunta crescente necessità di competenze imprenditoriali. Competenza è comunque una parola che in campo didattico è diventata di moda e, come accade spesso in questi casi, si è svuotata di contenuto e circola di bocca in bocca senza un’accurata riflessione e analisi del contesto in cui viene utilizzata.  Ma anche la scuola, o meglio le indicazioni scolastiche sono soggette a tendenze e controtendenze e, se in questi anni di buona scuola tutta la formazione degli insegnanti si è orientata appunto sul concetto di competenza, per contro c’è stato anche qualcuno che ha provato ad analizzarlo e discuterlo da altri punti di vista, imputandogli  una scarsa scientificità già a partire dalla vaghezza della sua definizione. Come si può davvero definire una competenza e, supponendo sia stata acquisita, quantificarne oggettivamente l’acquisizione?



Lettera a una professoressa (Lorenzo Milani-Scuola di Barbiana, Libreria Editrice Fiorentina 1967, contributo della maestra Luciana Bertinato).

Alcuni maestri e professori hanno riscontrato nell’applicazione di questo concetto una logica di tipo principalmente economico e solo marginalmente culturale.  La contrapposizione tra insegnamento delle conoscenze (intese come saperi passivi e inerti) e le competenze (sapere vivo, vero e vissuto) da molti insegnanti è stata interpretata come un condizionamento della didattica e una subordinazione dei contenuti formativi all’immediato inserimento degli studenti nelle dinamiche produttive (vedi: alternanza scuola-lavoro) che impedisce di fatto ai ragazzi un incontro profondo e formativo con la cultura alta e con quella che è la tradizione storica della scuola italiana. Sono questioni complesse e controverse che è un dovere conoscere, analizzare e discutere, in un dibattito appassionato e costruttivo tra chi la scuola la fa ogni giorno, in classe, e chi la pensa, ne detta programmi e criteri e la amministra. Di certo c’è che ci sono mediazioni importanti da fare quotidianamente tra insegnamento, educazione e sviluppo di competenze, perché la realtà scolastica, come la vita, è fatta di molteplici aspetti, da considerare singolarmente e nei loro intrecci, ma che sempre devono “convergere sull’uomo”, bambino, ragazzo, adulto.



Insieme, giornale di una quinta elementare (Mario Lodi, Einaudi 1974, contributo della maestra Lisa Monaro).

Come deve essere allora un insegnante che tenga conto di tutto ciò, che raccolga queste sfide, che sappia fornire cultura, favorire l’intelligenza strategica, educare alla comprensione umana, insegnare l’affiliazione e la cittadinanza terrestre, individuare nel proprio lavoro e nella scuola una necessità democratica?  È una domanda grande, e in questo momento non mi resta che pensare che porsela è forse più importante che darsi una risposta.

Pagina dal libro Insieme, giornale di una quinta elementare (Mario Lodi, Einaudi 1974, contributo della maestra Lisa Monaro).

Ma, semplificando, e tornando alla concretezza del fare scuola quotidiano, mi sono accorta negli anni, che pur studiando e entusiasmandomi a pensieri, metodologie e percorsi formativi di diverso genere e provenienza, non faccio che ripercorrere i passi e i modi della scuola che ho vissuto da bambina e adolescente, quella scuola che per me è stata nutrimento e piacere. Che non significa insegnare come si insegnava tradizionalmente 40 anni fa, ma semmai fare riferimento a quegli anni ’50, ‘60, ’70 che hanno visto figure straordinarie di maestri, ricerche e sperimentazioni che ancora adesso restano  poco conosciute ai più. Anni che hanno visto mettere il bambino al centro dell’apprendimento e della costruzione dei propri saperi come forse mai più è stato fatto. Metodi,  idee, azioni che ancora oggi sono marginali nelle nostre scuole, come l’apprendimento naturale della lingua, della lettura e della scrittura, l’idea della biblioteca in alternativa all’adozione del libro di testo unico, la gestione degli spazi dell’aula in modo vivace, vivo e funzionale alle diverse attività da svolgere, la nascita dei giornalini di classe per dare un nuovo senso alla scrittura, di comunicazione vera e di funzione sociale. Semi che purtroppo non sono germogliati ma certamente sono nel terreno di tutti quelli che desiderano fare una scuola felice.

Biblioteca di lavoro (a cura del gruppo sperimentale coordinato da Mario Lodi dal 1970, editore Luciano Manzuoli, contributo della maestra Elia Zardo, Presidente de La Scuola del Fare).

Questo significa far vivere ai bambini il piacere e la bellezza della scuola, ciò che a me è rimasto dentro e che me ne ha sublimato il ruolo e il ricordo. Il piacere, l’entusiasmo e l’eccitazione, come ho scritto sopra. Andare a scuola per incontrare, per conoscere, per confrontarsi, per aspettare qualcosa di bello e speciale che poteva compiersi e spesso, si compiva, in quel giorno, tutti i giorni. Che fosse una canzone da cantare, un collage da fare ritagliando una rivista, un ripasso di tutti i nomi dei pesci nel nostro dialetto e in italiano, un piccolo esperimento scientifico, una passeggiata al cimitero del paese, la poesia, una storia o un racconto da ascoltare, come quelli straordinari della mia professoressa di italiano delle medie, dei suoi meravigliosi viaggi che ci tenevano incollati alle sedie, sognanti e pieni di ammirazione nei suoi confronti.  Che fosse un autore o un testo da scoprire attraverso le parole della mia prof dell’istituto magistrale e il luccichio dei suoi occhi azzurri quando scioglieva in bocca le parole parlandoci  di letteratura, facendocela amare tutta e facendoci ridere, spessissimo, con la sua aria finta burbera e la sua voce a volte bassa e rauca e poi improvvisamente squillante.

La scuola salva la poesia della vita, noi abbiamo il dovere di salvare la poesia della scuola.

E questo sarebbero in tanti a doverlo capire: privare la scuola di questa poesia, svilirla, sminuirne il ruolo, contrapporla a logiche aziendali e di mercato, significa aver perso in partenza; non solo noi insegnanti, ma i bambini, i ragazzi e i genitori, la società tutta e il Paese.

I detti di Matteo, una moderna pedagogia del buon senso (Célestine Freinet, ristampa del 1967, contributo della maestra Angela Maltoni).

La scuola che vorrei ha il profumo dell’aria mattutina di ottobre, frizzante e piena di promesse; ha il sapore di quella piccola ansia felice che prende la pancia quando si sente che qualcosa di bello ha inizio, un incontro, un progetto, un amore. La scuola che vorrei, per tutti, ha il sapore della scoperta e della fiducia, e pensando ai tanti bambini e ragazzi stranieri, a quelli per qualche motivo diversi, che nella scuola hanno la loro unica opportunità di uno sguardo accogliente; ha il sapore della speranza e del riscatto, perché la cultura, l’educazione e il nostro saper stare al mondo sono la nostra forza, la nostra arma di difesa e la nostra arte.



Biblioteca di lavoro (a cura del gruppo sperimentale coordinato da Mario Lodi dal 1970, editore Luciano Manzuoli, contributo della maestra Elia Zardo).

Ringrazio le maestre e amiche che hanno contribuito con le foto dei propri libri a corredare questo scritto di indicazioni bibliografiche preziose a testimonianza di alcuni tra i più significativi percorsi ed esperienze nella scuola.