In questa periferia dell'essere dove si sbaglia sempre

Da otto anni, Chandra Livia Candiani, fra le migliori voci poetiche italiane, conduce incontri di poesia in scuole della periferia milanese. Oggi, la sua esperienza è stata raccolta e pubblicata in Ma dove sono le parole? (Effigie, 2015; parte del materiale si trova anche pubblicato sulle pagine del blog Il primo amore, che ha curato la redazione del volume), perché, come spiega il curatore Andrea Cirolla,“il mondo merita di conoscere questa esperienza e noi avevamo il dovere di raccontarla”. Ci ha segnalato questo libro Silvia Vecchini, che da alcuni anni svolge incontri di poesia con i bambini.

Che questo libro sia nato da uno stato di necessità dell'editore lo si percepisce con chiarezza, così come lo si percepisce dell'esperienza dei bambini, 1400 in tutto nel corso degli anni, e della poetessa che li ha guidati a intraprendere la ricerca delle parole. O meglio più che da uno stato di necessità, questa esperienza nasce da:

 

Una sorgente che straripa dal suo alveo. Una frescura


al centro del petto. Quest’altra intelligenza


non ingiallisce e non ristagna. È fluida, 

e il suo movimento non è da fuori a dentro

attraverso le condutture di un sapere idraulico.

Questo secondo sapere è una fonte

che da dentro di te va verso l’esterno.

Sono parole tratte da Due tipi d’intelligenza, poesia citata da Chandra Livi Candiani nella introduzione del libro, e appartengono al poeta Giallâl ad-Dîn Rûmi, nato nel 1207 in Afganistan, morto in Turchia dove è venerato come un santo e un maestro mistico. Parole che Candiani ha tradotto dalla versione inglese The essential Rumi (Harper San Francisco) per i bambini con cui fa poesia: italiani e stranieri, figli di immigrati da ogni parte del mondo.

Il libro di Chandra Livia Candiani è articolato in otto nuclei tematici: Il silenzio; Il mondo, L’autoritratto (talvolta è «La vita di»), Le parole, L’addio; poi Quello che conta (talvolta «quello che resta»), I grandi, Che cosa è la poesia. Un'ultima sezione è dedicata unicamente ai componimenti dei bambini rom, scomparsi dalla scuola dopo l’ultimo sgombero. Alcune sezioni sono precedute dal dialogo di Chandra Livia Candiani con Andrea Cirolla, e ripercorrono i momenti salienti e le motivazioni di questo lavoro poetico sviluppato per e con i bambini.

Racconta Chandra Livia Candiani:

I bambini sono di otto, nove o dieci anni. Ci sono pochi italiani, sono per lo più migranti che vengono dai paesi più diversi: Cina, Uruguay, Brasile, Panama, Perù, Colombia, Bangladesh, Pakistan, Sri Lanka, Filippine, Marocco, Tunisia, Russia, Romania, Ucraina. Alcuni sono appena arrivati, altri sono in Italia da tempo, altri sono nati qui. [...]

Non inizio mai spiegando loro cos’è la poesia, ma segnando un leggero e variabile percorso per andare insieme in cerca del luogo in cui abitano le parole.

Ma dove sono le parole? Un verso di un anonimo poeta nicaraguense dice: «Un poeta siente»: un poeta sente, percepisce, avverte, intende, ha sentore e presentimento. E così giochiamo con il sentire e scriviamo le tracce che i sensi lasciano in noi. [...]

Inizio spesso i miei seminari con il tema del silenzio. Perché i bambini conoscono per lo più il silenzio teso, il comando a cui si obbedisce facendosi piccoli, raggrinzendosi. E invece cerco di trasmettergli un silenzio che allarga, il piacere del silenzio che è ascolto di sé, del mondo, dell’altro, della sinfonia di cui facciamo parte. È con meraviglia che scoprono il mondo che il silenzio rivela. E alla fine gli dico: ora vi do un compito che dura tutta la vita. E loro abbassano le orecchie, ma quando dico: ascoltare il silenzio, farci tana, aspettare lì le parole, ridono. [...]

