DAD? Ovvero la Grande Domanda

[di Michele Longo]

«My heart belongs to Daddy»

Cole Porter

È iniziato lentamente. Le scuole chiudevano un po’ alla volta; per pochi giorni, si diceva. Era ancora inverno, noi maestre* lo abbiamo preso come un regalo di tempo lento dopo le grandi manovre e la corsa di fine quadrimestre. Ricordo, come fosse tantissimo tempo fa, due giorni di delizia dedicati a scrivere su strisce di carta da lucido la traduzione di due volumetti della serie Disgusting Critters di Elise Gravel che ci aveva conquistato, in classe, con Il verme e La mosca, unici reperibili in italiano. Il piacere di un lavoro accurato, abbastanza insensato, lento.

Personaggi della serie originale Disgusting Critters di Elise Gravel (Penguin Random House).

Poi il tempo ha preso un’accelerazione improvvisa. Spinte dal senso di emergenza, pungolate dai dirigenti scolastici, sotto una gragnuola di indicazioni imperiose e confuse, abbiamo iniziato a usare il registro elettronico per inviare le attività dei bambini alle famiglie, costringendo i genitori a manovre estenuanti per l’accesso, abbiamo fatto audioletture, video imbarazzanti con i telefoni, aperto piattaforme di condivisione, smesso di chiedere alle famiglie di stampare qualsiasi cosa perché le copisterie sono state chiuse,  imparato a fare video con strumenti un po’ meno patetici, iniziato a usare le videochiamate di gruppo prima tra noi e poi con i bambini, cercato di leggere tra le righe di una nota ministeriale incredibilmente intrisa di buonsenso, litigato anche in coppie di colleghe rodatissime, sfinito le rappresentanti di classe. Avevamo messo in moto la famosa Didattica a Distanza, ormai nota anche con l’acronimo DAD, senza rendercene del tutto conto: chi aveva tempo di rendersi conto di qualcosa?

Poi sono arrivate le vacanze di Pasqua, il tempo ha frenato all’improvviso, e noi ci siamo messe sul divano munite di buoni propositi riassumibili nel verbo: staccare. Dopodiché cosa vuoi staccare, e da dove, in regime di clausura. Al secondo giorno, se non prima, ci siamo trovate tutte a leggere compulsivamente e ad approvare selettivamente gli articoli online sulla Didattica a Distanza che piovevano nella nostra bolla social. Un sacco, ne piovevano. Forse eravamo più o meno le stesse a scriverli e a leggerli. A telefoni silenziati, un ronzio di pensieri. Tutti intorno alla grande domanda (Wolf Elbruch, grazie sempre): «Cosa diavolo stiamo facendo?». Perché noi maestre e professoresse, demodé per definizione e per vizio inveterato, amiamo ancora pensare e farci domande, attività screditatissime nel futuro ancestrale della scuola che viviamo. Un pezzetto di domanda è venuto in mente anche a me.

Illustrazione di Elise Gravel.

A quanto pare, nella triste didattica a distanza, la Cosa Vera, quella che i dirigenti scolastici vogliono farci fare senza limiti, è la videochiamata di gruppo con la classe. Ammettendo che io sia riuscito, tra le altre incombenze della vacanza ai domiciliari, a fare la tara della mia personale difficoltà con il mezzo, c’è un problema. Un problema per i bambini, una volta tanto. Una delle più importanti opportunità di crescita che la scuola offre ai bambini, se non la più importante, è la possibilità di muoversi in uno spazio sociale protetto, esterno alla famiglia. A scuola i bambini provano nuovi repertori di comportamenti, spesso imprevisti e addirittura un po’ disdicevoli rispetto all’immagine standard dell’infanzia, interagiscono con i pari in modo non sempre mediato dagli adulti, sbagliano, pagano, se sono fortunati sperimentano l’amicizia per la prima volta, vanno incontro a frustrazioni e delusioni, e molto altro. La certezza che scuola e casa sono e rimarranno separate è molto importante per loro. «Cosa hai fatto oggi a scuola?», «Niente». Questo breve e immutabile copione lo spiega perfettamente.

Illustrazione di Elise Gravel.

Ora, le lezioni in videoconferenza con gli alunni della primaria avvengono di fatto in presenza dei genitori. Perché i bambini non sono autonomi nell’uso del device, perché il computer è quello che mamma sta usando per lavorare e comprensibilmente non se la sente di lasciarlo incontrollato, perché nella cameretta c’è il fratello grande che ha la verifica di storia, perché il numero di locali dell’appartamento è lo stesso di prima della pandemia, perché a mamma non par vero di poter finalmente esserci anche in classe. Fare scuola con i genitori, dentro e fuori dall’inquadratura della cam, mette a disagio gli insegnanti, ma soprattutto i bambini (che, però, non hanno uno spazio per dirlo). Cosa faccio? Mi comporto come a casa o come a scuola? E poi, ci sono i genitori di tutti i miei compagni, qui! Altro che privacy: il problema non è tanto quello di mostrare a tutti la cameretta o la cucina, è il crollo di una barriera che era una garanzia. Una specie di tradimento, in fondo. I bambini, credo, amano che le strutture del mondo dei grandi siano stabili e distanti, come una cupola affrescata o un cielo sopra la testa di cui non devono occuparsi. Ai bambini dispiace profondamente quando le strutture del mondo adulto diventano instabili: quando i genitori litigano, decidono di trasferirsi in un’altra città, parlano male della maestra, quando mollano il ruolo e il potere genitoriale e dal capriccio non si esce più. Figuriamoci la scuola che entra in casa. In confronto, imbattersi nella maestra al supermercato sembra un fatto quasi insignificante, anche con un cappotto giallo, o un marito, o tutt’e due.

Poi, sono molto grato ai genitori dei miei alunni in questi giorni, per la collaborazione e la pazienza che stanno dedicando a questa scuola a distanza che è piombata anche in casa loro.

Illustrazione di Elise Gravel.


* Anche se per una volta ho lasciato il sound design alla crew Scoramenti, non sono ancora arrivato al punto di poter scrivere noi maestri, maschile plurale. Non vorrei che qualcuno finisse per raffigurarsi la scuola come un tetro microcosmo maschile, tipo la nave Saltamatta del capitano Efraim Calzelunghe.