Oggi presentiamo la terza novità del 2022, è Versi di bestie di Bruno Tognolini, con le illustrazioni di Viola Niccolai. Una raccolta di poesie dedicate agli animali, per la collana Parola Magica.
Pensieri a margine del libro di poesie Versi di bestie
[di Bruno Tognolini]
1 . Bestie dell’anima
Comincio con brevi passaggi di libri. Due sono miei, perché su questa parentela di anima e animali, e di uomini e bestie, vado pensando, leggendo e scrivendo ormai da buon tempo.
Ecco come la proclama Mama Kurma, l’antica tartaruga sciamana degli Àniman nel romanzo Il Giardino dei Musi Eterni (Salani).
Mama Kurma allungò il collo e fissò con occhi terribili la cerchia dei fratelli ammutoliti.
«TUTTO HA UN’ANIMA! TUTTO È ANIMATO! TUTTO È ANIMALE!»
Così annunciò, con voce potentissima.
«Non c’è la Bella! Non c’è la Bestia! Siamo tutti delle Belle Bestie!»
[…] «Solo uomini e bestie insieme, che di fiaba in fiaba vanno, senza fine. Solo questa infinita processione»
Ed ecco il sogno di ricostruzione di questa processione perduta in una mia lettura d’oggi, faticosa: il saggio Chtulucene, della visionaria lisergica antropologa californiana Donna Haraway. Di cui non cito parti letterali, perché son sparse nel suo parlare pirotecnico, ma estraggo e dico con parole mie. Due sulle altre: multispecie e making kin. Co-divenire multispecie, relazioni multispecie, confusione, prosperità, humus multispecie; narrazioni, arte, femminismo multispecie. Gli umani devono fare parentela (in inglese suona meglio: making kin) con molte specie, prime fra tutte quelle animali, se vogliono sfuggire all’estinzione di una specie che si è messa in testa di fare da sola, al di sopra e a danno di tutte le altre.
Lo dicono anche i poeti, senza mai averne letto. Montale, nella poesia Götterdämmerung:
Il crepuscolo è nato quando l’uomo si è creduto più degno di una talpa o di un grillo.
E questo fare parentela, il making kin, è forse oggi ormai un re-making kin, un riallacciare parentele spezzate e dimenticate da ere immemorabili. Come predica di nuovo Mama Kurma nel Giardino dei musi Eterni, spiegando perché ai bambini diamo in mano giocattoli effigi di bestie, gli infiniti peluche.
«E non solo i giocattoli» aggiunse il gatto Linneo, senza batter ciglio, «anche i libri per i cuccioli umani sono pieni di cuccioli animali: coniglietti, maialine, cagnetti, gattini, ochette...»
[…] «Perché umani et animali sono equali nell’Alba del Tempo» disse solenne la tartaruga. (…) Antica Sorellanza della Vita, essi sono, nell’Alba del Tempo. Fratelli e sorelle essi sono, et anche sposi fra loro, in antico più antico».
[…] «Sposi fra loro, sì» intervenne Linneo, «e facevano figli. Lo dicono i miti più antichi, che sono affollati di ibridi umani e animali: centauri, sirene, minotauri, sfingi...»
Solo così, dice l’arcaica tartaruga, i cuccioli umani riusciranno a superare lo strappo fatale di quegli allucinati primi anni: mettendogli accanto a conforto gli avatar dei fratellini delle fonti, di Gaia Panzoe Multispecie, la cucciolata generale della vita da cui vengono, prima che il duro decreto del loro DNA recida quei vecchi legami, e li spari nel loro Antropocene.
E infatti eccomi, me stesso bambino, alle fonti di questa primigenia parentela perduta, che la ricordo nel piccolo libro autobiografico Doppio Blu (Topipittori, 2011).
Il bambino aveva un grande Libro degli Animali, che spesso a casa posava in terra e squadernava, sfogliando senza mai stancarsi. Sapeva i nomi di tutti gli animali, e voleva che i grandi e i fratellini li puntassero col dito per interrogarlo e poterli nominare.
“Tigre del Bengala”, diceva. “Mandrillo”, diceva. “Ay a tre dita”.
[…] “Chino ai profondi lieviti, ripatisce ogni fase”, avrebbe letto decadi dopo in una poesia di Quasimodo. “Le bestie dell’anima sono la poesia”, avrebbe letto in un’altra del suo maestro Giuliano Scabia.
