Colmare le lacune

[di Lisa Bentini]

Luigi Ghirri, Tellaro.

Ottobre, terza media. La scuola è iniziata da poche settimane e già non si parla d’altro: orientamento è la parola d’ordine. Ho l’impressione che tutto sia finalizzato alla scelta della scuola superiore, prima, e all’esame di terza media dopo, (un po’ come l’ultimo anno delle superiori in cui invece di terminare gli studi e trovare le parole e i gesti per congedarsi, si pensa già ai test di ammissione all’università), con il rischio che tutto ciò che si impara, si studia, o semplicemente si legge debba “servire” questa scelta. Una tensione apparentemente declinata al futuro, ma in realtà irrigidita dalla ricerca spasmodica di una “divisa” professionale.

I genitori chiedono, fremono, per sapere dove mandare i figli; i figli si dividono in due categorie: quelli che sanno già tutto, hanno già scelto, insomma gli orientati (spesso dal sistema però) e quelli, invece, che la bussola non l’hanno mai avuta (e nemmeno una stella buona), i disorientati. Poi ci sono gli insegnanti che dovrebbero fare da stella polare, o meglio da stella cometa: orientarsi non significa nascere, sorgere?

Mi sento inadatta a svolgere le solite attività di orientamento: indicare un massimo di cinque attività che piacciono; a scuola quale tipo di attività si è preferito svolgere in questi tre anni; quanto si ritiene di essersi impegnati a scuola? Mi dico, invece, che posso fare molto con gli strumenti della mia materia: libro, voce, penna, taccuino. Il taccuino ce l’hanno già. Quest’estate mi sono letta un po’ di interventi e saggi del gruppo di Italian writing teachers e subito decido di introdurre nelle mie classi l’uso del taccuino. «Insegneremo a cercare nel taccuino ciò che è “sporgente”», scrive Jenny Poletti Riz in Scrittori si diventa. Sottolineo più volte l’aggettivo “sporgente”. Mi piace. Mi immagino una roccia che sporge mentre sto scalando una montagna: mi ci aggrappo, mi ci appiglio, sono in bilico ma anche in salvo.

Li farò scrivere, come ho sempre fatto, ma la pratica dovrà essere quotidiana. Farò miei gli insegnamenti di Adriano Colombo: schiodarsi dal tema, creare occasioni di scrittura brevi e frequenti, scrivere e ri-scrivere, non far scrivere temi per far scrivere di più. I taccuini sono un luogo perfetto per raccogliere tutte queste scritture.

Dopo un mese li ritiro: capisco subito che ho tra le mani qualcosa di molto prezioso. Di fronte alle pagine stropicciate, alle maiuscole dimenticate, alle infinite calligrafie, tiro fuori la mia vecchia carta da lettere e scrivo a ciascuno dei miei alunni un pensiero a margine, cercando di essere insieme guida e testimone, occhio e orecchio, mano che indica una possibile direzione, un’invisibile combinazione: sono diventata una stella cometa oppure la grossa cometa di Biasky del film di Adam McKay?

‟Io, in questo periodo trovo ancora un abisso in me”, scrive Giovanni sul suo taccuino. Annoto: cosa succede se vado a capo? Se isolo la frase da tutto il resto e la riscrivo su un foglio bianco?

‟Mi piace sentire il profumo delle case degli altri”. Annoto: anche a me. (Hai mai letto Velluto. Storia di un ladro?)

‟Cosa c’era prima di me? (niente, tutto, mare, polvere, genitori)”. Annoto: se togliessi la parentesi, cambierebbe tutto. Non provarti a toglierla!

Leggo e rileggo i taccuini dei miei alunni e mi accorgo che già da settimane sto facendo orientamento. Ma siccome loro insistono e mi chiedono quando inizierò con le attività di orientamento vere e proprie, decido di fissare un inizio e una fine, di tracciare un percorso. La prima tappa è la lettura de Il colombre di Buzzati; le successive non le definisco prima, non le programmo, ma lascio che siano i testi e le reazioni dei miei alunni a condurmi.

Il Colombre, illustrazione di Dino Buzzati.

