Passeggiata con Kandinskij

[di Elena Iodice]

Questo è un racconto a due voci. Due voci diverse, complementari. Da una parte ci sono io, Elena. Dall’altra Francesca che imparerete a conoscere attraverso le sue parole. La musica, in sottofondo, è quella dei quadri di Kandinskij. Cominciamo.

Il racconto di un laboratorio non può esaurirsi nella cronaca, minuziosa e dettagliata, dei 180 minuti della sua durata. Bisogna risalire a molto prima, a quell’inizio da cui, come scrive Kandinsky, tutto si genera. Spesso quell’inizio è un evento casuale, apparentemente slegato da ciò che accadrà dopo e che ancora difficilmente si immagina. L’inizio di tutto questo ha una data e un luogo preciso: Asti, 28 ottobre 2016. Antonio Catalano aveva organizzato il convegno Arte e Gioco. Per una pedagogia povera e aveva riunito tutte le persone incontrate sul suo cammino che, come lui, cercavano un modo nuovo per incontrare i bambini attraverso l’arte.

Antonio Catalano.

Francesca: Al convegno ero stata invitata per parlare di un progetto di teatro sociale realizzato come Università Cattolica in una scuola dell’infanzia con un’altissima presenza di bambini stranieri, alla periferia di Milano. Un’esperienza in cui, con Antonio, avevamo deciso di rinunciare alle parole per affidarci al potere del corpo e degli oggetti, per creare un momento festivo in cui bambini, maestre e genitori potessero incontrarsi in maniera “altra”, fuori da schemi e ritmi quotidiani.

Il mio intervento si chiudeva con una citazione di Luce Irigaray: «la capacità di non limitarci al nostro linguaggio è il primo gesto di ospitalità nei confronti dell’altro». Una frase che parla di quello specifico lavoro, ma molto anche di me. In quei mesi avevo avviato con i miei soci di Alchemilla, un progetto che ci spostava dalla pratica familiare del teatro e ci apriva a quello dell’arte visiva. In alcuni laboratori teatrali realizzati nelle scuole dell’infanzia avevamo scoperto la capacità dei bambini, anche molto piccoli, di cogliere il “sentire” e l’intenzione che gli artisti hanno messo nelle proprie opere. Di fronte a
The deep di Pollock, senza esitazione, Matteo, 4 anni, ci aveva parlato di un crepaccio molto profondo a cui dovevamo fare attenzione, se volevamo saltare dall’altra parte e non caderci dentro. Difficilmente avremmo potuto trovare parole più semplici e al tempo stesso più efficaci per spiegare quell’opera. Fino a quel momento le scoperte dei bambini erano diventate spettacoli teatrali, di cui loro erano autori. Sul palco agivano in completa autonomia, senza l’aiuto nostro o delle maestre. In questo modo raccontavano alle famiglie il loro incontro con l’arte. Ma la potenza di uno spettacolo teatrale è anche la sua fragilità. Arriva a chi condivide il qui e ora dell’esperienza. Come portare ciò che i bambini sapevano cogliere, sull’arte e non solo, a più persone possibili? 

Maneggiavo queste riflessioni il giorno in cui ho conosciuto Elena.

Elena: A quel convegno sedevo imbarazzata e nervosa, osservando le persone attorno a me, cercando di individuare gli altri relatori per capire, da loro, quale fosse l’atteggiamento più opportuno da tenere. Avrei dovuto parlare subito dopo la pausa caffè, cosa che mi dava un piccolo, significativo vantaggio. Subito prima, da programma, Francesca Gentile, Università Cattolica del Sacro Cuore, con un intervento dal titolo Pedagogia povera e mondi fragili. Percorsi universitari e laboratori nelle periferie milanesi. Francesca mi rapì: il suo racconto, delicatissimo e meditato, portava direttamente dentro realtà complesse, quelle delle scuole di periferia in cui etnie, culture, lingue e religioni si mescolano continuamente.