Ed eccolo allora, il mio grande primo maestro Giuliano che è morto da poco, nel libro Il poeta albero (Einaudi).
Le bestie camminanti sentono subito i poeti camminanti – come ad esempio una volta Orfeo. Le bestie camminanti non sono il pubblico della poesia – ma la poesia. I piedi della poesia in origine erano bestie, piante, insetti, rumori del cielo e della terra. Poi nomi. Gli occhi, attraverso cui l’amore dice la poesia, servono per guardare gli alberi e le bestie che formano l’anima. Le bestie dell’anima sono la poesia.
E i poeti, come le bestie, fanno versi.
2 . Versi di bestie. Le bestie.
Ed ecco i miei.
Sono versi di bestie. Versi che fanno le bestie, scherza l’ambiguo titolo, ma mente: sono versi che parlano di bestie. Versi che fa un umano poeta parlando di bestie. Non ho la minima idea di che versi fanno le bestie parlando di sè, o di altre bestie, fra cui gli umani, fra cui i poeti: ma io parlando di loro faccio questi. E cosa dicono di loro questi versi? Cose vere? Non so se dicono cose vere, ma sono sinceri.
La questione dell’antropizzazione degli animali è antica e probabilmente inestricabile. Gli umani si sono appropriati delle bestie, dicono gli animalisti, totalmente: non solo degli utili corpi ma anche delle anime ignote. Ne hanno fatto bistecche e simboli in egual misura. Bestie alienate a se stesse e ridotte all’umano affollano le narrazioni di ogni era in un’eterna Fattoria degli Animali: da Esopo a Mamma Oca, da Lassie ad Alien, dai centauri a Mickey Mouse. Appropriazione, alienazione, sfruttamento narrativo: e i veri animali intanto son sempre altra cosa, sempre altrove, forse anzi il vero Altrove dell’umanità.
Quindi tutti i racconti umani che parlano di loro sono fake, son fasulli e menzogneri. Vero: son menzogneri ma sinceri. E in qualche modo perfino rispettosi. Perché io non potrò mai sapere cosa sia veramente, chi sia un leone “per sé”, perché non sono né sarò mai lui, né mai veramente in lui: posso solo raccontarlo “per me”. Solo così sono sincero, e lo rispetto. Gli mancherei più gravemente di rispetto se mi ponessi in capo e a scopo di parlare veridicamente per lui.
Così io faccio versi umani, rispettosi, su ragni e ippopotami, cani e delfini, bradipi e grilli: ma visti da qui, da me. Rispettosi e perfino amorosi. Anche quando ridacchio di loro, li prendo in giro. La risata amorevole, sappiamo, è una delle più dolci e forti forme d’affetto. Ecco allora la blatta rabbiosa, che è brutta: per noi, ma come l’antica sapienza multispecie ante litteram diceva, lo scarrafone è bello a mamma sua. Così il maestoso cammello che puzza e ha la faccia di uno che si crede bello; e la biscia sfacciata che strilla e noi non la sentiamo; e il rinoceronte zuccone ostinato, il destriero da passeggio di bambini, il “topotamo” errore creativo, le cicale tamarre rock.
Ma ecco anche gli elefanti camminanti, la primigenia processione della vita. Ecco la madre balena, nella cui pancia noi sogniamo di tornare. Ecco la tartaruga che non ha fretta perché è a un tempo il viaggiatore e il pianeta. Ecco delfini e orche che saltano per noi, ma sono loro che ci hanno ammaestrato, e alla fine (omaggio sfacciato alla Guida galattica per autostoppisti) se ne andranno dal pianeta morente dicendoci: “Grazie del pesce”. Ed ecco infine l’animale sconosciuto, la specie non ancora etichettata con un cognome umano, che i versi di bestia poeta scongiurano di non farsi nominare mai.
Con l’incanto e il gemello contrario, la confidenza; con reverenza e la sorella contraria, l’irrisione; col mistero insondabile e i cugini contrari, i cenni libreschi zoologici: ciò che ho fatto in questo libro in fin dei conti è risquadernare bene aperto sul pavimento l’antico Libro degli Animali della mia infanzia, quello di cui racconto in Doppio Blu.
Era grande, ricucito da qualche vecchio legatore perché forse si stava perdendo, con le copertine di grosso cartone che ricordo finemente picchiettate rossiccio su giallo, maculate come un minuscolo leopardo. E aveva belle illustrazioni colorate, realistiche, assorte: degne figure e semi dei miei sogni.