Stefano Roi ha dodici anni, un anno in meno dei miei alunni e si è appena imbarcato con il padre per inseguire la sua passione per il mare, quando scorge un colombre, uno squalo misterioso che perseguita fino alla morte le sue vittime - le uniche che riescono ad avvistarlo insieme ai propri consanguinei. La struttura fiabesca del racconto incanta e insieme perturba la mia classe. Svisceriamo i temi del racconto: ineluttabilità e irrazionalità del destino, paura del diverso, paura di guardarsi dentro e inseguire i propri sogni. Quest’ultimo tema ci interessa particolarmente, così come ci interessa il ruolo dell’adulto, in questo caso il padre, che per proteggere il figlio dal colombre gli vieta di andare per mare. Faccio notare che non è tanto il colombre a turbare Stefano, ma è la reazione del padre quando vede il colombre. Stefano cerca nel padre un incoraggiamento, ma il padre è terrorizzato. Seguiamo questa pista. Stefano obbedirà al padre, tradendo il proprio sogno, ma alla morte di quest’ultimo ritornerà a navigare e una volta vecchio, ossessionato dal colombre, deciderà di affrontarlo.

Chiedo di scrivere sul taccuino il monologo interiore di Stefano in risposta al divieto del padre. Ecco cosa scrive Giorgio. Tengo a precisare che su questo testo e sugli altri dei miei alunni che riporterò in questo articolo non sono intervenuta in alcun modo.

Perché? Perché proprio a me? Perché non ad un altro?

Starò attento, toglimi tutto ma non il mare. Uccidiamo il mostro così potrò tornare a navigare.

A viaggiare.

Mi nasconderò, starò attento, non mi prenderà e non mi farò prendere, ma lasciatemi continuare ad andare per mare.

Fin da bambino volevo navigare e non toglietemelo ora che sono ad un passo a consacrare la mia vita per il mare, non voglio smettere, non voglio abbandonare il mio sogno.

Non ora.

Non adesso.

Mai.

Come potrei convincere mio padre? Come potrò riuscire a continuare a navigare? Potrò?

Mio padre non me lo permetterebbe e non posso fare affidamento su mia madre, appena saprà il tutto sarà ancora più ferrea di mio padre. Non mi aiuterà mai.

La mia vita è stata plasmata di nuovo e io non posso farci niente…

Non c’è soluzione… ma deve esserci una soluzione.

Deve esserci una soluzione per non abbandonare il mare.

DEVE.

E se scappassi?... Sarebbe l’unica opzione… Con cosa sopravviverei?... Non posso rubare, neanche ai miei genitori… devo aspettare.

Quanto?

Fin quando sarò maggiorenne? Troppo.

Cosa potrei fare? Cosa dovrei fare?

Aspettare.

Posso solo aspettare.

Posso solo aspettare un momento.

Posso solo aspettare un momento propizio.

Un momento propizio… un momento propizio… un momento propizio… un momento.

Seconda tappa. Leggo il primo capitolo del romanzo Stoner di Williams, come fosse un racconto a sé stante. William Stoner, figlio di una coppia di contadini del Missouri, nel 1910 si iscrive alla Facoltà di Agraria spinto dagli stessi genitori nella speranza che la laurea del figlio possa aiutarli a migliorare il profitto del lavoro nei campi. Ma una volta all’università, Stoner scopre di voler studiare Letteratura Inglese.

American Gothic, dipinto di Grant Wood del 1930.

Anche qui lavoriamo sui temi del racconto: la letteratura come strumento per capire chi siamo, l’istruzione come emancipazione, l’insegnante come colui che tira fuori quello che abbiamo dentro. Come è difficile ri-conoscere le proprie passioni. Il ruolo dello scorbutico professor Archer Sloane è determinante, la lettura di un sonetto di William Shakespeare è determinante (come determinanti sono i nomi propri): «Shakespeare le parla attraverso tre secoli di storia, Mr Stoner, riesce a sentirlo?». A Stoner «non gli era mai passato per la mente che le zolle marroni su cui aveva lavorato tutta la vita potessero essere altro da ciò che sembravano», eppure Shakespeare gli parla e lui riesce a sentirlo tanto da non tornare più a casa e scegliere di diventare un insegnante di Letteratura Inglese.

Chiedo ai miei alunni di mettersi nei panni di William e scrivere una lettera ai genitori in cui spiegano i motivi di questa scelta. La lettera di Matilde:

Cordiale Padre,

Scrivo solo per comunicarti i miei pensieri.

