Oggi muoviamo i pupazzi

[di Stefano Rini]

In questo momento di blocco di tutte le attività abbiamo dovuto fare i conti con una scuola che continua sì a funzionare, ma con metodi e attività e soprattutto luoghi che non sono i suoi. Anche i bambini più piccoli hanno avuto un account, hanno una piattaforma dove i maestri comunicano e inviano possibili attività. Anche nella scuola dell’infanzia, dove non esiste obbligo di insegnamento. È qui che incominciano in qualche modo i guai, perché bisogna mettersi in gioco tutti. La cosa impressionante è stata vedere questa grande mobilitazione generale. Tutti - veramente tutti - si sono dati da fare, ognuno secondo le proprie capacità, anche con momenti “drammatici”, videoconferenze di venti bambini di cinque anni con i microfoni aperti durante le quali Mei, mia figlia di cinque anni, scriveva su dei post-it le parole «Io volevo parlare prima!». Si noti: non sa ancora scrivere, ci chiedeva di dettarle lettera per lettera vista l’urgenza di comunicare. Straziante, sono stati momenti che sono passati e non si ripeteranno.

Tutti chiusi in casa, a dividere gli spazi, a condividere tutto, a litigarsi - gli adulti - qualche piccolo sprazzo di lavoro dandosi il testimone delle attività da fare con i bambini, senza cedere il passo e accettare di parcheggiarli di fronte a intrattenimenti passivi, come televisione o videogiochi. I nostri bambini sono piccoli - cinque e sette anni - e, soprattutto con noi, non sono abituati al fatto che organizziamo loro anche il tempo dell’apprendimento. Non in modo così continuativo. Fanno entrambi il tempo pieno e finita la scuola cerchiamo soprattutto di tenerli fuori di casa quanto possibile. Ironico, vero? Non eccedere nella fruizione passiva per noi è un po’ una fissazione: io sono insegnante di scuola primaria, mia moglie è ricercatrice astrofisica, ma entrambi dedichiamo - ognuno nel proprio ambito - grande parte della nostra dedizione professionale all’organizzazione di laboratori hands on in cui si sperimenta liberamente con le mani, unendo tecnologie e artigianato, illustrazione e arte, per creare qualcosa di personale. Solo in questo modo i bambini si riappropriano della loro creatività intesa come spirito generativo e di indagine.

Servono alcuni ingredienti fondamentali:

  • Non-trasmissività: nessuna istruzione passo-passo, ma sempre minime indicazioni iniziali e libertà di ricerca e sperimentazione;
  • Il gioco (serio): questa è una dimensione - una condizione fondamentale per un ambiente educativo che si basi sulla creatività - che condiziona in modo assoluto il modo di porsi dei bambini. Se gioco posso fare errori, posso smontare e ricostruire. Se gioco non corro rischi ma accetto sfide. Se gioco è una mia decisione, e come dirigo quella decisione devo poter dirigere tutta la mia sperimentazione.

Anche per questo, se chi accompagna queste idee incomincia a essere troppo direttivo rischia di scontrarsi con grandi esplosioni di rabbia, rinunce, perché ha rotto una regola fondamentale. Purtroppo, i bambini  - anche piccoli, come i miei - hanno già formato un modello ideale per cui si associano alla scuola tanti di questi atteggiamenti negativi: perdita della guida, mera esecuzione (VS ricerca libera, sperimentazione), attività precostituita (e non open ended) e così via. A volte basta invece far vedere qualcosa di meraviglioso che accade, far intuire il meccanismo che ha generato quella nascita meravigliosa, per far nascere la voglia e la necessità di sperimentare liberamente, di approfondire quel modo di esprimersi, quel generatore di senso.

Poi bisogna solo cercare di essere meno adulti possibile. Non è una banalità. Perché noi adulti siamo castelli cristallizzati di idee e mondi che abbiamo lottato per costruire saldi e fermi. Abbiamo idee che ci sembrano giuste e ragionevoli su quello che pensiamo essere gioco, studio, lavoro, creatività e facciamo fatica, o meglio, rischiamo di non metterle mai in discussione, perché sono normali. In questo dovremmo guardare al bambino, non perché sia un filosofo e perché ogni sua parola sia ontologia o epistemologia; non perché ogni scarabocchio sia opera d’arte (lasciamo dire a loro quale scarabocchio è arte quale no, anche se poi alla fine saranno pochi i disegni scartabili, ne abbiamo una casa piena); piuttosto perché, se accompagnati e affiancati, i bambini non perdono quella loro capacità di essere ricercatori liberi, sperimentatori con pochi preconcetti sulle cose, o per lo meno preconcetti molto diversi dai nostri.