Ciò che più mi colpì del racconto, fu quella capacità di ascolto che, si percepiva, precedeva ogni azione, quel senso di sacro che trasformava ogni gesto in una liturgia. Nelle esperienze raccontate da Francesca, i bambini spesso non parlano: il linguaggio non è un elemento di coesione per chi viene da contesti così culturalmente lontani. Quei bambini per comunicare usavano il loro corpo e gli oggetti trasformati in simboli potenti. Appena Francesca finì di raccontare, mi alzai. Era arrivato il momento della pausa caffè. Me la ritrovai di fronte e, di istinto, mi presentai. Ecco, quello è stato per me il momento zero.

Sono passati mesi da quel momento e servirebbe molto spazio per raccontare il modo in cui, esattamente, come accade in una reazione chimica, quei discorsi davanti a una tazzina di caffè abbiano generato altre azioni, altri discorsi, nuovi progetti.

A distanza di un anno credo, fermamente, che quell’incontro non sia avvenuto per caso: mi ha profondamente cambiata, mi ha portato ciò che, ancora, non avevo, restituito uno sguardo più limpido sulle cose, molto spesso messo in crisi, ma anche molto aiutato a correggere la direzione del mio agire.

Francesca: Quando i numi tutelari, che ti guidano e proteggono, sono gli stessi, non puoi fare finita di niente. La relazione di Elena ad Asti si chiudeva con una citazione di Chandra Livia Candiani, il cui libro Dove sono le parole è sul mio tavolo di lavoro da anni.

Elena aveva nella sua borsa degli attrezzi l’esperienza fatta nelle scuole elementari. Laboratori in cui l’incontro dei bambini con gli artisti e le loro opere avviene nella più assoluta serietà, senza edulcorazioni e banalizzazioni. E portava con sé il profondo rigore progettuale della sua formazione di architetto e una innata capacità comunicativa. Ma soprattutto, aveva voglia di scompaginarsi. Dal canto mio ciò che potevo mettere in comune era un saper fare maturato negli anni in cui convergono la potenza del corpo e della teatralità, le ricadute sociali dell’esperienza artistica, il valore dei riti e della dimensione simbolica nella costruzione di una comunità.

Elena: Che c’entra tutto questo con Kandinsky, però? Francesca e i suoi soci, in quel momento, stavano lavorando, a un progetto ambizioso nell’ambito del bando di Fondazione Cariplo, IC: innovazione culturale: Artoo: l’arte raccontata dai bambini. Volevano realizzare, attraverso l’uso delle nuove tecnologie, un processo virtuoso che permettesse di raccogliere i rimandi dei bambini sulle opere e creare, attraverso di essi, un racconto collettivo in grado di avvicinare all’arte anche famiglie che normalmente non frequentano i musei.

Ecco. L’arte. L’anello che ci ha legate. I nostri due approcci rappresentavano due modalità di accesso all’arte, due porte da cui entrare in quel mondo, due complementari livelli di lettura. Era come se le due tessere si incastrassero.

Sono stati mesi di telefonate, di riunioni letteralmente “on the road”, di prove e verifiche: alle sensazioni iniziali doveva seguire la decisione, consapevole e coraggiosa, di incrociare le mani in un’azione congiunta.

Francesca, Elisa ed Alberto mi avevano ufficialmente chiesto di co-progettare la sezione Attività del progetto. Nel frattempo il Mudec aveva concesso di poter sviluppare il testing sulla mostra in apertura da lì a pochi mesi: Kandinskij, il cavaliere errante.

Vasilij Kandinskij, Il cavaliere (San Giorgio) 1914-15.

Quindi avevo un tema, avrei dovuto lavorare sul fondatore della pittura astratta e avrei dovuto farlo immaginando percorsi per bambini piccolissimi. Mi era stato proposto altre volte, ma avevo sempre tergiversato: è una scelta che implica la definitiva capitolazione nei confronti di un approccio all’arte che non passa attraverso la trasmissione di nozioni e dati, ma che lascia segno solo se si trasforma in un’esperienza attiva.

Dovevo, quindi, immaginare di portare quei bambini dentro un quadro di Kandinskij, immaginare che, attraverso quell’immersione, potessero loro stessi diventare autori di un’opera capace di ricreare l’esperienza artistica del pittore russo. Dovevo abbassarmi al livello dei bambini piccolissimi, liberandomi dalle strutture di dati e nozioni.

O forse, parafrasando Korczak, dovevo innalzarmi fino all’altezza dei loro sentimenti. Ed è stata, forse, questa la parte più difficile.