Ho riflettuto molto all' inizio dell'università, pensando a te, ai campi, a

come sei stato costretto a lavorare per tutta la tua vita, a come mi hai

insegnato tutto quello che sai... Alle tue mani... Che sofferenti tacciono la propria malinconia, ai tuoi occhi... E a tutto quello che c'è dietro, e naturalmente al prodotto di tutta la fatica, un lavoro stupendo.

Ma vedi, padre, pensando per tutta la vita al grano, alla fatica e alla campagna, non mi sono mai preso del tempo per pensare se fosse veramente questo il mio futuro. E so che tu ti aspetti questo da me, che il nonno si aspettava questo da te, ma è ora di cambiare. Io voglio essere il cambiamento di questa famiglia.

Per questo quattro anni fa decisi di non fare più Agraria e di cambiare studi, e feci bene, perché i corsi di letteratura mi sono serviti più di ogni chicco di grano raccolto, più di ogni tronco potato, più di tutto.

Io insegnerò padre. Questo è quello che voglio, quello che mi sento

Ti ringrazio per ogni lezione di vita,

Verrò se mi chiamerai,

Un grande saluto

William

Terza tappa. Leggo M come il mare, albo illustrato di Joanna Concejo. Dopo le zolle marroni di Williams, dopo le mani del padre che «tacciono la propria malinconia», ritorniamo al mare. Il mare di nuovo protagonista e “antagonista”. Le doppie pagine del mare disegnate da Concejo sono ipnotiche. Il testo è breve, ellittico: «Di M sappiamo poco, solo l’iniziale del nome, che non è più un bambino, che è in spiaggia e vorrebbe essere come il mare, che ha gli occhi azzurri, che a volte è triste, che a volte urla, ma non ha voce, che pensa molto e si fa moltissime domande».

Illustrazioni di Joanna Concejo (M come il mare, Topipittori 2020).

A voce proviamo a seguire un’attività di comprensione del testo suggerita nel saggio di Cavadini, De Martin, Pianigiani, Comprendere, leggere, condividere. L’attività si chiama Colmare le lacune: «In qualsiasi testo viene chiesto al lettore di colmare le lacune: non è possibile che un narratore ci racconti tutto di un personaggio; senza rendercene conto, noi lettori, quando facciamo vivere il personaggio dentro di noi, integriamo delle caratteristiche e completiamo la sua storia.»

Nel taccuino di una mia alunna trovo annotato: ‟colmare le lagune”. Mi piace moltissimo. D’altra parte “lacuna” è una laguna, cavità, mancanza. E con tutto questo parlare di mare…

Mi piace la connotazione positiva che la parola “lacuna” assume agli occhi dei miei alunni. A scuola non si fa altro che parlare di lacune in senso negativo. Annoto sul mio di taccuino: ‟Colmare le lacune: procurarsi qualcosa si cui si sentiva la mancanza. Colmare un vuoto. Non è la vita stessa un continuo colmare lacune?”

Riprendo in mano il saggio di Nicola Gardini, Lacuna, e ritrovo una mia sottolineatura: “le persone sono buchi”.

Le immagini di Concejo sono piene di dettagli, non si finisce mai di scoprirli. Anche qui, come nei testi letti precedentemente, c’è un adulto: è una donna, sicuramente la madre, esclamano in molti. A guardare bene dentro il mare si intravedono tante cose. Bisogna guardarlo bene: M come mare. Il libro passa di mano in mano. Ognuno scopre un dettaglio diverso. Invito a esplorare i rimandi dentro e fuori del libro. Giochiamo a creare connessioni con quanto letto finora: l’immagine della bottiglia con dentro la nave di Concejo ci ricorda la nave di Stefano Roi. Anche la pietruzza azzurra di M. ci rimanda alla pietra del Colombre, e ci rimanderà al pezzo di vetro celeste del libro che sto per leggere: Vetro di Silvia Vecchini e Cristina Pieropan, quarta ed ultima tappa. Me l’ha consigliato la mia amica Alice quando le ho spiegato che vorrei concludere il percorso invitando la classe a scrivere un messaggio in bottiglia indirizzato a sé stessi. Anche la protagonista di Vetro decide di scriversi una cartolina dal mare: «Perché se sarò così diversa chi sarò? Meglio scrivere un promemoria di chi sono adesso».

