Perché leggere i miti ai bambini

La settima novità dell'autunno 2022 è un nuovo volume dell'Età d'oro: Filemone e Bauci, una metamorfosi di Ovidio, illustrata da Daniela Tieni e tradotta da Cristana Pezzetta che qui la racconta.

[di Cristiana Pezzetta]

Illustrazione di Daniela Tieni tratta da Filemone e Bauci di Ovidio, tradotto da Cristiana Pezzetta (Topipittori, 2022).

L’amore per i miti, la storia antica, le storie degli eroi hanno messo radici in me fin da ragazzina. Achille e Patroclo, la lotta tra Atena e Poseidon esercitavano su di me una fascinazione tale che mi estraniavo completamente dalla realtà, quando leggevo di loro. Sentivo che in quei racconti c’era qualcosa che mi riguardava, sebbene a volte non capissi affatto cosa fosse.

È da grande, all’università, che ho imparato a scavare in quelle storie, tornando alla sete provata dalla bambina che ero stata, e a scoprire non solo cosa, ma soprattutto come cercare. Così, quando ho iniziato a tradurre in parole sulla carta le storie che mi abitavano, mi è venuto naturale pensare a quell’incontro per me così affascinante.

Mai desiderio si è rivelato più complesso da realizzare. Perché una volta compresi il cosa e il come, mi sono resa conto che, rivolgendomi a un giovane pubblico, sarebbe stato meglio almeno un po’ dimenticare tutto quello studio, mettendo in atto un faticoso e allo stesso tempo meraviglioso esercizio di sublimazione che passava dai dati scientifici alla parola poetica.

Fin da subito, e ancora oggi, si tratta di un percorso che è tutto in salita e sempre nuovo, perché in me opera la mente della ricercatrice che acquisisce i dati, li ordina, li esamina e riesamina infinite volte, per poi lasciar andare tutto, affacciarsi sul vuoto di un precipizio e buttarsi, fidandosi che parole arriveranno a sostenere quella specie di volo.

Nell’ultimo decennio la letteratura per ragazzi ha visto proliferare le pubblicazioni sul tema del mito, moltissime davvero preziose. Su questa offerta, però, ho a lungo riflettuto, perché non tutte le proposte sono sempre convincenti. A volte, spesso nel corredo illustrativo, sembrano più orientate a ripercorrere un sentiero interpretativo neo-classico, prediligendo una lettura dei miti per quello che a noi moderni è utile trovare in essi e forse rifondare.

È come se, ricorrendo alla cultura antica, soprattutto quella classica greca e romana, il nostro sguardo di lettori contemporanei si sporgesse sul passato con ammirazione e un po’ di nostalgia per quel tempo così luminoso in cui tutto il nostro vivere ha avuto inizio, come se potessimo, sempre guardando indietro, preservarci dal fare i conti con una realtà contemporanea poco rassicurante, palesemente sotto gli occhi di tutti.

E, allora, quanto più il passato è lontano da noi, tanto più lo eleggiamo culla della civiltà, luogo simbolico nel quale ogni valore costitutivo della modernità, il rispetto della vita, la solidarietà, l’accoglienza, il ripudio della violenza, la tutela e la cura delle persone più fragili, il rispetto delle diversità, possono trovare origine e fondamento. In realtà, non è proprio così, intanto perché il mondo antico non era esente da violenza, esercitata in forme consuete, come la guerra, e attraverso sistemi complessi di coercizione sociale su gruppi diversificati, bambini inclusi. I miti, poi, sono spesso narrazioni in cui la violenza raggiunge vette estreme. E, poi, perché, facendo aderire il nostro bisogno di riscatto sulle narrazioni mitiche del mondo antico, perdiamo di vista l’originalità intrinseca di quelle storie, che sta tutta nella relazione con il contesto culturale che le ha prodotte.

Lo spiega bene Calvino quando, in Lezioni americane, prova a dire il perché del suo volgersi alla leggerezza come valore dell’arte della scrittura, e lo fa ricorrendo a una serie di esempi tratti dalle opere del passato. Per arrivarci, conduce il lettore a comprendere cosa sia per lui il concetto di pesantezza, citando proprio un mito classico, quello di Medusa e Perseo, il quale tagliatale la testa, sventa il pericolo di essere pietrificato, diventando così pesante, rigido, immobile. Così scrive Calvino: “Per tagliare la testa di Medusa senza lasciarsi pietrificare, Perseo si sostiene su ciò che vi è di più leggero, i venti e le nuvole; e spinge il suo sguardo su ciò che può rivelarglisi solo in una visione indiretta, in un’immagine catturata da uno specchio. Subito sento la tentazione di trovare in questo mito un’allegoria del rapporto del poeta col mondo, una lezione del metodo da seguire scrivendo. Ma so che ogni interpretazione impoverisce il mito e lo soffoca: coi miti non bisogna avere fretta; è meglio lasciarli depositare nella memoria, fermarsi a meditare su ogni dettaglio, ragionarci sopra senza uscire dal loro linguaggio di immagini. La lezione che possiamo trarre da un mito sta nella letteralità del racconto, non in ciò che aggiungiamo noi dal di fuori.”

