Il ciuccio. Cronaca di un addio.

[di Rita Gamberini]

Alla tenera età di tre o quattro anni sono stata vittima di una cospirazione, frutto del complotto di tutta la mia famiglia che si coalizzò perché finalmente mi sbarazzassi del ciuccio. Se lo avessi fatto sarei stata la bambina più coraggiosa del mondo, che dico del mondo, dell’intero universo. E avrei dovuto farlo in allegria.

Mi immagino prima dubbiosa, poi pensierosa, poi arrendevole e infine convinta. Mi lasciai abbindolare da un perfido cambio di strategia che avvenne in due fasi.

Fase uno: “Ancora il ciuccio?!? Vergogna! Ti cresceranno i denti storti…” Niente da fare, il ciuccio me lo tengo ben stretto e non lo mollo”. Nessuna intimidazione avrà il sopravvento sull’impareggiabile consolazione di un appiccicoso oggetto transizionale.

Fase due: quando i maledetti passano alle lusinghe. “Butta il ciuccio e diventerai grande. E i dentini cresceranno belli dritti e sarai la più bella bambina e farai vedere di cosa sei capace e quanto coraggio e tutti si accorgeranno….”. Ho ceduto.

La nostra casa dava su una strada sterrata che finiva con un piccolo muretto di pietra. Sotto scorreva un canale che si chiamava proprio Il Canale, di fianco una pineta.

Dal Canale si doveva stare alla larga, era molto pericoloso anche perché lì, di tanto in tanto, confluiva una impressionante colata rossa, il sangue delle povere mucche che venivano soppresse nel vicino macello. Sfuggendo a ogni raccomandazione, da bambini, ci affacciavamo alla riva del Canale attratti e impressionati da tutto quel rosso che scorreva sotto di noi vagheggiando che venissero risparmiati almeno i vitellini.

Pure la pineta era off limits. A volte si accampavano gli zingari che ti mandavano in bambola mentre ti leggevano la mano e tracciavano il destino di una vita, e qualche volta i soldati con le divise mimetiche, perché negli anni Cinquanta e Sessanta, nei piccoli paesi dell’Appennino era frequente imbattersi nei campi di addestramento militare allestiti per le esercitazioni delle reclute. Così la pineta, di tanto in tanto, si popolava di soldati e armi in bella vista appoggiate ai tronchi dei pini; i fuochi intorno ai bivacchi illuminavano la notte e le voci risuonavano sinistre.

Ma avvicinarsi al Canale e salire sul muretto per gettare il ciuccio sarebbe stato un attimo, un gioco da ragazzi, come d’incanto tutti i pericoli sarebbero scomparsi.

Quindi un bel giorno si formò un corteo, sì proprio come dice il vocabolario, "una fila di persone che accompagna o rende onore a qualcuno", in quel momento onore a me. Venni scortata fino al muretto e come sospinta da una mano invisibile, un vento caldo alle spalle, l’eco di una voce, il ciuccio ancora stretto tra le labbra, poi il grande gesto: ciuccio brutto ti butto via! Fu così che le acque torbide e insidiose del Canale lo trascinarono con sé.

Le cose andarono proprio così, poi non saprei dire se avessi il cuore gonfio di orgoglio o malcelassi un pianto trattenuto di amaro pentimento per il gesto compiuto, il ricordo sfuma.

Oggi mi immagino muta e imbronciata mentre tutti insieme rientriamo a casa, oppure al contrario preda di una inarrestabile parlantina, di quelle che inizi a parlare a vanvera pur di allontanarti dalla cruda realtà e dimenticare all’istante il ciuccio alla deriva nel Canale.

Anche questa è passata, si dice lasciandosi alla spalle un dispiacere, e cercando altre consolazioni trovai la mano della nonna che accarezzavo ogni sera, una carezza ripetuta infinite volte, scorrendo piano tutte le pieghe asciutte di una mano scarna e consumata, fino a non accorgermi che già stavo dormendo.

Poi arrivò Bubi, un orsetto di pezza, che per lungo tempo ha desiderato la mia compagnia.