Le parole servono a pulire la casa

[di Davide Schirò*]

Dopo anni in cui avevo smesso di condurre laboratori creativi ho scelto di provare ancora. Recenti incontri letterari mi hanno offerto la fiducia e l’energia di cui avevo bisogno. Il festival di cinema e narrativa Efebo d’Oro e lo Spazio Marceau, a Palermo, sono stati cornice e grembo perfetto. La Libreria Dudi di Palermo come sempre curava i legami.

Decido sempre sul momento cosa leggere. In questo caso prima di scegliere A che pensi? (di Laurent Moreau, edito da Orecchio Acerbo) e Tutto da me (William Wondriska, edito da Corraini) ho chiesto alle bambine e bambini presenti a cosa servissero secondo loro le parole e cosa ne volessero fare. Insieme alle gustose risposte “Dire una cosa all’orecchio” o “Narrare la propria storia (!)”, una di queste mi aveva davvero stranito: “Le parole servono a pulire la casa”.

 

Marcu, quando l’ho conosciuto, era Marco. La maestra trovava più comodo chiamarlo così e si era convinta che anche lui preferisse la versione italica. Quando ho chiesto a lui, evidentemente aveva cambiato idea. Marcu è stato un mio alunno per un anno e mezzo. Il mezzo è stato interrotto non dalla pandemia ma dalla scelta della famiglia, improvvisa e dolorosa (per me), di tornare in Romania lo scorso marzo. Dopo una quarantena, al momento del tampone per tutto il gruppo-classe, la zia me lo ha detto. Il giorno dopo saremmo tornati in classe, ma Marcu quella stessa sera sarebbe tornato in macchina nella casa della nonna (non nella casa natale, non nel paese d’origine). Appresa la notizia, sfortunatamente, sentivo una grande vertigine e il tampone ancora dentro le narici. Fortunatamente, avevo con me il libro Nel mio corpo (Mirjana Farkas, edito da Fatatrac) e ho potuto aggrapparmi a un solido regalo, con la speranza che potesse magicamente esprimere e spiegare a Marcu tutto il mio affetto. Al posto mio.

Al laboratorio ho rivisto Marcu, rientrato a settembre in città. È stato lui a rispondere che le parole servono a pulire le case. Stavo per chiedergli di spiegarci di più cosa intendesse quando, fissando le sue fossette attenuarsi, ho pensato alla madre e alla zia amorevoli e instancabili. Le ho sempre sentite parlare soltanto in italiano con i figli. Puliscono le case degli altri. Anche. Gli studi su lingua madre e immigrazione potrebbero raccontare (più che spiegare) con centinaia di pagine la mia epifania istantanea, insieme alla ritrosia di Marcu a pronunciare anche una sola parola in rumeno.

«Arrivava, per esempio, la signora Evelina, che viveva al quarto piano e aveva quattro figli maschi, un marito distratto e un pappagallo grigio. […] E allora il signor Fermo a farle un sacco di domande (anche un tantino personali eh), a compilare qui, scrivere là, controllare il profilo, la gobba del naso, il risvolto dei pantaloni, la erre alla francese, le rughe d’espressione, i denti sporgenti. E poi timbra firma ritimbra e consegna. “Ecco a lei, il suo certificato di spazzatrice di pavimenti”, diceva sicuro Sicurini alla Evelina, mostrando il pezzo di carta con la firma tutta svolazzi.»

Certo, di pavimenti da spazzare la Evelina ne aveva parecchi. Ma faceva tante altre cose, a dire il vero. Per capire quanto apprezza e accetti, la signora Evelina, questa definizione definitoria, è necessario osservare l’illustrazione di Andrea Antinori.

Il paese degli elenchi è uno dei più recenti libri della scrittrice Premio Andersen Cristina Bellemo. Mi piace immaginare i sottotesti e i prologhi dei suoi componimenti con parole. In questo caso, con la generosità e la limpidezza che la caratterizza, lo fa lei stessa, qui.

Sfogliando a ritroso le pagine del prezioso libro pubblicato da Topipittori leggiamo:

«Nel paese di Roccaperfetta chi non era iscritto in un elenco non era un cittadino. Era qualcuno che non esisteva, per quanto ciò vi possa sembrare impossibile. Avete mai incontrato qualcuno che è qualcuno ma non esiste? Io no.»

Antinori ci mostra come sia possibile che delle ombre rispettosamente in fila, grazie a un certificato, si materializzino in esseri per nulla omologati, ma ora legittimati, visti. Potremmo chiederci come sia possibile che ci siano delle ombre, se i raggi solari non incontrano corpi che li arrestano. Potremmo ipotizzare che il vero dilemma (e soluzione forse) sia nello sguardo. Potremmo, inoltre, domandarci perché vediamo le fattezze dell’intera classe seconda B della scuola primaria del secondario Vicolo della Libertà, nonostante siano ancora privi di certificati.

Immagino che l’autrice e l’illustratore siano tra chi crede che il lettore debba fare il resto e non ho certo la presunzione di sostituirmi a loro, colmando io gli spazi. Ovviamente gli interrogativi e le riflessioni che questo libro a figure suscita sono molti di più e hanno una concretezza che può atterrire, oltre a far arrabbiare. Della Bellemo sto imparando ad amare il suo schieramento etico, garbato, implicito, ma adamantino. Non solo verso il mondo dell'infanzia, ma verso l'infanzia (e quindi l'umanità) del mondo. Io, al contrario, ho bisogno di esplicitare e spesso di urlare: dobbiamo garantire lo ius soli per tutte e tutti. Siamo in ritardo criminale.

le mani che scrivono le poesie

sono le stesse mani

che fanno le pulizie

[Ramayana, 9 anni; poesia tratta da Ma dove sono le parole? a cura di Chandra Livia Candiani con Andrea Cirolla, edito da Effigie Edizioni, 2013]


[* Dopo anni di impegno antirazzista e animazione socio-culturale, Davide Schirò lavora come educatore interculturale in centri e comunità di accoglienza. Da maestro e insegnante di sostegno si appassiona agli albi illustrati e ne sperimenta il valore come occasione di vicinanza, inclusione e coinvolgimento. Si è occupato di valutazione, supervisione pedagogica, didattica speciale e formazione per educatori e insegnanti. Collabora con la libreria per bambini e ragazzi Dudi di Palermo per momenti di laboratori e lettura ad alta voce, progetti di educazione alla lettura nelle scuole ed eventi culturali. Recentemente si dedica a Diritti… storti e piegati, uno spazio di riflessione e suggerimenti dedicato ad albi illustrati accoglienza e inclusione. Capita spesso di incontrarlo in giro per la città con una valigia strapiena di storie. Dicono non decida mai cosa leggere prima di aver guardato bene gli occhi di chi ha davanti. A giudicare dal peso della valigia sembra sia vero.]