Non è sempre facile arrivare alla frescura al centro del petto, alla fonte, bisogna avere spirito d’avventura, curiosità, coraggio, fiducia e partire da qui, da ora, dal corpo.

Proprio ora, proprio qui, chiudo gli occhi e sento se ci sono davvero, se il corpo è davvero seduto a terra, se sento il pavimento, se davvero respiro, se sento il mio respiro che dalle narici raggiunge la pancia, se sento il suo viaggio verso l’esterno, dalla pancia alle narici, e le mani, sono calde, sono fresche, sono gelate. E cosa provo, che stato d’animo ho, cosa naviga o galleggia o va a fondo o vola in me. Proprio ora. Proprio qui. Ecco, per sapere dove sono le parole, per iniziare un viaggio verso la poesia, bisogna che qui ci sia un corpo. Un respiro. Un sentire. E poi una storia, la nostra, ognuno la sua. E della storia fa parte la geografia. Per questo chiedo spesso ai bambini, oltre al nome e all’età, di dire il loro “paese-radice”. [...]

Non ho nessuna pretesa che qualcuno leggendo questo testo o partecipando a un seminario di poesia possa diventare poeta, ma ho l’intenzione di regalare strumenti. Strumenti che non ci abbandonino quando la vita è dura e non sappiamo come o a chi dirlo, strumenti che non ci lascino soli quando la gioia ci sommerge e vorremmo lasciare tracce, dire a qualcuno che si può essere felici. Strumenti per conoscere noi stessi, quando ci siamo persi, per tenerci stretti quando ci sentiamo abbandonati, per innamorarci di questo sconosciuto che ci sta sempre accanto, che siamo noi. [...]

Il primo anno, a scuola, non sapevo che vicino c’era un grande campo di rom, che poi è stato sgomberato e distrutto. Le etnie erano tante e i rom avevano tratti molto simili a bosniaci, rumeni, albanesi; non li avrei distinti. Erano anche vestiti molto bene, molto meglio degli altri; più tardi ho scoperto che i loro vestiti venivano da un ente benefico e li ricevevano a scuola. E a scuola nel bagno delle maestre c’era shampoo e bagno schiuma e potevano farsi la doccia. Ma io li ho incontrati la prima volta, come gruppo o tribù, perché ero sorpresa che alcuni bambini in una classe scrivessero sempre della notte ed era evidente che la conoscevano molto bene. E parlavano delle notti fredde d’inverno, del pericolo della pioggia, del fango. E degli incendi. Quando l’ho detto stupita a una maestra, lei mi ha risposto: «Sono rom, vivono al campo, nelle baracche, certo che conoscono la notte».

Abbiamo estrapolato questi brani dal contesto del libro per darvi un saggio della sua tonalità e di quello che in esso potrete trovare, tenendo ben presente che in queste pagine ogni parola ha un posto e un senso fondamentali nella comprensione del lavoro poetico dell'autrice e dei bambini.

Leggere di “frescura al centro del petto”, di “respiro” e “pavimento” e “terra”, di “Proprio ora, proprio qui” mi ha fatto venire in mente un libro appena finito di leggere: Diario di scuola di Daniel Pennac (trad. Jasmina Melaouha), appassionata riflessione a partire proprio dal dolore e dall'angoscia dei respinti a vita, dei somari per destino, sull'insegnare, sulla vitalità salvifica della parola, sul legame fra maestro e allievo, sulla nozione di amore come centro della relazione pedagogica. E, infatti, proprio la presenza dell'insegnante in classe, il suo esserci con il corpo, l'anima, la mente e tutto se stesso è la condizione prima e unica per una presenza degli allievi.