Mio cuore

pezzo di vetro

guardando attraverso

vedo un poco distorto

quello che perdo

quello che ho dentro

il nuovo

che sento già pronto.

Quest’anno l’estate sembra non finire mai.

è quasi settembre ma fa ancora molto caldo.

Non posso ancora andare in acqua mentre io vorrei

avere il mare attorno alle caviglie, sentirlo salire su.

Scavo una buca profonda finché non vedo la

sabbia umida e l’acqua affiorare.

[Silvia Vecchini, Vetro]

Prima di terminare Vetro, mi fermo a leggere ad alta voce alcuni dialoghi tra Bruno Togliolini e il suo cane filosofico dal titolo Al mare con il cane in Doppio Blu.

Perché mi hai fatto prendere il mare nella bottiglia?

Così capisci dove sta l’azzurro.

E dove sta?

Le cose che ricordi di quando eri bambino, mi dicevi, ti paiono piene di senso, luccicanti.

Esatto, ma così le vedo ora, dicevamo. Il bambino, quel bambino che ero io, cosa vedeva proprio quand’era bambino?

Probabilmente niente. Trasparenze.

Trasparenze… ripeto fra me. - Come l’acqua nella bottiglia?

Proprio quella. Vedeva l’acqua che aveva intorno, i giorni suoi, che sono trasparenti come i tuoi. Vedeva il suo giorno ogni giorno.

E il giorno di ogni giorno è trasparente: uno c’è dentro e basta, non lo vede.

E io, invece, che guardo quel bambino da qui, da questa lontananza, nel ricordo…

Che cosa vedi?

Vedo i suoi giorni azzurri.

Vedi il mare.

Finisco di leggere Vetro e prima di scrivere il proprio promemoria chiedo ai miei alunni di rileggere quanto hanno scritto nel taccuino, scegliere una decina di parole e con queste comporre il loro testo. Ciò che è sporgente è anche un indizio da seguire, una lacuna capovolta.

Ecco qualche promemoria.

I. Mi piace immaginare la vita come una battuta, parte e descrive una parabola e quando la devi difendere non sempre ci riesci, e quando non riesci a difenderla vuol dire che hai lasciato il segno, che ci sei riuscito a differenziarti dalla massa. Quando gioco a pallavolo, quando gioco al gioco della vita mi sembra di volare perché posso essere me stesso, mi sento me stesso. Quando non gioco a pallavolo suono la chitarra e mi piace suonare dei suoni che stanno bene insieme in un insieme ritmico e armonico unico; la sera prima di addormentarmi rifletto come sarebbe la mia vita se fossi un altro. Diverso. La mattina quando mi sveglio ringrazio di esserci ancora, di essere ancora me stesso, di non essere cambiato perché non voglio cambiare; finalmente ho trovato la mia strada non la voglio perdere. 

II. Vado a nuoto perché mi rinfresca le idee, mi piace molto andarci, conto sempre le piastrelle, ormai conosco i graffi e le smerigliature della vasca.

Mi piace dormire, mi piace svegliarmi col cinguettio degli uccelli e il rumore rigido del vento.

Mi piace essere ordinato, e qualsiasi cosa che faccio cerco sempre di dargli un senso, mi piace scrivere messaggi a me stesso per poi leggerli dopo molto tempo.       

Mi piace far sorridere le altre persone e dargli sempre una mano.

Ogni giorno chiamo mia nonna, è molto bello fare due chiacchiere con lei.

In questo momento mi vengono molte idee effimere: girano e vagano come treni, vengono e scompaiono.

Il mio percorso sull’orientamento si conclude qui. Spero di essere riuscita a rimescolare un po’ le carte, a disorientare gli orientati e orientare i disorientati, a scavare buche profonde, a vedere i nostri giorni azzurri, a non temere i vuoti, a col-mare le lagune.

Testi letti in classe:

  • D. Buzzati, Il colombre;
  • J. Williams, Stoner (I capitolo);
  • J. Concejo, M come il mare;
  • B. Tognolini, Doppio Blu;
  • S. Vecchini, C. Pieropan, Vetro.

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