Fare un libro, leggere se stessi, scoprire gli altri

[di Oana Alexandrescu]

Un lunedì di fine febbraio, una di quelle mattine fredde e ventilate in cui puntando il naso verso il cielo si sente già la primavera, una bidella ha aperto la porta (mi sono poi immaginata il gesto eroico e solenne) facendo entrare, nel silenzio momentaneo della classe, una scatola zeppa di libri con appresso un gentile signore e il suo zaino. Il gentile signore si è poi installato in cattedra, immediatamente guardando uno a uno i mostri che ancora non avevano aperto bocca. Dalle orbite spalancate e dai bulbi oculari roteanti più del solito, da alzate di spalle e brevi cenni di diniego si capiva che non avevano idea di chi avessero di fronte.

Mostro numero 21: «Chi sei?»

Gentile signore: «Chi sono io?»

Mostro numero 10: «Sei Gianni Rodari!»

Gentile signore: «No.»

Mostro numero 14: «Roberto Piumini!»

Gentile signore: «No.»

Mostro numero 11: «Sei un’illustratore!»

Gentile signore: «No.»

Mostro numero 10: «Sei Shell Silverstein!»

Mostro numero 23: «Guarda che parla italiano.»



Gentile signore: «Già.»

Mostro numero 24: «Io lo so, io lo so, sei uno... come Giovanna Zoboli, uno delle poesie.»

Mostro numero 10: «Ma guarda che lui è un uomo.»

Mostro numero 24: «Ma sì, non hai mica capito, dicevo uno dei libri.»

Mostro numero 11: «Ma scusa, tu hai a che fare con i libri, giusto?»

Gentile signore: «Sì.»

Mostro numero 11: «Non so la parola, ma ho capito chi sei. Dammi un attimo.»

Gentile signore: «Prego.»

Mostro numero 21 (impaziente): «Io no! Insomma, chi sei?»

Gentile signore: «Sono Paolo Canton.»

Molti: «Ah!»

Silenzio.

Mostro numero 14: «Tu eri in un libro che ho letto tempo fa, ma non ricordo il titolo. (Si gira verso il numero 11) Ci avevo ragione io! (E l'altro: «L’ho pensato prima io!» «No, io!»

Mostro numero 21 (entusiasmo a mille): «Cosa ci hai portato in quella scatola?»

Paolo Canton (ridendo): «Vi ho portato un libro.»

Mostro numero 10 (con un po’ di ritardo, riepilogando, entusiasmo sempre a mille): «Paolo ma sei un illustratore?»

Paolo Canton: «No, io sono un editore.»

Mostro numero 3: «Che cos’è un editore?»

Mostro numero 5: «Ma come! Non sai? Un’editore è uno dei libri, come quelli che scriviamo sul quaderno dei prestiti. Hai presente? Autore, titolo, editore?»

Mostro numero 4 (arrossisce leggermente): «Tu quale editore sei?»

Paolo Canton: «Sono uno degli editori dei Topipittori.»

Mostri dell’ultima fila, voce sovrastante del numero 5: «I Topi! I tuoi libri sono bellissimi! Io ne ho a casa!»

Mostri all’unisono: «Anch’io! Anchi’io li ho!»

Mostro numero 11: «La maestra ne ha regalato uno a ognuno di noi, certo che ti conosciamo.»

Mostro numero 10 (incredulo, in piedi, bottiglia dell’acqua in mano): «Tu sei un Topo? Cioè, volevo dire, sei un Topopittore? Insomma, un Topipittori?»

Paolo Canton (divertito): «Proprio un Topo! In persona. Ora formate una bella fila e venite a prendervi il libro.»

In modo ordinato (una volta all’anno succede anche a loro), i mostri hanno ricevuto dalle mani di Paolo un libro. Che diceva più o meno così (con la voce roca del mostro numero 23, felice di esibire il rotacismo vibrante): «Sono tondo come un pallone: mi chiamo cerchio ed ecco il mio amico, il quadrato. Insieme ci inventiamo tantissimi tipi di giochi e diventiamo un sacco di cose. Possiamo diventare bambini e bambine oppure bellissimi giocattoli. Di giorno, splendo: sono il sole caldo. Di notte sono la pallida luna e con le stelle in cielo disegno tutte le forme meravigliose che vegliano sui tuoi sogni.»