Perché quando si incontra Giorgio, 4 anni, che vede nel quadro Violet Wedge delle meduse, bisogna faticare – e non poco- per non intervenire dicendo: «Impossibile!». Per poi rimanere di stucco nel leggere ciò che la critica ufficiale riporta, che, cioè,  proprio le meduse generano alcune delle forme disseminate nelle sue improvvisazioni astratte.

Vasilij Kandinskij, Violet Wedge, 1919.

O è altrettanto difficile capire come, senza alcuna conoscenza pregressa, Gianmaria, 5 anni, veda in Grey Oval una grotta, con un mare in tempesta solcato da barche che «vanno a sbattere», riprendendo esattamente non solo le letture a posteriori della critica, ma le intenzioni stesse del pittore che usa quell’ovale come una cornice che contiene e si oppone a quella “turbolenza” interna.

Vasilij Kandinskij, Grey Oval, 1919.

Per mesi abbiamo raccolto, documentato, incrociato le esperienze. Francesca, Elisa e Alberto nelle aule di alcune delle scuole dell’infanzia di Milano, io a casa, servendomi delle mani e degli occhi di Bianca, mia figlia, e di Caterina, la sua amica del cuore, rispettivamente di 4 e 5 anni.

Poi è arrivato il momento di capire se attraverso quella porta avrebbero potuto passare altri bambini.

Il 10 giugno, la libreria La libellula ha aperto le sue, di porte, a noi, alle nostre valigie piene di ritagli e di forbici, di racconti e di immagini, ma soprattutto a 12 bambini di Milano e ai loro genitori.

Arriviamo in un primo pomeriggio caldo e assolato: iniziamo dal fuori, dalla vetrina, da quello spazio, cioè, che pone in relazione il dentro e il fuori. La foderiamo di nero, come nero è il fondo su cui campeggiano i circles di Kandinskij.

Vasilij Kandinskij, Several Circles, 1919.

Ma, nel nostro quadro, quei circles sono buchi attraverso cui guardare dentro, dentro il quadro. Mentre fustello questi piccoli spioncini, la gente, di passaggio si ferma. I bambini rallentano, costringendo le mamme ad un cambio di passo, a tornare indietro.

Qualcuno, più sfrontato, si affaccia cercando di capire cosa succede dentro quei buchi.

Francesca: Elena mi parla fin da subito del potenziale di quella vetrina. Del ruolo che può svolgere. È l’ennesima conferma della preziosa complementarietà dei nostri sguardi. Normalmente quando si progetta un laboratorio si pone attenzione a ciò che deve accadervi dentro. L’esperienza mi ha invece insegnato che cruciali sono le soglie. Il modo in cui accogliamo le persone con cui lavoreremo, il modo in cui sappiamo rendere un luogo protetto e al tempo stesso permeabile. Quante istituzioni culturali sono deserte perché intimoriscono, non ci fanno sentire adeguati, hanno soglie inaccessibili? La vetrina di un negozio dialoga con la città. È una finestra tra il dentro e il fuori. Dovevamo proteggere l’intimità di ciò che sarebbe accaduto dentro, ma non separarlo dal resto della vita che scorreva là fuori. Incuriosire e non escludere. Suggerire e non sbandierare. La sua scelta di creare finestre dalle forme geometriche era perfetta. Allo stesso modo, all’interno della libreria un appendiabiti era diventato un albero da cui far dondolare amuleti pronti a sancire l’ingresso.  Ogni dettaglio dell’allestimento aveva il compito di mettere a proprio agio e facilitare. Di fare in modo che ciascuno si sentisse accolto, preso in considerazione e trovasse il proprio spazio. Ciascuno: bambini e genitori.

Elena: Presto sono le 15. I bambini arrivano alla spicciolata, vagamente intimoriti, portati per mano da genitori ugualmente disorientati: la presa si scioglie e uno dopo l’altro i bambini entrano nel cerchio di cuscini preparato al centro della libreria. Serve una chiave, però, per entrare in quel cerchio: è una collana, un poco di spago e un piccolo ritaglio di acetato colorato, al tempo stesso anticipazione di ciò che sarà e talismano magico.