Ecco, questa penso sia la prima cosa da fare quando un mito classico giunge tra le mani di un giovane lettore e, perché no, anche dell'adulto che a volte si fa mediatore: non sovraimporre una idea di morale alla storia mitica narrata, ma aprire lo spazio della lettura alla condivisione di domande, che i bambini e i ragazzi, come ben sa chi lavora con loro, sono maestri nel proporre. Partire da quello che c’è e, soprattutto, da quello che non sappiamo o che solo apparentemente ci può sembrare già accreditato dal sapere. Perché questo modo di disporsi di fronte al mito ci consentirà, poi, di entrare davvero in un tempo e in uno spazio autenticamente nuovi e, allo stesso modo, antichi.

Tutto nel mito è alterità, ma è in questa alterità che possiamo individuare i tratti di radici comuni, questa volta sì, di un sentire umano che valica i secoli e i millenni.

Perché il mito, che nasce come narrazione orale, ci racconta fatti extra-ordinari, cioè accadimenti che si sono svolti in un tempo che era ancora estraneo all’ordine del tempo storico, privo cioè di quelle convenzioni sociali che avevano permesso alla comunità in cui la storia veniva narrata di consolidare i legami tra ciascuna parte componente e anche di lavorare per il bene dell’intera collettività. Gli stessi personaggi sono extra-ordinari, anche quando sembrano semplicemente due poveri vecchi. I Greci, perché il mito di Filemone e Bauci è di origine greca, questo ci raccontano.

Leggendo Filemone e Bauci, infatti, già fin dalle prime righe abbiamo la consapevolezza di trovarci fuori dall’ordinario. E per raccontare di questa extra-ordinarietà si può cominciare chiedendo ai bambini se hanno mai sentito parlare della Frigia, regione in cui la storia si svolge: dove si trova, chi erano stati i suoi re. Provate a fare con loro questa breve ricerca e scoprirete che la Frigia non è la Grecia, non solo in senso geografico, ma anche identitario. I fatti narrati si svolgono in quella regione non per caso, ma per una precisa costruzione identitaria: in Frigia, attualmente una parte della Turchia nord-occidentale, erano potute accadere quelle cose in quanto terra dell’Alterità. In Grecia sprangare le porte in faccia a un viandante che chiede riposo sarebbe stato inconcepibile. Almeno così vogliono farci credere i narratori antichi della Grecia classica che difendono in quel modo un loro primato culturale.

Ma in cosa consiste l'alterità di questa regione? Re della Frigia e della Lidia nel tempo del mito è Tantalo, figlio di Zeus, cioè lo stesso Giove che nel nostro mito arriva sotto mentite spoglie, a visitare, stanco del suo peregrinare, la casa di Filemone e Bauci. Nonostante sia figlio di tanto degno padre, Tantalo è arrogante, si fa grande agli occhi della popolazione e vuole dimostrare che, in fondo, gli Dèi non hanno tutto il potere. Questo tema - mettere in dubbio il potere degli Dèi - nelle Metamorfosi, di Ovidio lo si trova qualche riga prima del racconto di Filemone e Bauci, a introduzione della storia: Teseo e i suoi compagni, riuniti nella grotta del fiume Acheloo, si interrogano sulla medesima questione: se davvero gli Dèi sono così potenti come vorrebbero far credere.

Tornando al tracotante Tantalo, il re invita a banchetto le divinità dell’Olimpo e ha la brillante idea di uccidere suo figlio Pelope, farne stufato e servirlo ai convitati, sicuro che non saranno in grado di riconoscere il suo povero ragazzo smembrato. È una sfida per dimostrare che gli dèi non possono proprio un bel niente, se viene loro mascherata l’evidenza. Solo Demetra, incautamente, si lascia ingannare e addenta un pezzo della spalla del povero Pelope; gli altri si rendono immediatamente conto del misfatto e della empietà sacrilega di quel gesto e, dopo aver ricomposto in figura nuova i pezzi del ragazzo, scaraventano nel Tartaro Tantalo, costretto per punizione a restare immerso in uno stagno che, guarda caso, compare anche nel racconto dei nostri protagonisti, e, consumato da una fame perenne, a bramare i frutti di un albero che si trova sulla riva.

