Se non si gioca, che resta?

Dalla parte dei bambini. La scuoladall'obbligo all'oblio, è un libro agile,limpido, appassionante che tratta i temi dell'educazione,della crescita, della scuola e dell'insegnamento. E,soprattutto, di bambini. Nel clima attuale, pagine che suonano,addirittura, rivoluzionarie. Paradossale che l'autrice, Grazia Honegger Fresco, allieva diMaria Montessori(di cui ha scritto una bella biografia),pedagogista, studiosa, insegnante, fondatrice di riviste, formatrice, sia una signoradi ottant'anni.
Riflettendo, tuttavia, sulla pocafortuna e lo scarso riconoscimento che in Italia ha ricevuto ilpensiero di Maria Montessori, una delle figure piùimportanti della pedagogia del Novecento, non sorprende che concetti comeautonomia, indipendenza erispetto del bambino risultino, a tutti gli effetti, nuovi edirompenti, in una nazione in cui la formazione del pensiero autonomo ecritico rappresenta un obiettivo più che disatteso, decisamente invisoa tutti i livelli istituzionali e politici (bipartisan, verrebbe dadire). La forza di queste pagine sta nel porre a confronto quel che è– relazioni fra adulti e bambini spesso nel segno della confusione,del conflitto, della sciatteria, dell'ignoranza, della superficialità,dello smarrimento, dell'irresponsabilità -, con quello che in modosemplice e disponendo di forze limitate, ma di idee chiare e di solide eapprofondite conoscenze ed esperienze, si potrebbe fare per bene educarei bambini, il che significa accompagnarli in un processo di crescitaconsapevole e condiviso, verso l'autonomia e la responsabilità.

ArthurTress, Flying Dream, Queens, NY,1971.

In 17 capitoli,più una preziosa appendice di consigli a genitori e insegnanti, unabibliografia di base, e due premesse (una, da incidere sulla pietra, diPiero Calamandrei sui moventi alla base dei tentativi di distruggere lascuola di stato; e una di Goffredo Fofi), Grazia Honegger Fresco affrontatemi spinosi e spinosissimi, indicando con mirabile chiarezza soluzionipossibili, ricorrendo sempre a esempi concreti, negativi e positivi, diesperienze realizzate da educatori, fondamentali per la comprensione dellettore.

Foto di JulieBlackmon.
Dorothea Lange,The Arnold children, Michigan Hill,Washington,1939.

In questo librosi parla di cose che oggi suonano quasi fantascientifiche, nel clima didisastro istituzionale che caratterizza la nostra scuola: per esempio,dell'importanza dell'ambiente fisico in cui i bambini crescono, edella cura che di esso ci si deve prendere, adulti e bambini insieme,ognuno secondo le proprie forze; della necessità dell'ordine e dellabellezza nell'ambiente educativo; del controllo della voce e dei gestida parte di chi cresce i bambini; della forza semplice e fondamentaledell'esempio da parte degli adulti per impartire insegnamenti ecomportamenti corretti; della necessità di stimolare l'autonomia nelbambino affinché possa imparare con serenità e fiducia a far fronteai propri bisogni e necessità: lavarsi, vestirsi, mangiare, esprimersi,socializzare, abilità alla base di qualsiasi apprendimento successivo;della necessità per il bambino del gioco libero e di un tempo gratuito,non finalizzati a risultati, non organizzati per ottenere performance;dei benefici educativi che si ottengono nel far interagire bambini dietà diverse, non separati rigidamente in fasce di età; della fiducianei bambini e nelle loro capacità come fattore imprescindibile dicrescita in ogni contesto educativo, scuola e famiglia; dell'inutilitàe degli effetti negativi dei voti e della competizione nel promuovereil processo di apprendimento; dell'errore come importante fattoredi crescita personale, in grado di innescare un processo naturaledi autocorrezione e quindi di autoformazione; della necessitàdi instaurare un clima in cui ai bambini sia estranea la paura disbagliare; dell'importanza della collaborazione di tutti gli adulti nellagestione della scuola: insegnanti, bidelli, preside, genitori...

BörjeGallén, Children-playing in Stockholm,1945.