Gli accordi prevedono che i genitori se ne vadano per la durata della prima parte del laboratorio: la loro presenza finirebbe per condizionare i bambini, ostacolando la consapevolezza di essere parte di una creazione completamente autonoma.

Quando lo spazio ridiventa solo ed esclusivamente nostro, Francesca ed Elisa si fanno portavoce di Artoo, il timido orso che vive nella soffitta di un museo. Artoo ha scoperto negli anni che i bambini sono capaci di intuire il vero significato di un’opera e di spiegarlo con parole semplici e chiare. Allora ha deciso di chiedere il loro aiuto quando ci sono quadri che non è in grado di comprendere. Ecco, oggi chiede aiuto ai bambini della libreria. Aiuto per comprendere alcune opere del Sig. Kandinksij.

Da alcune valigette escono due iPad: il primo si illumina mostrando i quadri colorati e musicali del signor Kandinskij, il secondo ha il compito di raccogliere la voce dei bambini affinché arrivi fino alla soffitta dove Artoo raccoglie tutte le voci nei barattoli di yogurt ai mirtilli di cui è ghiotto.

Francesca estrae uno di questi barattoli. Dentro, una sfera luminosa e pulsante.

Cala il silenzio. Qualcuno si chiede se poi, una volta finito il laboratorio, potrà riaverla, la voce; altri, i più razionali, si interrogano su come faccia a finire lì dentro. Poi, la spia rossa dell’iPad si accende e uno dopo l’altro, tentennanti prima, elettrizzati poi, i bambini cominciano a raccontare ad Artoo le loro impressioni sui quadri, impressioni che verranno chiuse nei barattoli in soffitta. Subito dopo, finito il giro, riascoltiamo insieme le registrazioni: un momento importante specie per i più piccoli per i quali ascoltare la propria voce è sempre un’emozione grande. Grazie alle parole dei bambini i quadri si animano e iniziano a danzare davanti ai nostri occhi. Le forme geometriche di Violet Wedge e di Violet Green smettono di essere figure piane per diventare veri e propri personaggi.

I più svegli cominciano a capire: forse quella forma che ogni bambino tiene appesa al collo può essere altro, diventare parte di una storia. Ma può anche, quella forma, generarne un’altra analoga se, al lucido, si avvicina una pila. La scoperta produce un brusio sottile, un’eccitazione palpabile. Uno dopo l’altro i bambini provano: le ombre colorate cominciano a muoversi sul telo bianco su cui tutti siamo seduti, prendendo davvero vita come il signor Vasilij si augurava.

Estraiamo forbici dalle lame più disparate, punches, vecchi ritagli.

A ogni bambino è affidato un foglio di carta, trasparente e adesivo: lì, su quella base, i pezzi che ritaglieranno diventeranno personaggi di un racconto. Non è posto limite alla fantasia, non ci sono schemi da rispettare, ma ben presto ogni bambino trova il filo da cui il suo racconto si dipana. Sono forme geometriche, rettangoli, quadrati, cerchi. Ci sono ritagli bucati, listelli dentellati. Ci sono forme create ex novo e altre scovate in mezzo ai ritagli scartati dagli altri. Si cerca una composizione, un equilibrio che renda possibile il racconto. O, ancora, il racconto si fa strada facendo, mano a mano che le basi si riempiono di “personaggi”, in una sorta di improvvisazione teatrale. Lo sfondo a terra è bianco, colore che, non a caso, Kandinskij definisce: “un mondo così alto rispetto a noi che quasi non ne avvertiamo il suono, è un nulla prima dell’origine”. Lì, su quel nulla, le storie si originano, i pieni suonano anche grazie ai vuoti che ne amplificano la presenza.

Le prime due ore passano veloci e silenziose: in sottofondo il cigolio delle forbici e il fruscio dei fogli. Pochi i bambini che parlano, i più sono immersi in una concentrazione muta.

Francesca: Nella creazione della propria personale opera a partire dalle forme e dai materiali che hanno a disposizione, i bambini mostrano immediatamente talenti e fragilità. C’è chi non arretra di un passo rispetto alle proprie scelte anche se la realizzazione è difficile, chi ha bisogno di essere confermato, chi esplora nuove possibilità e chi cerca modalità più rassicuranti.