La lezione-sorpresa è iniziata così, domandandoci cosa fa un editore e come sono fatti i libri. E io, che di questa lezione avevo già incontrato alcune narrazioni, mi sono gustata la loro prima volta. Dall’idea al libro finito il racconto è lungo. E Paolo, perché fosse meno astratto, ogni tanto, a intervalli regolari, da una valigia piatta e nera (la gemella di quella appartenuta a Mary Poppins) ha estratto un foglio di stampa, una prova colori, parole nuove come bianca e volta, fuori registro, visto, copertina, piatti, distribuzione, libro finito. Qualcuno ha finto di essere un libraio gestendo, per interminabili minuti, la compravendita di un libro appena stampato e mandando all’aria strategie economiche complesse per via di un calcolo.

Per capire meglio cose semplici che semplici non sono, Paolo ha poi proposto ai mostri di fare un libro.

Mostri all’unisono: «Sì! Che bello.»

Paolo: «Voi tutti conoscete la fanzine, vero?»

Mostri perplessi: «La che...?»

Paolo, dando un’occhiata di lieve stupore in fondo alla classe: «Ma come, la maestra vi fare fare tutte quelle cose complicatissime e i mini-libri e non sapete cos’è una fanzine

Mostri con gli occhi puntati nella stessa direzione.

Silenzio.

Paolo: «Non importa, ve lo spiego io.»

Il libro gioco fanzine ha una e una sola regola e, come in tutti i giochi, non a tutti va bene: raccontare disegnando qualcosa di bello e qualcosa di brutto sul compagno seduto a destra. E questo bello e brutto, secondo il punto di vista, deve essere qualcosa di molto bello e molto brutto, ma socialmente condivisibile e accettato. Il meccanismo non è stato subito chiaro a tutti e la scelta casuale del compagno da disegnare ha creato anche brontolii sommessi, ben udibili però stando in fondo alla classe. Perciò, volendo fornire al più presto una soluzione e avendo un Lim funzionante e accesa a disposizione, Paolo si è messo a disegnare.

Paolo, rivolto alla fila centrale: «Ti spiace se ti uso come esempio?»

Mostro numero 14, agitando entrambe le mani: «No, no, va benissimo.»

Paolo: «Allora, oltre a dire che sei molto simpatico e intelligente, possiamo dire che hai la faccia grande quanto un televisore. Va bene se ti disegno con una grande faccia?»

Mostro numero 14, sollevato e sorridente: «Sì, sì, per scherzare va bene, va benissimo.»

Paolo rivolto all’ultima fila: «Va bene se ti disegno alta quanto una torre?»

Mostro numero 17, ridendo di gusto: «Eh, sono altissima, che posso farci?»

Paolo: «Va bene se dico che sei pigra come un’orso? Furba come uno scoiattolo?»

Mostro numero 4, ride e arrossisce, poi con un filo di voce: «Sì.»

Così l’editore Paolo Canton si è ritrovato a fare il maestro per un giorno nella classe dei mostri pelosi.

Le fanzine di ognuno erano inizialmente delle bozze e sono state usate per dare forma a un’idea, discuterla con l’editore, decidere insieme cosa e come cambiarla. In sgeuito, in momenti successivi, per un periodo durato più di un mese, siamo arrivati alla versione finale del libro-gioco. Ma questo è avvenuto riflettendo e analizzando quel brontolio sommesso della lezione-sorpresa. Capitava che qualcuno non fosse soddisfatto del lavoro mentre disegnava, lamentando che se avesse dovuto farlo con l’amico preferito tutto sarebbe stato più facile. E allora siamo entrati in altri libri e altre storie in cerca di una risposta.

Un primissimo libro è quello che hanno ricevuto in regalo: Tondo, tondo e quadrato, storia di un’amicizia tra forme diverse illustrata e scritta da Fredun Shapur; storia in cui la diversità è la chiave del gioco.