La nostra postazione per filmare.

Il cinema e la stop-motion, in particolare, sono esplosivi. Nella stop-motion si è prima di tutto spettatori di una magia, di un fermo-immagine o di un disegno che prendono vita in una successione. Anche in questo i bambini diventano immediatamente autori e non semplici fruitori, svincolati da tutte le sovrastrutture che noi adulti abbiamo riguardo il cinema, l’animazione, la stop-motion e i cartoni animati. Per loro tutto è immediatamente strumento di espressione e di traduzione del loro modo di intendere il mondo, in una storia. I bambini si raccontano continuamente nella loro enorme e complessa varietà di linguaggi. Tutti facciamo errori, perciò anche partendo con le migliori intenzioni dobbiamo essere coscienti di tutta la nostra storia di adulti che ci portiamo dietro, con le sue conoscenze, la rete di senso che abbiamo proiettato sopra (o sotto) tutto ciò che ci ha resi quello che siamo. Per i bambini è uguale: solo la loro codificazione, fortunatamente, non ha ancora dovuto fare troppo i conti con tutto ciò che ha guidato, invece, il nostro percorso di adulti.

Non si può spiegare l’errore: anche in questo, mostrarsi adulti capaci di sbagliare e non per questo incapaci di avere una nostra identità forte, non giudicati dall’errore ma stimolati dalla sua sfida, diventa un momento formativo fondamentale. Quindi, di fronte a quanto ci saremmo aspettati di fare con la stop-motion e l’animazione in generale, dobbiamo confrontarci con dei registi più liberi di noi. Con mia figlia ho incominciato disegnando, che è forse il mio linguaggio d’elezione. Mentre disegnavo sotto un iPad che inquadrava la scena, scattavamo fotografie con l’applicazione Stop Motion Studio. Esistono tante applicazioni per dispositivi mobili per creare filmati in stop-motion. Stop Motion Studio è forse la più completa, esiste sia per iOS che per Android.

Uno dei primi filmati che abbiamo fatto.

Io disegnavo (il mio intento era fare un disegno animato, che è quello che in qualche modo ho fatto), ma quello che ha fatto Mei è diverso: mentre in parte imitava me e disegnava dall’altra parte del foglio, ha da subito iniziato a mescolare il disegno con il movimento e lo spostamento di oggetti, i suoi oggetti. Sono piccoli giocattoli, oggetti per noi di poco conto, ma che lei usa spesso per creare veri e propri mondi, con ambientazioni e personaggi, storie e colonne sonore (cantate spesso in tempo reale). Questi oggetti hanno da subito creato una storia parallela ma che per lei era la storia, quella che voleva e che si sentiva di poter raccontare (il filmato, qui). È stato chiaro, uno o due giorni dopo, che per lei quell’attività, che era diventata da subito importante e che chiedeva ormai di fare quotidianamente, aveva assunto una natura diversa: da disegno animato era diventata pura stop-motion. Il giorno dopo (io non lo avevo capito ancora), alla proposta di fare un disegno animato lei ha risposto, sicura «No, papà, oggi muoviamo i pupazzi».

Non si disegna più.

In questo filmato è avvenuta una ulteriore magia (lo potete vedere qui), quella dell’applicazione del sonoro. Per Mei è stato chiaro da subito l’impatto del sonoro, che cambiava radicalmente la lettura dei filmati che facevamo, rendendoli capaci di comunicare in modo molto più completo. Il sonoro, inizialmente parallelo e simile all’oggetto che rappresentava (il suono del mezzo, il verso dell’animale), si è via via discostato dalla sua forma più propria per diventare un mezzo espressivo, uno dei due componenti di una metafora narrativa.

Cavalli impazziti di misericordia.

Su questo sonoro, inizialmente fatto di suoni associati al movimento dei pupazzi che orchestrava in modo molto audace, la mia regista ha iniziato subito a fare interventi personali, inaspettati ma potenti. Ha messo sé stessa e tutta la sua fisicità da subito nei film che faceva. Dapprima come intenzione e regia, poi come racconto (inserendo dei voice-over che raccontavano la storia), e per finire mettendo il proprio corpo sotto la fotocamera dell’iPad in modo da diventare lei stessa personaggio delle proprie storie (Mei regista, qui).

Effe, gi, acca emme i.