E poiché fin qui ho parlato del racconto dei versi, come se solo quelli fossero il libro; e poiché non so parlare con sapienza delle illustrazioni, perché quella sapienza non ce l’ho: allora dei disegni di Viola Niccolai, e della cura con cui i Topipittori li hanno guidati, dirò solo un semplice e antico grazie. Perché quelle, a un certo punto l’ho capito, son le figure bambine del mio Libro degli Animali oggi cresciute. Chiare, riconoscibili come quelle, icastiche, con musi vivi e veri e andamenti eleganti di zampe e di groppe in bel movimento pur ferme: come bambino le vedevo e le sognavo. Ma evanescenti ormai, sfocate, sulla via di svanire, come da adulto oggi vedo gli animali che si allontanano dolcemente nel ricordo, e duramente nella vita del pianeta.
Nei versi e nelle tavole, grazie ai Topipittori, ho potuto rendere onore facendolo crescere, anche se fra le mani di oggi è così piccolino, a quel grande Libro Sacro della mia infanzia.
Pagine tratte da Versi di bestie (Bruno Tognolini e Viola Niccolai, Topipittori 2022).
3 . Versi di bestie. I versi.
Un’ultima cosa, dopo aver parlato dell’Ala del Senso, le bestie che racconto, ora sull’Ala del Suono: i versi con cui le racconto.
Mi sono ormai riconosciuto, e rassegnato: sono un poeta rimatore. Scrivo poesie “filastrocche”, componimenti con forte battente struttura di metro e di rima. Episodi di vita diversi son serviti a capirlo.
Uno fra i tanti. Chiara Carminati è una mia cara amica, anche fuori dai libri. La sua arte poetica è anfibia, come quando va giù nelle sue apnee: è bravissima nelle rime filastrocche, e stupenda quando esce volando di rima e di metro. Lo scorso anno, dopo aver letto il suo Viaggia verso (Bompiani), mi son trovato a scriverle di getto, senza girarci intorno: “sei la più brava di tutti noi”. Nella risposta, tacendo per garbo le lodi, Chiara mi disse: “Chissà che un giorno o l’altro io non riesca a convincerti a fare qualche volteggio in altre zone poetiche! Anche solo fra me e te, in versi del tutto inediti nel vero senso della parola”. Le ho risposto che no, non lo farò. Pur leggendo con felice ammirazione i versi sciolti e fluenti di Chiara, di Giusi Quarenghi, di Silvia Vecchini, io non lascerò mai la mia antica scandita a metronomo rima tambura. Mi troverei spaesato, come quando mi figuro di scrivere anch’io un libro “per grandi”: semplicemente, non saprei dove cominciare.
Ci sono pianisti come Keith Jarrett che sono stati al tempo stesso esecutori classici eccellenti e straordinari pianisti jazz. Ma sono pochi: i più hanno suonato o perfettamente classico o perfettamente jazz. Ci sono grandi musicisti rock, pop, country, blues, reggae, e cento altri nomi più attuali. È tutta musica, sono tutti musicisti: ma perché un bravo suonatore di cumbia dovrebbe mettersi a suonare Chopin? Sarebbe talento sprecato.
Semplicemente: non c’è una sola regola, io penso. Per alcuni artisti è bene fare anche altro, se lo fanno bene. Per altri è bene fare sempre meglio quello che fanno.
Io quindi continuerò la mia rima tambura. Però una cosa posso farla: posso provare a scriverla sempre meglio. Non cambiare, migliorare. Concertare sempre più i metri, ricamare sempre più i suoni, giocare sempre più di rimalmezzo, di allitterazioni, di omoteleuti. Come Carlos Santana, svisare sempre più fine con le dita. L’Ala del Suono crescerà sempre di più, gagliarda e gaglioffa. E l’Ala del Senso, se la poesia vuole volare, dovrà tenerle dietro, estendersi ed espandersi a sua volta, finendo per farmi dire cose che non avevo la minima intenzione.
Così ho provato nei miei ultimi libri di rime, e molto in questo. Ho fatto versi per dire le bestie. Li ho fatti nel mio stile, col mio stilo, ma cercando di farli bene, sempre meglio. Perché questo è il compito di noi narratori poeti: dire le cose del mondo bene, perché siano così bene-dette. E benedire le bestie del mondo è cosa degna, che va fatta e rifatta nei millenni.