Un altro libro invece inizia così: «Se esci per strada, a un certo punto arrivano sempre. Hanno molte teste, molti piedi, molti odori. Hanno corpi di tutti i tipi, con molti vestiti, pochi o anche nessuno. Sembra che non ce ne siano due davvero identici. Ma è difficile vederli tutti insieme, perché sono così tanti. Sono gli altri. Ce ne sono con le trecce o con i ricci, senza capelli, con la sciarpa, col bastone. Si muovono in gruppo, a coppie o da soli. Ci piacciono molto, oppure per niente; ci fanno paura o ci fanno ridere. Non sappiamo chi sono, non abbiamo mai parlato con loro, non sono noi: sono gli altri».

Sfogliando le pagine una dopo l’altra si scoprono le caratteristiche di questi altri con tante mani e tanti piedi, con odori diversi in un gioco di svelamento e trasparenze in cui l’acquarello è un ulteriore altro. Gli altri, scritto da Susanna Mattiangeli e illustrato da Cristina Sitja Rubio racconta una passeggiata nel mondo degli altri. Ma visto da chi?

A dieci anni gli altri spaventano, confondono, ammiccano, sono sullo sfondo di un’io egocentrico e l’accettazione dell’altro è a volte qualcosa di amaro perché imposto. Guardando i miei alunni, giorno dopo giorno, scopro quanto io abbia ragione e quanto abbia torto nel pensarli così come sono ora, non più come li ho conosciuti anni fa, e non ancora quello che diventeranno. Ascolto e abbraccio le loro simpatie e antipatie, i dispetti, le esclusioni, la rabbia che non sanno esprimere e quelle emozioni che sono sul nascere, in potenza. E mi dico che è giusto, che è un privilegio poter osservare tutta questa ricchezza di espressione dell’emozione infantile. Ma poi mi dico anche che osservare non basta, che le parole che sento, usate per allontanare gli altri, sono forse dette con troppa emozione e non esprimono un pensiero del tutto vero. L’insegnamento non può escludere l’educazione. A volte bisogna fermarsi e agire sulla seconda per poter continuare un percorso.

Natalia Ginzburg usa queste parole, tratte dal capitolo I rapporti umani, in Le piccole virtù: «Chi sono gli altri e chi siamo noi? ci chiediamo. Restiamo a volte tutto il pomeriggio soli nella nostra stanza a pensare: con un vago senso di vertigine, ci chiediamo se gli altri esistano veramente, o se siamo noi che li inventiamo. Ci diciamo che forse, in nostra assenza, tutti gli altri cessano di esistere, scompaiono in un soffio: e miracolosamente risorgono, scaturiti d’un tratto dalla terra, non appena guardiamo. Non ci potrà succedere forse che un giorno, voltandoci d’improvviso, non troveremo niente, nessuno, sporgeremo la testa sul vuoto? E allora non c’è ragione, ci diciamo, di sentire tanta tristezza per il disprezzo degli altri: degli altri che forse non esistono, che dunque non pensano nulla né di noi né di sé. [...]

Sempre dicendoci che gli altri non esistono forse, che siamo noi a inventarli, seguitiamo inesplicabilmente a soffrire per il disprezzo che ci dimostrano i nostri compagni di scuola, per la pesantezza e la goffaggine della nostra persona, così degna di sprezzo a nostro stesso giudizio da fare vergogna: quando gli altri ci parlano, vorremmo coprirci il viso con le due mani tanto ci sembra brutto, informe il nostro viso: e tuttavia sempre fantastichiamo che qualcuno si innamori di noi, ci veda mentre prendiamo il gelato con nostra madre al caffè, ci segua di nascosto fino a casa e ci scriva una lettera d’amore: aspettiamo questa lettera, ogni giorno ci stupiamo profondamente di non averla ricevuta ancora; ne sappiamo delle frasi a memoria, tante volte le abbiamo mormorate dentro di noi; allora, quando questa lettera sarà arrivata, avremo davvero un ricco mistero fuori di casa, una storia segreta che si intreccerà tutta fuori di casa; perché adesso, dobbiamo confessare a noi stessi che il nostro mistero è una povera cosa, è ben poco quel che si nasconde dietro la nostra fronte di pietra, che presentiamo ai nostri genitori per il bacio serale; dopo quel bacio, scappiamo di gran corsa nella nostra stanza, mentre i nostri genitori si bisbigliano domande sospettose su di noi.

