Il giorno che non avrò più voglia di salire su un albero

Siamo quasi agli sgoccioli di questo decennale degli Anni in tasca che oggi festeggiamo con una delle ultime uscite C'è questo in me, di Silvia Vecchini. Abbiamo scoperto per caso che Silvia lo aveva scritto. Un giorno le chiedemmo se aveva voglia di scrivere un Anno in tasca per noi, e la sua sorprendente risposta fu: "Ma io l'ho già scritto". "E perché non ce lo hai mai detto, fatto leggere?" le abbiamo chiesto. "Perché lo avevo fatto come esercizio per me". Dopo che lo abbiamo letto, le abbiamo chiesto se potevamo pubblicarlo. Fortunatamente, ha detto di sì.

La messa nel campo

Una volta decidiamo che si può dire messa anche da sole.

Prendiamo un sasso e diciamo che è l’altare. La domenica rubiamo un foglietto della messa e lo leggiamo tutto a voce alta in mezzo agli olivi. A turno, una di noi legge le letture e le preghiere. Nel foglietto non ci sono le parole della consacrazione del pane. Lo troviamo giusto. C’è comunque un grande raccoglimento. A me sembra anche di capire meglio le parole in mezzo al campo perché Gesù parlava spesso all’aperto.

Col tempo sorgono problemi sull’interpretazione del ruolo del prete. Il Vangelo lo legge solo il prete. Ci spacchiamo. Per alcune è giusto leggerlo lo stesso anche se siamo piccoli e anche se siamo femmine, per altre no. Per altre ancora stiamo commettendo un vero peccato. Lo scisma piega la nostra esperienza. Ci sciogliamo.

Gli alberi

Nel campo, gli olivi sono le nostre case. Ognuna di noi sceglie un albero e lo abita. Mette una corda per dondolarsi, porta un gioco. Ci scambiamo visite. Gli olivi più contorti sono i più belli. Alcuni sono spaccati, divisi in due. Il tronco spaccato e liscio fa da scivolo. Ci sediamo tra i rami, ci chiamiamo. Del nostro olivo sappiamo tutte le prese sicure. Mi sembra impossibile che arrivi un giorno che non avrò più voglia di salire su un albero.

Marmellata

Nel campo si fa la marmellata. Nelle nostre passeggiate andiamo per more e poi accendiamo un fuoco. C’è chi porta il pentolino, chi lo zucchero, il mestolo, chi i vasetti di vetro. C’è chi è furba e vuole fare il capofuochista e manda gli altri a fare la legna mentre lei sta seduta. Di tante more raccolte, di tanta legna, di tanto tempo passato a mescolare, alla fine del pomeriggio viene fuori mezzo vasetto di marmellata. Prendiamo un cucchiaio e lo mangiamo tutto sedute sul campo.

Il rito

In primavera stiamo fuori tanto tempo. Ci allontaniamo con la scusa di raccogliere fiori. A fasci portiamo a casa fiori selvatici con lo stelo lungo. Viola, fuxia, bianchi, gialli. Fiori senza nome perché nessuno ce li insegna. Sappiamo solo i nomi di alcuni come i nontiscordardime, le lacrime della madonna, le mani di Gesù, i botton d’oro, le bocche di leone, le violette.

Quando ci salutiamo, rimasta da sola nel campo, faccio un rito da me. Appoggio i fiori in terra, ne prendo alcuni, ne stacco i petali dalle corolle finché non ho le mani piene e poi inizio a girare. Quando ho perso l’orientamento e vedo solo l’azzurro del cielo e il verde del prato vorticare, lancio tutti i petali in alto. È la mia offerta a Dio. Alla fine cado nell’erba e sembra che ancora tutto giri. Poi, un po’ a scatti, il mondo si ferma. Torno a casa e i fiori che restano li regalo alla mamma.

Bianco, rosa, rosso

Passando per i campi mangiamo quello che possiamo. Frutta acerba, erbe che conosciamo. A volte facciamo corolle, strappiamo fili d’erba e fischiamo, soffiamo sui soffioni, cogliamo papaveri ancora chiusi e giochiamo a indovinare il colore dei petali che sono chiusi dentro come minuscole lenzuola appallottolate. Bianche, rosa o rosse. Apriamo la pelle verde del bocciolo. È un gioco che ha a che fare con l’amore. Ma è più la curiosità di guardare dentro. Sento un pizzicore al petto quando butto via il papavero aperto prima del tempo.

La natura ci perdona ogni cosa.

I chiodi

A mio padre invece regalo i chiodi e le viti che trovo in terra. Ha uno sgabuzzino dove lavora quando non è in banca. Lì tiene il trapano, il cacciavite e il martello. Sul soffitto c’è solo una lampadina appesa al filo. Mio padre ha una cassetta con chiodi e viti ma ne ha anche un’altra con chiodi e viti storti e arrugginiti. Li recupera. Non butta niente. Di tante cose dice: È ancora buono. A me piace che trovi buone le cose vecchie e storte. Così se camminando vedo in terra qualcosa di simile glielo porto e lui mi ringrazia, lo raddrizza con le tenaglie e lo mette a posto. Mio padre è direttore di banca. Io non capisco mai se siamo poveri o ricchi.

Il latte

La mattina, se mamma entra presto a scuola, resto per pochi minuti a casa da sola. Poi devo andare a scuola a piedi, tanto è vicina. Faccio colazione ma il latte, quando sono sola, non va giù. Lo butto nello scarico. Vado a scuola e aspetto le mie amiche seduta su un olivo che ha un tronco curvo che somiglia a un seggiolino. Spesso mi scordo di chiudere la porta e quando torna la mamma trova tutto aperto, spalancato.