Come non riconnettere questo racconto alla storia di Filemone e Bauci? La Frigia è una terra nel quale addirittura il re che avrebbe dovuto comportarsi da guida ed essere di esempio ai sudditi, si macchia di una colpa così grave da essere spedito agli inferi. Nessun regno potrebbe mai durare a lungo con una guida così blasfema, una terra nella quale un re capovolge uno dei valori portanti della civiltà greca: il convivio, l’ospitalità. Così quella terra resta segnata per sempre: “un tempo terra abitabile” come sapientemente ci dice Ovidio nella nostra metamorfosi, ora non lo è più.

Ecco allora che la storia di Filemone e Bauci comincia a apparirci con contorni più nitidi: non si tratta solo di due vecchi che aprono le porte a due viandanti-dèi apparsi sotto le spoglie di esseri umani. Abbiamo a che fare con gesti che rifondano la sacralità di quella terra, ristabiliscono un equilibrio perduto nella notte dei tempi a causa di un re empio, per di più figlio dello stesso Zeus. Filemone e Bauci preparano ai due stranieri un pranzo frugale che è, senza ombra di dubbio, proprio l’antitesi di quello preparato empiamente da Tantalo per le divinità da lui invitate.

Il mito ci racconta, allora, che i gesti che ciascuno compie hanno un peso per la terra sulla quale calca i passi, che bisogna evitare di sfidare gli dèi, e che bisogna avere rispetto delle forme sociali più accreditate e più vitali del mondo antico, quella del convivio e dell’ospitalità, un convivio peraltro a cui partecipano gli dèi.

Il mito ci racconta ancora che la sacralità di un territorio, la possibilità che esso continui a generare frutti abbondanti dipende anche da come gli esseri umani gestiscono il rapporto con la terra: l’arroganza di sapersi padroni anche di una vita, quella del proprio figlio, da usare per denigrare il potere degli dèi, così come la mancata ospitalità nei confronti dei pellegrini, renderanno sterile quella terra, ridotta a una distesa d’acqua insalubre; al contrario, la condivisione della propria casa genera metamorfosi e cambiamento. I due vecchi, senza sapere come, vedranno tramutate le loro forme in quelle di due alberi, una quercia e un tiglio, nella cui folta chioma troveranno casa molte specie di uccelli.

Ovidio, che scrive durante il principato di Ottaviano Augusto, a sua volta erede e figlio adottivo di Giulio Cesare e restauratore dell’ordine dopo una sanguinosa e devastante guerra civile, mette in scena nel mito dei due anziani coniugi quel principio di sacralità dell’ospite, diffusamente noto dai testi antichi, e così ben illustrato nel saggio di Donatella Puliga (Ospitare dio. Il mito di Filemone e Bauci tra Ovidio e noi, Il Melangolo, 2009) che è stato per me un contributo essenziale allo studio di questa metamorfosi.

Si tratta di una forma di accoglienza che trasforma lo straniero in ospite, perché, una volta ripulito e rifocillato, gli viene chiesto di raccontare la propria storia. Una metamorfosi, dunque, anche questa: non si tratta solo di proteggere il viandante dalla fatica e dalla fame, ma anche di entrare nella sua vita, nelle ragioni che lo hanno spinto a tanto vagare. La narrazione stessa, allora, diventa luogo dell’accoglienza e strumento di metamorfosi.

Questo accade a Odisseo, quando, stanco e irriconoscibile, approda all’isola dei Feaci e viene invitato a corte a raccontare la propria storia. La stessa cosa accade a Enea quando giunge sulle coste settentrionali dell’Africa, nel regno di Didone. Questo accade anche a Giove e Mercurio che arrivano provati e stanchi per le vie di un villaggio della Frigia. E così, piano piano, accediamo alla stratificazione dei significati di questo mito, aprendoci a uno sguardo che non pretende di sapere e di codificare quanto appare a una prima lettura.