Spiega Pennac: Una sola certezza. La presenza dei miei allievi dipende strettamente dalla mia: dal mio essere presente all'intera classe e a ogni individuo particolare, dalla mia presenza alla mia materia, dalla mia presenza fisica, intellettuale e mentale per i cinquantacinque minuti in cui durerà la mia lezione. [...]

In un bellissimo scritto apparso su Vibrisse, nella rubrica La formazione della scrittrice, che potete leggere integralmente qui, si legge quale fu il rapporto di Chandra Livia Candiani dapprima con la scuola e quindi le parole della letteratura.

A scuola ero un asino. Facevo fatica a capire un po’ tutto. Soprattutto i numeri, per esempio che avessero un nome, perché sapevo che tre e due fa qualcosa ma il nome cinque non sempre saltava fuori. Molte lettere poi le avevo imparate al contrario, perché il mio primo maestro involontario era stato mio fratello. Lui studiava seduto alla scrivania, io mi piazzavo di fronte a lui appollaiata su uno sgabello, con davanti foglio e matita e ogni tanto gli chiedevo: “Che lettera è questa?” E lui, distratto: “A”. E io la disegnavo, diligentemente, al contrario. Così sembravo scema a scuola. Non sapevo spiegare il perché, tutto qua. [...]

Ho continuato ad andare male a scuola. Soprattutto, non capivo la punteggiatura, mettevo le virgole dove pareva a me, un bisogno di una pausa piccina, un fiore o un’erba sul ciglio della pagina, macché, la maestra era furente e una volta disse: “Candiani, quando sarai una grande scrittrice farai quello che vuoi tu, adesso segui quello che ti dico io, una volta per tutte!” Era così ironica, visti i risultati scolastici, che tutte scoppiarono a ridere, ma in segreto mi rimase che c’è una categoria di persone che fa quel che vuole con le virgole.

Ho cominciato a leggere di nascosto, perché un somaro non legge libri, al massimo giornalini. Io prendevo i libri di mia sorella, alle medie leggevo sotto il banco Goethe, Dostoevskij, Tolstoi, Thomas Mann, Musil e via e via, i grandi classici ma di nascosto, come un furto. E Calvino, tanto Calvino. E Ungaretti e Quasimodo e Montale e Pavese. Non so bene com’è andata che ho cominciato a comprare i libri di poesia, i miei libri. In realtà, cercavo la poesia dappertutto, mi stufavo appena uno scrittore si dilungava, mi sentivo abbandonata appena scriveva cose senza sussulto. Cercavo vie di comprensione del mondo e della vita fulminanti. Cercavo la poesia. Sempre leggevo di nascosto, dovevo mantenere la mia identità somara e un po’ scema, mi sembrava un sacrilegio leggere quei libri, temevo che da un momento all’altro qualcuno, a casa o a scuola, avrebbe urlato: “Come ti permetti!” Un paio di volte è successo quasi quasi così. Comunque, mi è rimasto un senso di clandestinità con la cultura, leggo voracemente, famelicamente, e di nascosto, un po’ in un equilibrio precario, con posizioni sbilenche, appena appoggiata a un muro, sdraiata di traverso, in tram. Spesso, scrivo per terra, un foglietto sul pavimento e una matita. Il tavolo è per il computer e le traduzioni, la terra per la poesia. Scrivo in fretta, all’insaputa di me, se no mi sgrido: “Come ti permetti, somara!?”, correggo dopo, in un secondo, terzo, ventesimo tempo o butto tutto.