Le erbe

Le erbe me le fa conoscere mia nonna Iolanda. Dondola un poco mentre cammina perché ha un problema all’anca. Andiamo su, nella strada in collina. Lei ha un piccolo coltello in tasca. Raccogliamo erbe selvatiche, mi dice i nomi in dialetto: gruspigno, centerbe, caccialepri. Mi piacciono le erbe, anche crude, anche cotte che diventano amare. Mi piacciono i semi di girasole e di zucca. I frutti selvatici che stacco dalle piante, piccole prugne acerbe, albicocchi, corbezzoli. Se incontriamo queste piante lei mi fa salire e raccogliere. Teniamo i frutti nelle due tasche che ha nel grembiule.

Con mio padre invece andiamo a cercare il muschio per il presepe di Natale oppure gli asparagi in primavera. Cogliendo gli asparagi mi pungo un poco. Così mi aiuta lui e poi mi fa assaggiare la punta di un asparago di bosco perché, dice lui, disseta. È amarissima. Per me è buona.

Le rose della Pia

Sono bianche. Una siepe sul confine dell’orto del babbo. A maggio fiorisce tutta. È bianca e profumata. Raccogliamo i petali caduti, prendiamo le rose già aperte, quelle che presto appassiranno. Una volta stacco un petalo da una rosa ancora bella. Fa un piccolo schiocco. Mangio il petalo come se facessi la comunione.

Tutta pizzi e trine

Alle altalene giù al lago incontriamo una bambina vestita come quelle bamboline con la faccia e le mani di ceramica e le gonne gonfie e larghe. Ha le calze a maglia chiarissime, sottili sottili. Tutta pizzi e trine, dice la mamma. Io sono in canottiera e calzoni corti, salgo e scendo dallo scivolo, scavo, salto dall’altalena e gioco ad acchiapparella. Ho dei sandali di gomma e i piedi sporchi. La bambina vorrebbe seguirmi ma sua mamma, con delle ciglia lunghe e nere e il viso bianco di cipria, la sorveglia che non si sporchi, che non rompa le calze, la chiama e la richiama. Mia mamma, che la conosce bene, le dice: “Dai, lasciala giocare”. La mamma della bambina dice a voce alta: “I bambini sono lo specchio dei genitori”.

La pittura

Mia mamma disegna poche cose. Pere e mele soprattutto. A volte però compra alla Standa dei quadri con dei disegni già tracciati, con un segno leggero come se quello di una matita, e li riempie usando pennelli e colori a olio. Una volta prende un ritratto di una bambina con i capelli a caschetto e la maglia rossa. Lo colora tutto. L’espressione della bambina è concentrata e un po’ triste e lei non riesce a cambiarla. Peccato perché un po’ mi somiglia e tutti, quando lo vedono, credono che abbia fatto un ritratto a me. Ma io so che sotto c’era già il segno e che in altre case c’è una bambina coi capelli corti che somiglia a questa che non sono io.

Però mi piace che la mamma dipinga, non mi interessa come. La volta più bella è quando dipinge con un cavalletto all’aperto, nel borgo dove è nata. Lo posiziona davanti alla sua casa, disegna da sola lo scorcio e la casa di fronte. Quando dipinge si firma Serena e non Serenella. Mi piace anche questo, come se, quando dipinge, qualcosa in lei cambia, non tanto, quello che è giusto. Poi però smette e a me dispiace tantissimo.

L’elastico

La domenica mattina mi sveglio ma aspetto nel letto di sentire il rumore delle tazzine del caffè. È il babbo che lo prepara e lo porta alla mamma. Allora vado anch’io e m’intrufolo nel letto. Con il babbo faccio il gioco di stare in piedi sul suo petto. Posso anche camminargli sul torace lui mi tiene le mani. Poi gli chiedo che cosa è il segno sulla coscia. È una cicatrice bruttissima, cucita male. Penso sempre che sia la bocca di uno squalo invece lui mi dice che da piccolo l’ha investito l’unica motocicletta del paese e gli hanno messo i punti senza anestesia. Il babbo è forte.

Una volta mentre la mamma si alza dal letto, il babbo per scherzare le tira l’elastico delle mutande. Ridono tutti e due e anch’io.

Una volta sul letto grande il babbo mi spiega l’ora sulla sua sveglia rossa. Se mio padre mi insegna una cosa io sono così emozionata che dico sempre che ho capito ma non è vero. Come per attraversare la strada. Mi servirà una seconda volta.

I pulcini

Per la promozione mi faccio regalare dei pulcini nani. Li allevo io. Anche la mia amica Tullia ha dei pulcini. Chiamiamo il prete, don Bruno. Vogliamo battezzarli. Lui ride e dice che verrà a prendere il caffè a casa mia. Arriva con l’aspersorio e li bagna e bagna anche noi. Ci regala un santino di Sant’Antonio con il maiale e altri animali.

Io e Tullia ci troviamo l’estate come due balie con i bambini. Li facciamo beccare, dormire in una scatolina. A volte li teniamo in grembo, nascondono la testolina nell’incavo dell’avambraccio. Pigolano, chiudono gli occhi. Crescono. Iniziano a fare le uova. Un giorno troviamo in tutto dodici minuscole uova. Le portiamo da mia mamma che prepara per noi una frittata che sta sopra un piattino.