Al mattino, ce ne andiamo a scuola dopo aver fissato con preoccupazione nello specchio il nostro viso: il nostro viso ha perduto la vellutata delicatezza dell’infanzia; noi pensiamo allora con rimpianto all’infanzia, a quando facevamo delle colline di terra, e il nostro solo dolore era se litigavano in casa; adesso in casa non si litiga più così spesso, i nostri fratelli maggiori sono andati ad abitare per conto proprio, i nostri genitori sono diventati più vecchi e tranquilli; ma della casa non ce ne importa più niente; camminiamo verso la scuola, soli nella nebbia; quando eravamo piccini, nostra madre ci accompagnava a scuola, ci veniva a prendere: adesso siamo soli nella nebbia, terribilmente responsabili di tutto quel che facciamo.»

Nelle storie incontrate, gli altri sono dettagli minuscoli che hanno bisogno di tempo per essere notati, sono animali inutili come farfalle colpevoli d’esser libere e belle, sono i corvi sull’albero più vicino al campo di grano, sono facce di tanti colori in un regno lontano, sono lupi e lupetti piccoli quanto un puntolino; sono tutti altri e sono diversi. Leggendole, queste storie, ci hanno ricordato di noi: ognuno in un libro legge se stesso.

Per noi gli altri sono femmine, gli altri sono maschi, gli altri non ci lasciano giocare, non ci prestano le cose; gli altri ci mandano i bigliettini sotto al banco, gli altri ci regalano la gomma da masticare per l’intervallo, si incontrano al mercato e ci dicono ciao, ma non sempre; gli altri corrono con noi nel parco e cadono in una buca facendosi uno sbrego così sul fianco: roba da pronto soccorso, mica male; gli altri mettono in pari i quaderni degli assenti o vanno al mare in posti lontanissimi mentre noi siamo a scuola; poi al ritorno ci regalano una conchiglia.

In maniera circolare, dagli altri siamo arrivati a noi e da noi partiamo per riflettere sugli altri: perché non li vogliamo o perché li vogliamo tantissimo. Non si possono prevedere le idee dei bambini. La lezione del maestro Paolo Canton ha fornito uno stimolo iniziale per un dialogo. Giocare con il libro-fanzine e disporne il contenuto seguendone le regole ha costretto molti a fermarsi, capire cosa pensare e come raccontarlo a parole. Abbiamo provato a riflettere sul perché agli altri non piacciamo o perché questi altri non ci piacciano pur essendo nostri compagni di classe da molto tempo. E, soprattutto, abbiamo cercato un modo gentile per dire agli altri, anche ai compagni di banco, quel che pensiamo. Fare una critica, dire cosa non ci piace dell’altro, dirglielo a parole o per iscritto ha comunque e sempre bisogno di una forma appropriata. Se questi esseri multicolori e minuscoli ci fossero accanto e, nonostante tutto, non ci piacessero, la gentilezza avrebbe un ruolo fondamentale nell'espressione, mentre sta diventando sempre più rara.

Ho imparato moltissimo su questi bambini, sulle amicizie invisibili che nascono e muoiono in pochi mesi perché se scompaiono le finestrelle fra i denti, se i capelli ricrescono, se la maglietta preferita è diventata stretta, anche dentro, nei pensieri e nei sentimenti il cambiamento è continuo. Sebbene io veda molti di questi cambiamenti, non li vedo tutti insieme. Esplorare cosa siano gli altri e come li vediamo ci ha permesso anche di vedere meglio noi stessi, analizzando il perché dei pregiudizi. Non è detto che tutti abbiano imparato o siano giunti a una riflessione approfondita, o che le risposte si siano fatte trovare o che quelle trovate siano quelle giuste. Quel che importa è creare occasioni dense di significato, depositare voci e immagini nella memoria, far sì che si incontrino libri e persone degne di essere incontrate per imparare a conoscere, per volerlo davvero. Un giorno, forse, quel conoscere significherà accettare; significherà aver lasciato passare qualcuno oltre la superficie di pietra.

Dal vano delle scale, ben oltre la seconda campana delle 13:00, i mostri in coro: «Tornerai? Quando tornerai? Dai, ti prego, ritorna!»