E si potrebbecontinuare, poiché questi sono solo alcuni degli argomenti trattatidall'autrice. Difficile scegliere un brano, in un saggio così riccodi pensiero, conoscenze, citazioni - bellissime quella di primoLevi: «La mano è un organo nobile, ma la scuola, tutta presaa occuparsi del cervello l'ha trascurata»; quella di Einstein:«Imparare è sperimentare. Ciò che resta è solo informazione», equelle della Montessori: «Le mani sono l'organo dell'intelligenza»,e la celeberrima (e inascoltatissima): «Ogni aiuto inutile è unarresto dello sviluppo». Tante sono le pagine che meriterebbero diessere citate, le riflessioni che varrebbe la pena di sottolineare,compresi alcuni brani riportati dalla studiosa su esperienze di colleghieducatori, che a volte mettono in luce situazioni talmente assurdeda lasciare interdetti, come quella riportata da un pedagogista diBologna che alla mensa di una scuola elementare si rese conto che ibambini, sette anni, non mangiavano la carne perché non c'era nessunoche gliela tagliasse: da soli non erano capaci.


Foto di NikosEconomopoulos.

Ho sceltodi riportare parte del capitolo C'è gioco e gioco,che tratta temi molto importanti.

Dache mondo e mondo e presso ogni popolo, il gioco veramente libero èl'occupazione predominante dei primi anni di vita con una finalitàprecisa: quella del raggiungimento delle capacità adulte.
Questo gioco originario – potente istinto di crescita edi creatività che ogni bambino o bambina ha dentro di sé comedono fondamentale fin dalla nascita – si evolve, se non ci sonointerferenze, in modo personalissimo. Perfino gli altri mammiferigiocano – basta osservare una cucciolata di gatti o di cani – ese non possono farlo, diventano adulti intrattabili, aggressivi. Lostesso accade agli umani. Se non possono giocare in modo pienamentelibero da piccoli, è assai probabile che diventino adulti irritabiliincerti, mortificati.



Edwin Rosskam,Children playing ring around a rosie in one of the
better neighborhoods of the Black Belt
, Chicago, Illinois,1941.

Unavolta la parola “gioco” non aveva bisogno di aggettivi. Datempo, invece, per definire il gioco spontaneo di un bambino,dobbiamo dire “gioco libero”. Questo significa – e non bisognastancarsi di ripeterlo, perché persino di questo è stata privatal'infanzia – che il gioco oggi è diventato molte altre cose:gioco di competizione, sportivo,didattico, trasformato in memory,tombole e trucchi vari per mercificare il più sterile degliapprendimenti – domande e risposte in stile televisivo – eavvilire sempre di più quella specialissima e del tutto indipendentemodalità infantile di piacere e di scoperta.
Èdiventato altro perfino il gioco del “Pareva che io ero...”,pedagogisti e psicologi se ne sono accaparrati restituendolonon ai bambini, ma a maestre e genitori come gioco simbolico, di
identificazione o dei travestimentie, di conseguenza, codificato e organizzato a dovere. È un mezzograzie al quale il piccolo cerca di capire il funzionamento del mondo,familiare e non. Tutti, più o meno, l'abbiamo fatto nell'infanzia:si cominciava così, poi diventava un “far finta” più elaborato,fino all'adolescenza quando, con un pizzico ulteriore di fantasia,creavamo privatissime epopee mentali che non avremmo mai osatoconfessare ad alcuno.


Russell Lee,The Whinery children playing, Pie Town, New Mexico,1940

Oggila fine del gioco spontaneo comincia molto presto, favorita anchedal fatto che non c'è asilo nido o scuola infantile che non abbiaprevisto “l'angolo del simbolico”, dove tutto è preordinato neiminimi dettagli con mobili finti che costano quanto quelli veri. Conessi i bambini sono in certo modo “obbligati” a giocare alla casa, afingere di far cucina – tovaglietta tirolese e pentolini di plastica,magari color lilla – o di lavare con acqua inesistente. Siamo aI vestiti nuovi dell'imperatore, la favola diAndersen come prescrizione: si imita a gesti, lasciando fuori lavera immaginazione e senza mai poter sperimentare azioni analoghe inconcreto. Già a due o tre anni possono compierle con grande piacere:lavare un piattino, una bambola; tagliare a fettine una banana,spalmare di marmellata una fettina di pane, sgusciare un uovo sodoo un baccello con fagioli o con piselli... questo non è un gioco,ma fare davvero – forse come mamma – che diventa scelta se glistrumenti del fare sono a disposizione. Però agli adulti dà fastidio,è sporchevole, bagna. Meglio il gioco con le cose finte dove tutto restapulito e dunque: «Adesso, bambini, andate in casetta.»