Anche in questo caso viene in mente Pennac, quando alla fine del suo libro immagina un dialogo con il somaro che è stato:

Siete tutti uguali, voi prof! Quello che vi manca sono dei corsi di ignoranza! Vi fanno dare esami e concorsi di ogni genere sulle vostre conoscenze acquisite, quando la vostra prima qualità dovrebbe essere la capacità di immaginare la condizione di chi ignora tutto ciò che voi sapete! Sogno un esame di abilitazione in cui si chieda al candidato di ricordarsi di un insuccesso scolastico... […] che vadano a rivangare fra le materie che non amavano. Che si ricordino delle loro lacune in fisica, della loro incapacità in filosofia, delle loro scuse patetiche in ginnastica! Insomma è necessario che coloro che pretendono di insegnare abbiano una visione chiara del loro percorso scolastico. Che riprovino un poco la loro condizione di ignoranza se vogliono aver una minima possibilità di tirarcene fuori.

Scrive Chandra Livia Candiani:

Che razza di lavoro è questo dei seminari di poesia alle elementari? Meno male che sono capitata subito in scuole dove il permesso di essere dove si è non è scontato, è conquista faticosa, è abitare a lungo di nascosto, di sfuggita. Perché a scuola io sto così. Ed è da lì che parto, da quel senso di non c'entrare tanto, di non fare famiglia, né tribù, né mondo con nessuno e, guarda cosa va a succedermi, incontro bambini che partono proprio da lì, ma non come sensazione, come situazione. Ecco dove ci incontriamo, in questa periferia dell'essere dove si sbaglia sempre, sì è fuori luogo, si vacilla fortemente e si vive senza rete. Ma si è acrobati quasi nati, si impara veramente da subito. Come respirare con soggezione, come occupare poco spazio, come irradiare gioia dagli occhi, come scoppiare di felicità se ti danno campo aperto, come saper andare via. Gli immigrati sanno andare via. Sanno dire addio. Non è poco. È una grande disperata risorsa. […] Quando vado a scuola voglio dare la mia faccia e il mio corpo, presenti lì, a dire: sono qui per voi, per accogliervi e ascoltarvi. Voglio dare uno spazio di parola. Ampia. Calda. Necessaria. Giocosa. Dritta alla comunicazione. In dentro. In fuori. Dritta allo sbaglio. In equilibrio. Tra il rispetto e la gioia. Tra la dignità e il nulla dell'altra lingua.

Leo, otto anni

Quello che conta

è la formica.

È tutto che conta.

È sacro.

 

Elias, nove anni, egiziano

I grandi sono gente che salgono la torre inabitata

cose e oggetti che si buttano da soli

rompono le porte

distruggono le nostre anime.

 

Luka, dieci anni, albanese

Il mio ritratto

Il nove luglio nacque il rumore

che faceva molta confusione

con movimento e paura,

l'incertezza eccola

sono io.

 

Christian, 10 anni, filippino

Grazie per la sedia

ed avermi dato una casa,

io sono piccolo,

ma dentro

sono gigante

che è sbocciato

da una briciola

 

Marian, 10 anni

L’amicizia è una giacca leggera,

una bellezza che non si può restituire.

Amore incancellabile, incontenibile,

immisurabile, ricaricabile, indescrivibile.

L’amore è infinito ogni modo d’amare

è come un oggetto.

 

Marius, nove anni

Il silenzio

Paura volio giocare ma o paura

volio dire qualcosa ma o paura

volio cantare ma o paura

tui mi prendono in giro e o paura

o paura di tuto e sono da solo.

Silensio.

Il silensio mi pasava tra le vene

sembra infinito il silensio.

 

Maria, 9 anni

Oggi la neve

mi ha toccato

dentro al cuore.

La mia mamma è come un uccello che vola

una campana che canta.

 

Ramayana, 9 anni

Le mani che scrivono le poesie

sono le stesse mani

che fanno le pulizie.

 

Willi, 10 anni

La mia casa interiore

Io sono stonato

e la mia anima si si si sissi sissi sissi

vuole carezza

la mia morbida anima.

 

Nelle scuole italiane succedono cose importanti di cui nessuno sa e se le si sa, le si orecchia male e le si racconta sbagliate. Invece è bene che si sappiano queste cose, e con precisione.