Sono tante le domande che possono sorgere leggendo e guidando i bambini, senza avere la fretta di chiudere e chiudersi ai significati visibili: domande che possono sembrare banali, ma non lo sono. Per esempio, queste: la Frigia esiste ancora? A quale Paese corrisponde? È distante dalla Grecia di Atene? E il suo territorio com’era e com’è? Perché le due divinità viaggiano facendo finta di essere uomini? E da dove venivano e dove andavano? Le porte delle case erano chiuse e Giove e Mercurio devono bussare, oppure erano aperte e vengono chiuse dai loro abitanti, che rimangono privi di nome perché la Storia non debba nemmeno ricordarli? In che momento della giornata viaggiano gli dèi? Perché Filemone e Bauci sono soli? Non hanno figli? Perché si trasformano proprio in quegli alberi? Potrei continuare ancora, ma sono sicura che i bambini ai quali spero questo mito verrà letto, ne troveranno molte altre. Domande che richiedono un lavoro paziente di indagine sulla cultura da cui i miti nascono.

Illustrazione di Daniela Tieni tratta da Filemone e Bauci (Topipittori, 2022).

Sulla metamorfosi in alberi, per esempio, molto ci sarebbe da dire, e anche sul significato metaforico e simbolico che riveste la figura dell’albero nella storia mitica delle diverse comunità antiche. Ne ha scritto in modo esaustivo Jacque Brosse, nella sua Mitologia degli alberi. Dal giardino dell’Eden al legno della croce (BUR saggi, 2016). Nel testo si parla anche di Filemone e Bauci, in un capitolo dedicato al bosco sacro e all’anima degli alberi.

Quello che emerge dal lavoro esteso e puntuale di questo autore è la consapevolezza che gli antichi percepivano il regno della natura, nelle sue diverse specie, abitato da un mistero che andava rispettato e tutelato, perché dentro a ogni arbusto, foglia, fiore, persino in un frammento di roccia, si sarebbe potuta celare la presenza del divino.

Questo è anche quello che emerge con chiarezza in molti dei miti raccolti e raccontati splendidamente da Ovidio nelle sue Metamorfosi, come commenta Calvino in un breve saggio dal titolo Gli indistinti confini: “La compenetrazione dèi-uomini-natura implica non un ordine gerarchico univoco ma un intricato sistema d’interrelazioni in cui ogni livello può influire sugli altri, sia pure in diversa misura.”

Ma, allora, viene da dire, come è possibile raccontare una storia così complessa ai bambini, se non se ne conoscono le premesse?

A mio avviso, proprio questo rappresenta un’occasione: raccontare una storia che fa parte di una Storia più grande, mostrando come, a dispetto della lontananza temporale, essa riveli tratti che appartengono alla dimensione presente. Senza contare che, a ben guardare, ogni libro illustrato che proponiamo ai bambini avrebbe bisogno di essere studiato, nel testo e nelle illustrazioni e nella relazione tra le due. E anche quando il tema dell’albo non è un mito, una storia antica, l’adulto è chiamato a cogliere i significati profondi dell’opera, perché la lettura possa diventare non tanto un momento ricreativo, quanto un’occasione di crescita.

Inoltre, la narrazione di un mito attraverso un albo riserva una ricchezza davvero preziosa per i giovani lettori, costituita dall’apparato iconografico che ovviamente non è mera rappresentazione del testo, ma racconto che apre lo sguardo e ci interroga. Quale percorso la storia ha compiuto per arrivare a essere così rappresentata?

Copertina e colophon di Filemone e Bauci (Topipittori, 2022).

Nelle immagini con cui Daniela Tieni rappresenta la sua personale, autentica e per me straordinaria visione del mito di Filemone e Bauci, c’è un mondo da scoprire, un universo di legami profondi e per nulla scontati tra il mito e il lettore.

Già dalla copertina siamo di fronte a una prospettiva che invita a capovolgere il punto di osservazione: c’è, infatti, una figura umana a testa in giù, rappresentata con contorni fluidi, quasi disarticolati, in uno stile grafico che crea, nel prosieguo delle pagine, un vero e proprio corto circuito, avviando il lettore su quel sentiero che conduce allo spazio e al tempo extra-ordinari.

È potentemente significativa per me anche l’immagine in cui Filemone e Bauci ai lati della loro casa, a garantire, con il gesto del braccio che scompare nei muri, che anche per noi, lettori lontani, terranno aperta la loro dimora, noi sulla soglia di quello spazio bianco, posto al margine inferiore della doppia pagina: siamo lì con le due divinità. Leggendo, entriamo nella storia, e, così facendo, ci rendiamo disponibili a una metamorfosi, abbandonando tutto ciò che ci sembra di sapere, pronti a cercare insieme ai due ospiti divini una nuova forma di accoglienza che non riduce l’altro a se stesso, ma gli consente di raccontarsi.