Russell Lee,Children playing in front of saloon, Gemmel, Minnesota,1937.

Perchénon entrambe le esperienze, lasciando loro le invenzioni personali?
Il gioco libero, abbia o no a monte un vissuto concreto, nonha bisogno di un ambiente organizzato. I bambini sanno improvvisaremolto bene con oggetti di casa e pezzi di costruzioni, con ghiandee sassolini trovati all'aperto, rivivendo qualcosa di significativo,cavalcando un sasso o strapazzando i pupazzi dopo il primo giorno discuola. «Se non si gioca, che resta?» scriveva Tolstoj nei suoiricordi di infanzia.
 
Tutto questo un tempo continuava, certo in modo piùcomplessi, nei primi anni delle elementari, oggi invece scomparedi colpo non appena se ne oltrepassa la soglia. «Ma che fai,giochi?»; «Non stare lì a giocare!» e «Non perdere tempo coni tuoi soliti giochini!». Il diritto al gioco indipendente èfinito, malvisto come oziosa distrazione dai doveri dello studio:qualcosa di inutile se non di dannoso.


Robert Doisneau, Alsazia,1945.

Nellasocietà presente che traduce tutto in poeter d'acquisto, non èaccettabile il gioco che non insegni e non produca qualcosa. Deveessere finalizzato a risultati misurabili, con relativa caccia aglierrori, fino alle degenerazioni “tifose”. Può essere persinoozioso, non nel senso nobile dei filosofi classici, ma come fugadalla responsabilità e del rischio (quanti adulti sono maestri inquesto). Più che il piacere di giocare vale la competizione e a essadai primi anni vengono ammaestrati figli e allievi, nipoti e bambiniincontrati per caso, tutti trasformati anzitempo in piccoli adultiabili nel monetizzare precocemente ogni cosa, ottenere profitti,mercificare anche le relazioni più significative: l'anticamera delbullismo. L'elemento inquinante per eccellenza - il voto – findalle prime classi di primaria, coincide più o meno con la scomparsadel gioco libero nella seconda infanzia. 

1880circa, Inghilterra, Bambini che giocano perstrada.

Un grande educatore, il franceseArno Stern, da anni denuncia la fine precoce e sempre più accentuatadell'infanzia con l'annullamento di quel tempo gratuito in cui tuttosi fa per il puro gusto di fare, per riconoscersi nel gioco di unaltro o nella storia che si inventa giocando con poco, una vecchiascatola o un sacchetto pieno di ritagli colorati. Questo, sostieneStern, vale anche per il gusto di tracciare liberamente segni senzache qualcuno cominci a domandare: «Che hai voluto fare?»; o anche:«Perché hai fatto il sole viola?» (Kandinskij non osava cavalliverdi?). Oppure: «Perché non hai fatto il prato sotto i piedi diquesti due?» (e Chagall non faceva volare nel cielo dei suoi ricordii personaggi?). Per troppi adulti un “bel” disegno è un disegnostereotipato e così un “bel” gioco. 

HenriCartier-Bresson, The Berlin Wall,1962.

Difronte al mistero della mente infantile siamo subito prontia indagare se quel rosso sbaffato di nero o quel comignolostorto siano sintomi utili a fini diagnostici oppure chiamiamoarte qualunque segno abbia fatto il bambino X per confrontarlo conquello del bambino Y. Anche il gioco splendido delle tracce di colorediventa compito e occasione di giudizio. 

W. EugeneSmith, The Walk to Paradise Garden,1946.

Nonli ascoltiamo e vogliamo addomesticarli a modo nostro, esplorando(inutilmente) i loro segreti più profondi: in realtà restiamosempre e solo alla superficie, avendoli però offesi con le nostreintrusioni. […] Quanto agli oggetti – complici gli adulti cheschivano ogni possibile conflitto – figli o allievi crescono nellafiera della inutilità e del possesso fine a se stesso, già orientatia sentirsi forti solo perché collezionano “roba”, merce. Intantoabbiamo messo radici a tutti i mali del mondo che si fondano appunto sulcontrasto fra chi ha e chi non ha, sulla minore o maggiore sicurezzabasata sul posesso, allenando fin dai primi anni alla competizione ealla paura di non farcela.