Noi ci muoviamo nello spazio in silenzio, con tutti i sensi in allerta per sentire la direzione dell’energia, per cogliere silenziose richieste di aiuto, per sostenere passi incerti. Ma restiamo sullo sfondo nel movimento creativo che ciascuno ha messo in atto. Nel frattempo sono rientrati i genitori, ora incuriositi e vagamente intimoriti, attenti a non rompere quell’atmosfera sospesa. È un momento delicato: il nostro compito è permettere ai bambini di condividere tra loro, prima, e con i genitori, poi, quanto creato senza fare di questo momento una mera esposizione. Non è il 'bravo' fine a se stesso che ci interessa, ma che i bambini traghettino mamme e papà dentro l’esperienza appena vissuta. Che li portino a passeggiare dentro i quadri di Kandinskij.

Elena: I genitori restano seduti, uno a uno i figli narrano i racconti racchiusi nelle opere tenute saldamente con le mani. Vedo occhi commossi, io per prima sono colpita da quella liturgia serissima che si compie davanti a me.

Ora però è tempo di introdurre il momento più importante. L’arte deve uscire dai quadri e attraverso la rielaborazione compiuta dai bambini, arrivare a contagiare anche gli adulti, smuoverli dalle loro rigidità, vincere le naturali mature ritrosie.

Attorno a ogni bambino si raggruppano gli adulti che lo hanno accompagnato – genitori, zii, amici: entrano nel cerchio, trovano il proprio spazio, si preparano a loro volta a lasciar parlare le mani. Il gioco si ripete daccapo, guidato ora, dai bambini che suggeriscono le azioni, aiutando i genitori a capire. Ogni componente del piccolo gruppo sceglie un ritaglio e lo colloca sul fondo. Ogni ritaglio è un personaggio che deve necessariamente mettersi in relazione con le altre forme già presenti sullo sfondo bianco. All’incertezza iniziale segue una consapevolezza sempre più piena di ciò che si sta facendo. Ancora una volta, le basi si riempiono di pezzetti colorati, ciascuno dotato di un preciso ruolo e di una voce propria. Sono bambini e genitori, stretti gli uni agli altri, al termine del lavoro, a orchestrare quell’esercito di ritagli informi e a dare loro vita, generando, così, una nuova storia.

Capiamo che quello è l’istante in cui celebrare la bellezza che si è creata. Abbassiamo le luci e lentamente apro una vecchissima lavagna luminosa.

Ogni gesto è pesato perché il momento abbia il giusto valore. Il fascio di luce illumina la composizione che i bambini hanno creato con i loro genitori. Diversamente da prima, però, le forme non sono fissate al foglio, sono libere. I bambini stessi le muovono condividendo, con noi, che ascoltiamo, il racconto che hanno visto nascere dai ritagli. Attraverso le proprie voci narranti, dirigono il fare degli adulti, entrano in quei quadri viventi diventando parte attiva di quel processo che dall’opera d’arte si genera e all’opera d’arte ritorna.

La sensazione, a laboratorio finito, è che qualcosa di potente sia avvenuto.

Vorremmo applaudire, gridare, ma al piano di sotto è in corso uno spettacolo e ci è stato intimato di non fare rumore. Francesca, allora, insegna ai bambini a farlo come fanno le persone affette da sordità: ed è subito uno sventolare di mani in aria, silenzioso e toccante.

I genitori indugiano, chiedono, incuriositi, di saperne di più. Sono, però, i bambini a raccontare: le nostre parole non servono più.

Quasi ci dimentichiamo di consegnare loro il piccolo regalo che abbiamo preparato per salutarli, parallelo di quella collana con cui sono entrati nel cerchio. Questa volta è una cartolina indirizzata a ciascuno di loro. La firma è di quel signor Kadinskij che hanno imparato a conoscere. La dedica riporta: «Per anni ho cercato di ottenere che gli spettatori passeggiassero nei miei quadri: volevo costringerli a dimenticarsi, a sparire addirittura lì dentro»

Ma, accanto alle parole, intrappolato in una finestra trasparente, c’è un piccolo pezzo di acetato colorato: serve a ripetere, ancora e ancora, ovunque e dappertutto, il grande e serissimo gioco dell’Arte.