E alla domanda sul perché i due viandanti non trovano, prima di Filemone e Bauci, nessuna casa pronta ad accoglierli, ecco che troviamo risposta nell’illustrazione con le due divinità innaturalmente piegate: sono troppo grandi, hanno forme che potrebbero spaventare, non sono come uno si aspetterebbe due pellegrini che cercano un posto per riposarsi dalle fatiche del viaggio. Nel testo si dice solo che devono abbassare il capo per entrare, perché la porta è bassa per loro, ma Daniela ha saputo perfettamente restituire il senso del testo: a essere fuori misura sono le divinità, di cui solo il lettore conosce la vera identità. Le divinità viandanti non sono state invitate, nessuno sa chi siano, e appaiono fuori misura in tutta la loro alterità, quasi spaventose, eppure i due vecchi tengono la porta aperta, le fanno accomodare, fanno di tutto perché possano sentirsi a loro agio, gli offrono tutto ciò che hanno, in attesa di sentire il loro racconto, facendo sì che la cura dei gesti possa trasformarli da stranieri in ospiti.

Leggendo, dunque, non solo il testo, ma anche le illustrazioni, si dà la possibilità ai bambini di aprire lo sguardo, e fare quello che suggerisce Calvino: andare piano e fermarsi su ogni dettaglio, per provare a immaginare cosa sta accadendo. Le immagini hanno un ruolo fondamentale in questo approccio ermeneutico.

Come sottolinea Marnie Campagnaro in Incanto e racconto nel labirinto delle figure. Albi illustrati e relazione educativa ( Edizioni Erickson 2013): “la lettura degli albi illustrati diventa un luogo educativo ineludibile per lo sviluppo, in ambito narratologico e non solo, del pensiero sequenziale, ovvero di una forma di pensiero articolata, composita, a più lenta elaborazione, basata su modelli inferenziali complessi e di lunga durata.” E ancora “Leggere albi illustrati caratterizzati da un linguaggio iconico connotativo e simbolico abitua il giovane lettore alla ricerca inquieta, intrepida, permanente su significati sottesi a una trama, obbligandolo a mettersi in relazione con il mondo, con gli altri, con sé stesso…”.

Questo è ancora più interessante quando offriamo ai bambini la possibilità di leggere un classico, come Filemone e Bauci, attraverso una traduzione e la costruzione di una struttura iconografica che ne amplificano il significato testuale, perché come ci ricorda Nicola Gardini in un saggio straordinario dedicato a Ovidio, dal titolo Con Ovidio. La felicità di leggere un classico (Garzanti ed., 2017): “quando apriamo una qualunque edizione moderna di un classico, noi non apriamo semplicemente un libro: noi apriamo le braccia a un sopravvissuto. E, leggendo un classico, compiamo il gesto più civile che un essere umano possa compiere: diamo ospitalità a uno straniero; gli offriamo la nostra casa e ci mettiamo ad ascoltarlo. E lo straniero non viene senza doni. Fosse solo anche un verso quello che ci resta della sua opera, quel verso è un miracolo della fortuna. Se bussa alla nostra porta, abbiamo il dovere di riceverlo, a qualunque ora del giorno e della notte. Negargli l’ascolto significherebbe favoreggiare quella violenza irrazionale – ma spesso intenzionale – che nei secoli ha disperso i quattro quinti della letteratura antica e che oggi, in vario modo, continua a agire tra noi e nullificherà, se non ci opponiamo, molte delle nostre cose migliori. Noi dobbiamo opporci alla violenza. Accogliendo l’antico, faremo simbolicamente resistenza a qualunque sopruso. I beni che provengono dal dare ospitalità sono meravigliosi. Non solo lo straniero è soccorso e salvato e, dunque, molto probabilmente ci resterà amico, ma noi, con lui, diventiamo nuovi. Attraverso lo straniero, nella nostra stessa casa, entriamo in contatto con un mondo che non conoscevamo.” E ancora: “Gli antichi ci insegnano ad ascoltare, perché per prima cosa ci chiedono che li ascoltiamo. La distanza che hanno attraversato ci obbliga a fare silenzio, a districare le loro voci dalla rete di suoni e rumori che ci riempiono le orecchie e la testa, a smettere perfino di ricordare e di stabilire paragoni. Gli antichi ci spingono a rinunciare al già noto e a ricevere l’irriconoscibile.”