Verso l’estate, con alti schiamazzi

[di Michele Longo]

A maggio non basta un fiore.


Ho visto una primula: è poco.


Vuoi nel prato le prataiole:


è poco: vuole nel bosco il croco.


È poco: vuole le viole; le bocche


di leone vuole e le stelline dell'odore.

[Giovanni Pascoli]

The House of Four Seasons (Roger Duvoisin, 1956).

Noi maestre* dell’emisfero Boreale abbiamo in comune un’ossessione: le stagioni. Da Oporto a Rostov, da Orano a Wimmerby, da Brest a Brooklyn induciamo le Creature a raccogliere foglie secche e castagne matte, le famiglie a comprare ovatta e matite bianche, gli alberi di Munari ritagliati in carta da pacco a germogliare e fiorire, gli ippocampi a intonare fanfare d’addio. A parte il fatto che siamo tutte matte, io credo che la fissazione alle stagioni sia un tentativo di rimanere in qualche modo aggrappate al flusso del tempo, nonostante gli effetti disturbanti del perenne jet-lag dovuto allo sfasamento tra anno solare e anno scolastico. I libri di testo ci vengono incontro con i percorsi di lettura immancabilmente scanditi da autunno a estate, che poi le maestre indietro come me si trovano a fare la leggenda dei giorni della merla in pieno aprile. Ai bambini le stagioni sembrano una di quelle cose inventate per i bambini, non ci credono, e se ne interessano pochissimo.

Questo, normalmente, per tutti i cicli di cinque anni mandati in terra dai tempi della scuola in cuneiforme. Quest’anno, tra altri e più tristi fatti, marzo è arrivato, e noi le maestre non ci abbiamo fatto molto caso. Tra l’altro le cartolerie erano chiuse. È arrivato aprile, e noi non ce ne siamo accorte: stavamo in casa con i device, intente a perfezionarci l’incarnato verdastro del lockdown. Gli ippocastani sono fioriti, e poi i glicini, sono arrivati i pappi dei pioppi dalle finestre: noi, niente. Ciabattavamo strette in maglioncini d’angora tutti pallini e inguardabili plaid di pile, segretamente in competizione per le occhiaie perfette, quelle ad angolo giro. Poi sono spuntati i gelati. Erano gelati raccontati da bambini che erano usciti a mangiare gelati. Un giorno uno, il giorno dopo tre, alla fine della settimana tutti. Qui, almeno le più sgamate avrebbero potuto finalmente capire, avvertire subito le altre che bisognava proclamare l’arrivo di maggio e arrenderci, come ogni anno, alla fine della scuola. Invece, risucchiate dagli schermi, mutate ormai in creature abissali primitive e debolmente luminescenti, come Ada nella sua prima vita da celenterato nel «buiobrodo» [il libro, meraviglioso, è Le vite di Ada, di Gaia Formenti, Marco Piccarreda e Sarah Mazzetti (Topipittori 2019)], abbiamo continuato ad officiare meeting di classe in videoconferenza come se stessimo ancora offrendo ai bambini prigionieri in casa la preziosa occasione di vedersi. E proprio non capivamo le telecamere disattivate, il brulicare degli sfondi virtuali, il fiorire di inquadrature anomale: a testa in giù come i pipistrelli, piedi sul tavolo, iride e pupilla macro, solo una mano protesa in alto come di uno che affonda nelle sabbie mobili, leccate alla lente della cam, fermo immagine sulle papille, sbadigli da ippopotamo, dita in esplorazione nei recessi del naso. Infine, giugno è tornato col profumo inebriante e irrimediabilmente lirico dei tigli, e i bambini sono volati via, via da casa, via dal trespolo della Didattica A Distanza, via da noi, verso l’estate, con alti schiamazzi e ciao con la mano.

Pochi giorni fa abbiamo avuto la più bella assemblea di classe della mia vita da maestro. Un’assemblea di classe a distanza. Ci siamo detti, tra maestre e genitori, grazie. Era gratitudine vera che passava dalle connessioni. Ne sono ancora un po’ stordito. Ce l’abbiamo fatta, ci siamo detti, ce l’abbiamo fatta insieme. Non ne traggo visioni, previsioni, insegnamenti, auspici: mi godo il mix di soddisfazione e sollievo, per qualche ora.

Le Quattro Stagioni: Charles Le Brun (1674), Anonimo (fine XVIII sec.), Alphonse Mucha (1902).

I bambini li ringrazio qui, nei titoli di coda, in ordine di apparizione alla mia mente adesso: grazie ad Alessandra per la foto di classe disegnata che dice molte cose di lei e di noi, grazie a Marina per averci fatto sapere che i compiti le piacevano e per la calma nella tempesta, grazie Roberto per avermi raccontato le sue letture e per aver guardato il video di Tatjana Nikolaeva, grazie a Alina per avermi raddrizzato molte giornate storte con i suoi video, grazie a Rosa per aver resistito alle malinconie e per averci raccontato sempre qualcosa,  grazie a Ginevra per il Grillo Parlante e per i libri in gotico della bisnonna, grazie ad Anna per averci rivelato i suoi interessi musicali e botanici, grazie a Jamie per i mostriciattoli e per il travestimento da narratore, grazie a Maddalena per il video didattico sulla morte dell’australopiteco Lucy e per il violino, grazie a Marco B. per le interpretazioni teatrali della maestra e di Mastro Ciliegia, grazie a Corrado per la voglia di raccontarci i suoi mesi all’aperto con le tartarughe, grazie a Simona per aver tenuto duro e per la parete psichedelica, grazie ad Antonella per essersi innamorata della preistoria a distanza, grazie a Marco L. per la pazienza e per certe invenzioni, grazie a Elia per avermi chiesto molte volte come stavo e per il personaggio del DJ tamarro, grazie a Federico per essere stato il catalizzatore degli affetti del gruppo, grazie a Bruno per non aver perso la voglia di intervenire e per la storia dei mostri dei tubi, grazie a Lavinia per le poesie e per la vecchietta ficcanaso di Pinocchio, grazie a Tommy per i telegiornali e per il dada quotidiano, grazie a Noah per aver canticchiato in sottofondo le musiche dei videogiochi ad ogni collegamento, intonatissimo, perché senza una colonna sonora non si va da nessuna parte.


*L’unica cosa che a distanza cambia poco è la mia indisponibilità a usare, come dovrei, il plurale maschile, scrivere noi maestri. Come se la scuola fosse una tavola di Tom of Finland.